«Non ho capito»
Edward Morgan Forster, Aspetti del romanzo
«Un classico è un mio libro che non ha mai smesso di essere un mio libro»
Walter Veltroni, In punta di canone
«Ok. Tutto bene»
Utente Amazon, Recensioni Clienti
Iniziamo con una legge non scritta: quando approda sul mercato un libro di Veltroni un altro libro di Veltroni è in uscita subito dopo, quindici giorni al massimo, comunque a momenti, roba che non hai nemmeno il tempo di uscire indenne dal precedente, che poi a pensarci bene non sei riuscito a finire quello ancora prima, com’era il titolo, tipo Berlinguer – un’ultima cosa al volo, o forse Odiare l’odio: la ricetta per friggitrice ad aria.
Mentre si scrive quest’articolo è già sugli scaffali un nuovissimo viaggio nella memoria, Labirinto italiano, e vatti ancora a ricordare del ponte di Genova, di Morandi e Fossati, del Villeneuve ferrarista e di calcio, quel calcio di tutti i nostri colori. Nel Labirinto pare non ci siano bambini all’orizzonte, magari qualcosina sulla scuola che ha perso la sua missione, staremo a vedere.
In questa sede, tuttavia, ci preme affrontare un nuovo corso di studi della veltronologia che chiameremo «BANG BANG: Veltroni dentro/attorno/di fianco/de’ sguincio al giallo». Parliamo della seconda avventura del commissario Buonvino, Buonvino e il caso del bambino scomparso. Apre la saga Assassinio a Villa Borghese, uscito poco più di un anno fa: saltata la mozione Fichi d’India, e una volta istituito un commissariato a Villa Borghese, ci pensa la corrente DiCaprio a promuovere l’ispettore Buonvino a commissario di una squadra tutta sgangherata e guascona, simpaticissima; si va dal narcolettico al malinconico vicino alla pensione, passando per l’aspirante diabetico. Squinternati sì, però professionali e a loro modo geniali, delle teste di rapa con spirito. Durante una presentazione Veltroni spiega il suo approdo al giallo, ammette di non essere un cultore del genere, che certo apprezza Agatha Christie ma l’horror proprio no, ecco, come quella volta che spaventatissimo è scappato via di fronte al primo cucciolo di Xenomorfo messo al mondo nel primo Alien, «l’unico film in vita mia nel quale sono dovuto uscire dalla sala»; epperò non ce la dice tutta Veltroni, nella sua carriera cultural cinematografica politica lirica amministrativa letteraria qualcosa di Ridley Scott la peschiamo. Pensiamo a Jones il gatto, questo americano a pelo corto, perché no fil rouge tra Ellen Ripley e il Buonvino padrone di due gattini anche lui, si chiamano Gullit e Rijkaard, per il momento troppo paciosi per scaraventare un mostrone in quell’iperspazio dove nessuno può sentirti scrivere di morti ammazzati a Villa Borghese. Il racconto scopre poi le sue carte sanguinolente, vira deciso in direzione blood factor con secchiate di cadaveri, e a quel punto tra il Veltroniverse e Alien si può tentare la tipica sintesi.
Che giallista è Veltroni? «Io non ho proprio quel temperamento lì», risponde lui, gli manca il brutto carattere, è uno mite, qualche volta una persona triste, dice in più di un’intervista. Sì, va bene la vocazione maggioritaria, ma mai strafare. E come hai fatto nel primo romanzo a gestire questi due registri? «Penso che il lettore debba avere un brivido. A un certo punto deve arrivare un taglio di luce violenta». Facile indossare i panni del romanziere force tranquille, mica sono Simenon, buttace un po’ di sangue. Ettolitri. Pulp, molto pulp, pure troppo. Pochi tratti insomma per capire lo sbarco di Veltroni al genere, quindi prima un assassinio e ora una scomparsa, quest’ultima un po’ più nelle sue corde visto che a far perdere le tracce è uno dei topoi veltroniani per eccellenza: er regazzino. Il suo nome stavolta è Aldo – ci torneremo – silenzioso e tenero, a parte quando gioca a Gran Turismo 3, lì stringe sui tornanti navigatissimo. Chiaro, ben poca cosa rispetto a chi viene rapito in un sotterraneo e portato dritto dritto dalla regina degli Xenomorfi. L’infanzia per Veltroni sono perlopiù biciclette padri assenti e baci sul pancino, poi tutto si tiene; in Alien quello che rimane dell’infanzia è sotto shock, al massimo ti può avvertire che verso sera si diventa cibo per alieni.
Prima però di chiedere qualche commento ai nostri intervistati su alcuni passaggi del libro, regazzini inclusi, ricordiamo brevemente ai non iniziati solo alcune delle linee guida della Weltanschauung veltroniana.
1. La mancanza di un punto di vista: in tutti i suoi libri, come sappiamo, Veltroni «di fatto non riesce a distinguere tra un narratore focalizzato e uno onnisciente». Tutti i personaggi dei suoi romanzi parlano come vorrebbero parlare se solo amassero Veltroni. Ma non lo amano. Tutti i suoi personaggi non hanno propriamente la voce di Veltroni, ma non ne hanno neanche una loro particolare, autentica. Non c’è amore.
2. Il dialogo soggetto: la maggior parte dei dialoghi veltroniani riassumono quello che sta succedendo, dove stiamo andando, che fine faremo. Questi spiegoni durano parecchio e spesso finiscono con Eureka!, un omaggio a Aaron Sorkin. Si scherza. Nel caso del bambino scomparso solo un dialogo finisce con Eureka!; non proprio un dialogo, è più un personaggio che d’improvviso spiega filo e per segno come è giunto a quella scoperta, quali sono i rischi della stessa, misura impegno e brillantezza del lavoro svolto. Le virgolette chiudono la spirale lunga un paio di pagine e sei sull’orlo di un attacco di panico.
3. Il citazionismo random: ci sono citazioni medie in tutti i suoi libri, quasi tutte riferibili al suo immaginario cinematografico preferito degli anni ’50 e ’60, quasi tutte puntualmente fuori contesto. E tutti citano tutto, nel senso che a parte alcuni troppo «giovani» o troppo «distratti culturalmente», ogni personaggio dei suoi romanzi a un certo punta cita Hitchcock, un film di Hitchcock o il protagonista di un film di Hitchcock.
4. L’uso disordinato di più registri: Veltroni si serve di formule giornalistiche per fare narrativa, utilizza metafore stonanti e similitudini para-televisive, senza contare che da un momento all’altro può anche svitare la vita («Poi avvertirono un vuoto dentro di sé, ed ebbero la sensazione dolorosa che qualcosa, in quel tempo che iniziava, avrebbe svitato la vita. La loro. E quella di tutti»).
Ora la trama, per bene: dopo aver sbrigato appunto la faccenda dei cadaveri straziati durante il primo capitolo, il commissario Buonvino torna alla sua routine. «Ma i guai, la vita gliel’aveva insegnato, sono come le caramelle…». Durante una sua passeggiata spleen a Villa Borghese il commissario incontra una ragazza che, mantenendo la distanza, rivela che ha in serbo grandi rivelazioni (per chi non lo sapesse c’è anche una radio a Villa Borghese: si chiama Radio Villa Borghese, un po’ il termometro di quel microcosmo. Extra romanzo: secondo molti, più precisamente secondo Veltroni, il suo settennato al comando della città ha segnato la svolta nella cura del parco e in generale di tutti gli spazi verdi di Roma. I risultati sono visibili ancora oggi: se tipo entri da dietro, vicino alla fontanella sì, imbocchi la discesa e giuro che in bici te la fai su una ruota sola, tutto bello liscio, giù giù fino alla parte dove ci stanno i tedeschi col gelato, je fai ‘na bella derapata e via di nuovo per l’altra discesa, occhio ai passeggini, non famose riconosce, e poi te ne vai nella zona di quelli che corrono per trovare un senso di sé dopo la sbroccata della donna, che fidate è lì vicino appostata, lui che fa sicuro il dentista, tu fatte gli affari tuoi, te butti ancora più lontano, dove stanno quelli di architettura cor fumo bono, e comunque te ne accorgi che è tutto pulito riqualificato decorato tagliato, per terra manco una lattina un sercio gnènte, davvero un bel posto, però adesso vorrei tornare a casa, ‘sta gente mi mette un’ansia primordiale, ma quanto avrò speso per venire fino a qui, in termini sia economici che emotivi dico).
Ecco, dicevamo che Villa Borghese o chi per lei ci si rivela tutta dopo x capitoli. Veniamo a scoprire che la ragazza vicina ma distante non è altro che la sorella di Aldo, un bambino rapito e mai più ritrovato anni prima (dove? Non proprio a Villa Borghese, ma attaccatissimo a Villa Borghese, non serve manco la macchina, un paio di chilometri dài). Caso archiviato. Non per Buonvino e la sua squadra, che riaprono il fascicolo battendo palmo a palmo tigli e ippocastani del parco, nessuna pista può essere trascurata, er regazzino può nascondersi in qualsiasi anfratto, di solito è lercio piccolo innocente. Nessuna pista, a parte quella di interrogare un po’ chi ha lavorato in precedenza al caso ora bello che cold. C’era un magistrato, pare uno corrotto. Ed è pure morto. Quindi la squadra interroga più volte la madre di Aldo, pittrice edulcorata («Sono qui, teste di cazzo, e poi una risata, quella risata»), colleziona una decina di irruzioni nel suo bellissimo appartamento, proprio lì vicino, vicino Villa Borghese, come te sbaji, dice Veltroni, non troppo lontano, inutile pure aspettare i mezzi, facciamocela a piedi. Si studiano ben bene i documenti, nascono le prime cotte all’interno del distretto e alla fine che ti esce? Che è tutta colpa del pazzo cash. Non diciamo altro, ci siamo capiti.
Insomma, è il grande romanzo di Villa Borghese, lo attendevamo tutti, da quelli che rubano le tartine al Ninfeo a chi predilige l’hard-boiled ztl. Ma per capirci qualcosa di più su questa opera-mondo, anzi opera-villa, abbiamo proposto a tre esperti di commentare alcuni passaggi chiave del libro in uno zoom party da cui la sinistra deve ripartire. Un New Deal veltroniano, un piano Marshall per le omonime isole ecologiche: tante idee, moltissime sigle, nessun elettore. Li presentiamo in rigoroso ordine spicciolato: Paolo Zanchetti, professore ordinario di Letterature Comparate all’Università Ca’ Foscari di Venezia; Carla Franciosi, specializzata in Linguistica e Narrativa Straniera; e infine Christian Cavezzani, virologo e caporedattore della rivista scientifica Medicina tropicale e nuovi fastidi alla colonna.
Partiamo con una piccola scena, che vede Buonvino e due suoi agenti vedersi per pranzo. Uno dei due, evidenzia Veltroni in più parti, «è scuro di pelle». La cosa non va giù al nuovo acquisto, tal Cavallito, «un nerd coatto» biondo e grosso.
«Quel giorno il commissario portò a pranzo Cavallito e Cecconi al ristorante della Casa del Cinema. I due agenti sembravano felici di lavorare insieme come avrebbero potuto esserlo Trump e Joe Biden o Materazzi e Zidane. L’ultimo a unirsi al pranzo fu Cecconi.
Nel suo caso non si poteva dire che fosse scuro in volto, ma lo era. Salutò il commissario, si sedette, guardò freddamente Cavallito e si limitò a sibilare: «Sei uno stronzo».
«Cameriere, siamo pronti per le ordinazioni…», disse Buonvino alzando gli occhi al cielo, come l’emoji che preferiva.»
PZ: In tal caso lo scetticismo di Cecconi è più che giustificato. Cavallito ci ha provato con la sua ragazza al distretto, Ginevra.
CF: Pure.
PZ: A ogni modo Veltroni affronta di petto la questione razziale, senza rinunciare a un po’ di leggerezza. Il suo non è un tentativo di andare in avanscoperta del politicamente scorretto. È solo una maniera per sorridere della cosa.
CF: Ma di cosa?
PZ: Che questo agente è scuro.
CF: Ma scuro in che senso?
PZ: Non chiaro.
CF: Oh cristo.
PZ: Ci sfugge il punto: Buonvino ha a cuore la convivenza civile tra i membri della sua squadra. Cavallito è un po’ sui generis, il suo razzismo non viene preso bene dai colleghi. E quindi Buonvino lo fa lavorare insieme al pomo della discordia, Cecconi lo scuro. Il suo poi è un razzismo di reazione, viene da una brutta storia con altri scuri. E poi guarisce dalla cosa quando Buonvino gli apre gli occhi: «Sono certo che razionalmente capisci che se un delinquente ha la pelle scura questo non vuol dire che tutti i neri e i mulatti siano dei criminali. Ogni essere umano è diverso da un altro». Il cerchio si chiude.
CF: Quale cerchio? Cos’è un nerd coatto?
CC: Io sono un virologo.
E allora scopriamolo meglio questo Buonvino.
«Buonvino era un razionale. Ansioso, ma razionale. Razionale, ma ansioso.»
Oppure tramite le sue stesse parole: «Casa mia sembra Beirut nel 1982. Ieri ho mangiato uno stracchino che era scaduto dai tempi del governo Dini e, nonostante i miei sforzi titanici, ormai la polvere sui libri ha assunto forme laocoontiche».
PZ: Mi sembra un personaggio con una buona cultura, consapevole di sé e del suo lavoro, un tipo rigoroso. Non facciamo però oltremodo gli snob. Prendiamo per esempio un’altra uscita del Buonvino: «Ricordo la frase siderale di Beckett, in cui dice che il suo più grande terrore è sempre stato quello di morire prima di esser nato. Ora sono nato: da circa sette mesi sono nato. Se in più di mille pagine ho prodotto un sosia, era perché io non c’ero, non ci volevo essere: adesso ci sono. Ora che Dio mi ama, non ho più bisogno di esibirmi».
CF: Quello è Walter Siti.
PZ: Non ha nessuna importanza ai fini di quello che cerco di dire: Buonvino è un «artigiano della legalità», in definitiva un gran lavoratore, molto vicino all’attualità come abbiamo visto.
CC: Una letta al romanzo io gliel’ho data. Non è male.
CF: Sono l’unica che non capisce perché in uno suo ricordo dell’ex moglie a un certo punto Buonvino saluta Renzo Arbore?
Depistaggi e ricordi, pistole e cipressi calvi certo, ma la domanda che fa girare pagina al lettore è sempre la stessa fin dall’inizio della storia: Buonvino conosce l’amore? Facciamo parlare gli esperti su uno dei passaggi più importanti del romanzo, quando Buonvino incontra una nuova recluta, Veronica Viganò.
«Quella donna vestita da agente di polizia era un vero spettacolo della creazione. Non era giovanissima – nell’età della vita in cui la bellezza è un manifesto –, ma quando entrò e sgranò il suo sorriso discreto ed elegante al commissario tornò in mente la frase di Oscar Wilde: alcuni portano felicità ovunque vadano; altri quando se ne vanno.»
PZ: Anche qui però vi state perdendo qualche pezzo. Evitiamo di manipolare. Subito dopo Buonvino le confessa di trovarla simile a Pippo Inzaghi, per il buon ricordo che avrebbe lasciato agli ex colleghi. Lei ha un guizzo ed elenca tutte le squadre in cui ha giocato. È lì che scatta. Ovviamente non siamo nel letterario, ma abbiamo una bussola.
CF: Dici una direzione?
PZ: Lo vogliamo chiamare pastiche tematico? Facciamolo. Non dobbiamo avere paura di mescolare alto e basso. Qui abbiamo uno dei poeti più influenti della cultura occidentale e poi Pippo Inzaghi. E dov’è la vergogna? Tante volte ci siamo detti di aprirci alla cultura di massa, che noi accademici stiamo sempre lì, tra salotti e congetture; e intanto il mondo va avanti.
CF: Che cos’è una donna vestita da agente di polizia? È comunque un’agente di polizia?
PZ: Veltroni in primis disvela il femmineo: Buonvino è accecato dalla carica erotica della donna e poi subentra la stima poliziesca. Che mimesi ragazzi, che mimesi!
CF: Non siamo dalle parti della donna che piace perché sa parlare di calcio? Dalle parti della bella e brava?
PZ: Epperò se pure Veltroni mi diventa vittima della cancel culture non si torna più indietro.
CC: Ma se Veronica porta gioia quando arriva, chi sarebbe quello che porta gioia quando se ne va?
CF: Credo sia il nerd razzista di cui sopra.
CC: Ma lui muore alla fine?
CF: Nei romanzi di Veltroni non si muore. Si ricorda.
«Al ristorante Mascagni, all’interno del Bioparco, non si mangiava in maniera eccezionale, per usare un eufemismo. Su TripAdvisor aveva una stella e mezza, tipo il rating dell’Italia dopo il virus.» Così scoperchia il gran finale Veltroni: Buonvino e Veronica sono a pranzo fuori, lui l’ha accerchiata per tutto il romanzo con rispetto e professionalità. E di lei alla fine che sappiamo? Sappiamo che apprezza Pippo Inzaghi e che è vedova di uno messo sotto da un camion, oltre a saper cogliere tutte le citazioni d’essai che Buonvino ogni tanto butta lì, per vedere quanto sono affini. E lo sono, che diamine. Nel complesso interagiscono un paio di volte. Lei è uguale a Alida Valli nell’Uomo di Carta, racconta Buonvino. Veltroni inserisce due foto dell’attrice, una incornicia il primo incontro, l’altra certifica la prima uscita. Quindi camion + Pippo Inzaghi = foto di Alida Valli. Le cose ben presto sfuggono di mano: «Fuori, nella voliera, gli uccelli sembravano contenti», ma come sappiamo nel Veltroniverse non c’è conflitto né morte, figurati il sesso. Ecco con quali sapienti mani Veltroni gestisce la materia erotica:
«Fu il sovrano dei baci, carico di promesse. Si fecero poi cadere dolcemente vicino a una siepe che li riparava, dove si lasciarono andare, e fecero di più. Non tutto, ma di più. Buonvino temeva solo che da un momento all’altro arrivassero i suoi agenti con una torcia e li illuminassero impietosamente dicendo in coro, con uno stupido sorriso sulle labbra: è andata bene allora?».
CF: Cos’è «di più» rispetto al «tutto»? Parliamo dei notissimi preliminari giusto?
PZ: «Fu il sovrano dei baci.» Davvero niente male per un giallista che si farà.
CF: Ma non sono davanti al loro commissariato, o tipo attaccati?
PZ: Notare come il Veltroni romanziere riesca a far respirare la storia. Non assedia mai i suoi personaggi, li fa scivolare via con gli eventi.
CF: Perché l’unica paura che ha il commissario è di ricevere qualche battuta dalla sua squadra e non quella di essere effettivamente beccato? E perché gli altri pigliarla a ridere?
PZ: Nessuno se la sente. Lo dico io: il primo Camilleri.
CF: Ma poi perché si buttano dentro un cespuglio? Sono due poliziotti.
PZ: Forse Sciascia. Forse, ma aspettiamo il terzo.
CF: E perché nel romanzo c’è Renzo Arbore? Perché?
CC: Mi ha convinto. Non sarà il Bar Lume, ma con ‘sto Buonvino si fa roba nei cespugli. A scanso di equivoci io rimango un virologo.
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