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Nei mesi passati, in pieno lockdown, di idee per ammazzare il tempo tra le mura di casa ne abbiamo viste spuntare parecchie: liste di hobby e giochi a cui dedicarsi, di libri, film e serie tv da recuperare. Gli indiscussi protagonisti delle nostre attività casalinghe, tuttavia, sono stati workout e cibo. Da un lato, la volontà di mantenersi in allenamento tradotta in infinite dirette Zoom che offrivano gli esercizi più disparati, sia mai che qualcuno prendesse un grammo standosene disteso sul divano; dall’altro la condivisione parossistica di ricette, impasti, pane, pizza e la corsa all’ultimo, introvabile, cubetto di lievito. Tutto accuratamente documentato e postato. Abbiamo assistito, insomma, al sorgere di un’isteria equamente suddivisa tra chi eseguiva più squat e chi sfornava più margherite lievitate 120 ore. C’è voluto poco perché iniziassero a fioccare meme, battutacce e status ironizzanti l’esito tanto temuto di tutto quello sfornare e mescolare ingredienti: i chili di troppo. E allora giù di teste photoshoppate su corpi goffamente ingrossati, il tormentone «andrà tutto stretto», GIF di simpatici maialini che corrono affannati su sfondo di parmigiana di melanzane. Una tendenza che, per un certo periodo, non ha risparmiato nemmeno influencer e famosi a vario titolo. Per quanto condividere ricette e piatti faccia parte, in fondo, di un nostro modo di comunicare, meno giustificabile mi è parsa invece la necessità di sottolineare sempre e comunque il pericolo “grasso” all’orizzonte. Come si sarà sentita, ad esempio, una persona affetta da un disturbo del comportamento alimentare? Nessuno ci ha riflettuto più di tanto, forse anche per un semi-legittimo bisogno di spensieratezza, eppure tutta quella facilissima ironia ricade sotto una definizione ben precisa: fat shaming, cioè la discriminazione dei corpi grassi e non conformi.

Un fenomeno che ha origini lontane, come spiega Amy Erdman Farrell nel suo Fat Shame. Lo stigma del corpo grasso (2020, edizioni Tlon, traduzione di Dorotea Theodoli), primo saggio sulla grassofobia a essere pubblicato in Italia, con illustrazione di copertina e prefazione affidate a Chiara Meloni e Mara Mibelli, anime del progetto Belle di Faccia, che si occupa di body positivity e fat acceptance.

«I tempi sono maturi anche qui in Italia per discutere dello stigma dei corpi grassi»

Erdman Farrell, che attualmente insegna Women’s, Gender and Sexuality Studies al Dickinson College di Carlisle, attinge a un ampio ventaglio di fonti che includono vignette politiche, cartoline, pubblicità, teorie mediche e antropologiche e che a loro volta offrono spunti per ulteriori approfondimenti.
Partendo da alcune riflessioni su quella che, nel 2010, fu definita come un’epidemia di obesità dilagante negli Stati Uniti, il saggio esplora le origini storiche della nostra moderna ossessione per il grasso: perché l’essere grassi è diventato un «attributo di discredito» e come si è arrivati a disprezzare le persone grasse perché pigre, difettose, incapaci di controllo, viziose, ignoranti?

Lo stigma del grasso non si deve solo alle ansie emerse in tempi più recenti e legate a salute, autostima e forma fisica, ma ad alcuni concetti e teorie sviluppatesi già dalla fine del XIX secolo, quando politici, antropologi, medici e accademici individuarono nella costituzione fisica un parametro per stabilire l’idoneità di una persona ai privilegi della piena cittadinanza. Il grasso, quindi, passò dal piano fisico a quello caratteriale, anzi morale, e lo stigma che ne derivò è connesso anche allo sviluppo di idee su etnia, genere e civiltà.

«In termini odierni, se avesse un colore, il grasso sarebbe nero e se avesse un’origine nazionale, sarebbe immigrato, clandestino, di certo non sarebbe né statunitense né occidentale»

Nel saggio si analizza dunque la narrazione culturale e sociale del grasso, ma anche il modo in cui questa ha intercettato movimenti come quello delle suffragette e le variegate propaggini del femminismo, soprattutto di seconda ondata, nonché i movimenti per i diritti omosessuali e per quelli sociali, arricchendosi di un ulteriore livello di complessità.

Interessante è la distinzione tra corpi civili e incivili, che affianca l’essere sovrappeso a una vera e propria discriminazione sociale sulla base dei chili in più o in meno, in cui la magrezza è considerata il primo passo verso il potere, il successo e la bellezza, verso una vita migliore anche in termini di accessibilità alle cure mediche e a condizioni di vita auspicabili, oltre che a una vita sentimentale e sessuale.

«Le varie forme di discriminazione, che le persone grasse subiscono nelle scuole, negli studi medici, sul lavoro, nel condominio e nella loro vita sociale, significano che le loro opportunità di vita sono effettivamente ridotte. Rischiano di non avere una buona istruzione, un’equa assistenza sanitaria, una promozione o la sicurezza sul lavoro, un alloggio piacevole, degli amici, degli amanti o dei compagni di vita. In altre parole, potrebbero non avere una vita soddisfacente»

Chi come la persona grassa non è in grado di guadagnarsi l’accesso al livello superiore dell’esistenza, veniva e viene tuttora giudicato come civilmente inadeguato.

L’intento dell’autrice è illustrare come l’idea di grasso che abbiamo oggi sia compresa in aspetti della società che hanno a che vedere (in primis in America) con questioni legate a classismo, razzismo e privilegio. Questioni di cui solo adesso si sente parlare, almeno in Italia, ma che hanno radici più profonde di quanto non s’immagini. Amy Erdman Farrell fa luce sulla (dis)educazione subita dal nostro sguardo, complici anche una certa ossessione per l’alimentazione sana e la diet culture; ci racconta di come siamo stati abituati a disprezzare le persone (quasi sempre donne) grasse o che ingrassano, a mettere sotto accusa personaggi la cui ascesa e caduta sono passate inevitabilmente dall’ago della bilancia. Esemplari, in tal senso, i casi di Britney Spears e di Oprah Winfrey.
Il saggio ritraccia poi le tappe che hanno portato alla nascita del fat activism e della fat acceptance, ricordandone le diverse figure di spicco e i movimenti sorti all’indomani della Seconda Guerra Mondiale a cui si deve tanto in termini di lotte e rivendicazioni, a partire dal «rifiuto di chiedere scusa» per le proprie forme.

Prendere coscienza di questo iter storico è importante, per non derubricare i movimenti body positive e, di contro, il body shaming a mero atto performativo da piattaforma social e ritenerli quindi il frutto di una discussione solo recente. I social (la parte buona dei), e Instagram su tutti, semmai stanno contribuendo ad arricchire il dibattito su un tema che l’informazione e la narrazione ufficiali spesso liquidano in due righe o ignorano volutamente.

Tutti noi operiamo all’interno di questo sistema che plasma corpi e giudizi da oltre un secolo. Basti pensare a tante serie tv amatissime che negli anni ’90 hanno fatto delle gag su grasso e orientamenti sessuali uno dei loro cavalli di battaglia, anche quando animate dalle migliori intenzioni (mi viene in mente Friends, ma ne esistono tante altre). A programmi tv in cui l’attenzione indugia morbosa sui corpi “al limite” e sui percorsi di dimagrimento dei partecipanti: lo ricorda anche Erdman Farrell citando lo show “The Biggest Loser”, vera e propria gara a chi perde più chili. Prodotti che «incoraggiano gli spettatori a osservare i concorrenti e godere del modo in cui vengono provocati con snack allettanti e puniti con routine di esercizi estenuanti», alimentando la dannosa idea che la perdita o l’acquisizione di peso sia una challenge (e non qualcosa che ha a che vedere col benessere psicofisico dell’individuo) e dove ci si sofferma sull’umiliazione del concorrente, che in un certo senso si è meritato la sua stessa degradazione.

«Rafforzando l’idea del corpo civilizzato, la denigrazione dei grassi si unisce ed esacerba il razzismo, il sessismo, il classismo e l’omofobia e tutti gli altri mezzi con cui la nostra cultura classifica e opprime le persone in base agli attributi corporei e alla posizione sociale»

Una cultura che trova sostanza anche nella vergogna, nel senso di colpa, di costante inadeguatezza e nella paura di ingrassare. Condizioni che spesso sfociano in altri disturbi del comportamento alimentare, in malattie e psicosi che minano la serenità e la percezione di sé e del proprio valore.

Negli ultimi anni si è cominciato a parlare più spesso del problema della grassofobia ma, come ricordato dall’autrice in occasione di un incontro con i librai ospitato sulla pagina Facebook di Tlon, siamo ancora ben lontani dallo spogliare il termine “grasso” di ogni connotazione negativa, per renderlo finalmente neutro e considerarlo alla stregua di un qualsiasi aggettivo adoperato per descrivere un corpo, di qualunque misura e taglia sia. Non sarà facile scardinare decenni di pregiudizi e oppressione culturale, ma il dibattito è vivo e acceso, e si spera che libri come Fat Shame possano spingere a un ulteriore approfondimento delle tematiche affrontate, stimolare curiosità e riflessioni, per non essere più complici, anche inconsapevoli, di una certa cultura e per non cadere più nell’errore di credere che tutto si possa ridurre a una manciata di meme. Che poi, comunque, non fanno neanche ridere.

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