«Siamo umanitari e nobili, non abbiamo intenzione di conquistare altre razze, vogliamo solo trasmettere i nostri valori e in cambio impadronirci del loro patrimonio. Ci crediamo cavalieri dell’Ordine del Santo Contatto. Questa è una bugia. Noi cerchiamo solo l’uomo. Non abbiamo bisogno di altri mondi, abbiamo bisogno di specchi».
Nel 1961 lo scrittore polacco Stanislaw Lem dava alle stampe il romanzo Solaris, distillando in queste righe la sintesi perfetta del dramma epistemologico che consuma l’essere umano a confronto con il totalmente Altro. A parlare qui è Snaut, uno degli scienziati sulla stazione orbitante che ruota intorno a Solaris, pianeta ricoperto da un oceano senziente, abisso imperscrutabile in cui ogni razionalismo è destinato ad annegare.
La mia lettura di Menti parallele di Laura Tripaldi, edito da effequ nella brillante collana Saggi Pop, è stata accompagnata da un’infinità di sottolineature e note a margine, tra le quali un asterisco seguito solo dalla parola Solaris. Ci troviamo verso la fine del libro, quando l’autrice afferma: «Piuttosto che cercare di consolidare i confini che dividono l’umano dall’inumano, il naturale dall’artificiale, il vivente dal non vivente, è il momento che la scienza decida di stringere una nuova alleanza con i suoi mostri»; ma, in effetti, ogni pagina proietta il lettore in pensieri simili a quelli di Lem. Qualche settimana dopo ho ricevuto provvidenzialmente in regalo Demonologia rivoluzionaria (NERO), in cui, insieme a quelli di altri autori del gruppo di Nun, sono presenti alcuni saggi di Tripaldi. Nel suo Materialismo spettrale, l’autrice cita in maniera diretta proprio il capolavoro dello scrittore polacco, sottolineando l’impossibilità dell’oceano di Solaris di essere assorbito e metabolizzato dalla mente umana e ponendolo a esempio di ciò che l’uomo vorrebbe sottomettere alla propria misura senza riuscirci.
In Menti parallele, come recita il sottotitolo, l’autrice si propone di indagare l’intelligenza dei materiali, di tutti quegli elementi con cui entriamo in contatto nel nostro quotidiano, anche senza averne reale cognizione. Dottoranda in Scienza e Nanotecnologia dei Materiali, Tripaldi scrive un testo che, a partire da spunti chimici, pone questioni che si ampliano come increspature nell’acqua. Se gli esempi di partenza sono puntuali e specifici, gli interrogativi che ne derivano si muovono in senso profondamente interdisciplinare, dalla questione ambientale al ruolo del femminile nella scienza e di conseguenza nella società, perché ogni mutamento tecnologico-materiale origina anche una trasformazione socioculturale.
È anche in questa prospettiva che vengono chiamate a testimoni, tra gli altri, teoriche della scienza come Sadie Plant (a sostegno della tecnologia soft, che pone la tessitura alla base della computazione), Karen Barad (che parla di performatività queer della natura), o ancora Luce Irigaray (che concepisce la realtà come un sostrato fluido in compenetrazione e interferenza costante) e Donna Haraway (con il suo celeberrimo cyborg dalla natura profondamente emancipatoria).
Menti parallele trasmette anzitutto un profondo senso di urgenza: è fondamentale porsi in un nuovo ordine di idee per concepire e indagare il mondo, ripensare il nostro rapporto con la tecnologia e gli elementi che la compongono, ammettendone l’intelligenza.
La dimensione da cui prende le mosse Tripaldi è quella dell’interfaccia intesa come vera regione materiale, lo spazio in cui si crea un nuovo stato di materia a partire da due diversi. Tutta la nostra osservazione della realtà non è che un rapporto con l’interfaccia e, di conseguenza, una relazione: la conclusione è che la conoscenza non è un momento in cui l’uomo esercita il proprio dominio (o la propria presunta superiorità) su di un oggetto ma un atto creativo e collaborativo tra due soggetti.
L’interfaccia è quindi una zona di confine, quell’area che la scienza classica determinista ha sempre cercato di evitare e contrassegnare come mostruosa – dimenticando forse l’origine della parola “mostro”, dal latino monstrum, “meraviglia”, “prodigio” – per via della sua essenza molteplice e sfuggente, e che la scienza contemporanea deve invece attraversare per potersi espandere. Le separazioni nette non sono che il riflesso di un approccio sterile e pericoloso, l’interfaccia è il luogo dell’incontro e dell’intreccio.
Non è un caso che Tripaldi insista molto sull’esempio della tela del ragno e della tessitura, che occupano nel saggio una centralità sia allegorica sia pratica. La tessitura si fa così emblema di quella tecnologia soft in cui sarebbe auspicabile dirigere la ricerca e della necessità di guardare alla realtà come una trama inestricabile di componenti, che proprio dalla loro intra-azione generano risposte intelligenti. Toccando la teoria della complessità (etimologicamente: complexus, “tessuto insieme”) si palesa uno sguardo alla materia come relazione e processo, abbandonando la precedente visione divisiva di identità statiche capaci solo di cozzare tra loro (a livello macroscopico quanto microscopico), che ha evidentemente concluso il suo ciclo.
Invocando come numi tutelari svariate figure, che passano dal cyborg al golem, dal su citato ragno alla sorprendente melma policefala (physarum polycephalum), il discorso di Tripaldi sulla mente mostra come il modello centralizzato (mente uguale cervello, nucleo precisamente posizionato e circoscritto) non sia che uno dei tanti modi in cui l’intelligenza può manifestarsi. Ricercare nella materia il riflesso dell’uomo è uno degli abbagli più dannosi e limitanti dell’antropocentrismo. Nella sezione «Molte teste» del libro si parla infatti di «orrore policefalo»: l’idea che la mente possa essere distribuita diversamente da come la si è sempre concepita è qualcosa di arduo da concepire e il razionalista classico preferisce ascriverla alla schiera dell’orrido.
Ne è un esempio la mente a struttura diffusa dei polpi, ma anche l’intelligenza dell’interfaccia sviluppata dalla melma policefala. Si tratta di una peculiare muffa in grado di spostarsi verso le sue fonti di nutrimento.
«Quando si ritrae da una superficie, la melma deposita una sostanza che segnala al suo corpo di non espandersi più in quella particolare regione, costruendo una vera e propria memoria spaziale del proprio ambiente. Questa capacità di ricordare ciò che la circonda […] permette alla melma policefala di colonizzare il proprio ambiente con un’efficienza molto simile a quella umana pur senza avere un cervello e, probabilmente, senza averne alcuna coscienza».
La mente si costruisce in questo caso proprio nell’interfaccia, di volta in volta nell’incontro con l’esterno, in una rete dalla complessità crescente. L’osservazione della materia ci indica che l’intelligenza è qualcosa di diverso dalla mera, umana, autopercezione: si manifesta anche nel produrre reazioni all’ambiente, nel generarsi come vera emergenza dalla complessità, risultando dalla tessitura eterogenea di più componenti.
Ripensare e decentrare il concetto di mente significa restituirgli una maggiore aderenza alla realtà e porsi in una diversa prospettiva, che vede l’intelligenza non più come una risorsa calata dall’alto a piegare il resto alla propria volontà, ma come una risposta che può emergere dal basso, producendo soluzioni molto più efficaci anche se meno controllabili e prevedibili. Le menti di cui si occupa Laura Tripaldi sono non gerarchiche, ma, appunto, parallele: nessun cervello comanda un corpo altrimenti inetto, tutto è parte del medesimo insieme, tutto è soggetto.
«Questa relazione tra corpo, mente e ambiente è forse l’aspetto più significativo dell’intelligenza dei materiali: proprio perché la mente non è più confinata in un cervello, ma si esprime in un corpo che comunica con altri corpi, l’intelligenza diventa un fatto relazionale, manifestandosi in una rete materiale che oltrepassa i confini dell’individuo».
La grandissima stratificazione alla base della complessità non è qualcosa che può essere compartimentato e spiegato singolarmente: una simile visione fornirà risultati parziali e inautentici, inadatti a fronteggiare un mondo come quello che il presente ci sottopone continuamente. Per questo motivo gli interrogativi di Laura Tripaldi chiedono a gran voce di mettere in discussione anche concetti immensi da sempre dati per assodati come quello di vita. L’autrice riprende un articolo degli astrobiologi Bartlett e Wong in cui viene coniato il termine lyfe (traducibile come “vyta”) atto a espandere l’idea del vivente oltre i confini imposti dalle nostre cognizioni precedenti. Per Bartlett e Wong, lyfe è ciò che si manifesta intorno alle caratteristiche di dissipazione, autocatalisi, omeostasi e apprendimento, oltrepassando le definizioni legate alla vita animale e vegetale: può esserci vyta anche nell’area dell’artificiale, non solo nella natura che, riprendendo Donna Haraway, non è altro che un concetto, a sua volta artefatto.
Lo studio dei sistemi complessi rifiuta le identità monolitiche, l’idea della natura composta da «mattoncini che si scontrano», e si concentra su fluidità e relazione. Nessun riduzionismo può restituire le infinite possibilità che la materia ci riserva, l’unica via per prendere davvero in analisi temi dall’importanza sempre crescente è il dialogo, guardare alla realtà come conversazione e studiarla mettendo in relazione ambiti lontani. Laura Tripaldi apre ogni sezione del suo libro con una citazione di origine letteraria: Primo Levi, Apollodoro, Gustav Meyrink, Mary Shelley, Julio Cortázar non sono mai sfoggio erudito ma si fanno punto di partenza ripreso puntualmente nel testo, quasi sviluppo scientifico di quanto cantato poeticamente in epigrafe. E così la creatura di Frankenstein, Aracne, l’Idra si leggono alla luce della cibernetica di Wiener, dell’autopoiesi di Maturana e Varela, delle strutture dissipative di Prigogine. L’intero saggio è una dichiarazione d’intenti contro l’iperspecializzazione – contro la separazione tra «le due culture» denunciata già nel 1963 da Charles Percy Snow – intessuto com’è tra scienza, filosofia e letteratura, richiamandosi spesso direttamente al mito.
D’altronde, le nanotecnologie non sono altro che le pronipoti del lavoro degli alchimisti. Menti parallele, in linea con il rifiuto di ogni struttura piramidale, non pone mai le prime al di sopra dei secondi, sostenendo piuttosto che rimettersi nel solco dell’antica alchimia (che restituiva alla materia la propria spontaneità rinunciando a ogni chimera di controllo assoluto) sia la via più saggia da percorrere.
Se soggetto e processo sono indistinguibili la mente è uno sviluppo costante, un ribollire impossibile da categorizzare, mai oggetto posseduto ma processo. In Menti parallele la passione della sua autrice filtra palese da ogni frase. Con un linguaggio che riesce a rendere fruibili gli specialismi senza rinunciarvi, Laura Tripaldi dà vita a un libro-mondo che riesce in un’impresa titanica: permettere alla chimica di raccontarsi in forma quasi narrativa, per certi versi avventurosa, e rivelarsi nei suoi legami strettissimi con il nostro quotidiano, andando oltre l’aneddotico elenco di curiosità.
Laura Tripaldi si pone nella scia di una corrente di pensiero sempre più grande, che mira a uno sguardo del tutto diverso sulla realtà: in narrativa passa dal weird – penso alle fusioni paniche con l’ambiente esterno di Jeff VanderMeer – all’analisi redatta da Matteo Meschiari nel suo Antropocene fantastico (Armillaria, 2020), o ancora al già citato Demonologia rivoluzionaria, così come a Tra le ceneri di questo pianeta di Eugene Thacker (NERO, 2019), con il suo «mondo senza di noi», e tutta una lista in crescita esponenziale. Allo stesso tempo le sue riflessioni operano in linea con quelle dei «trent’anni che sconvolsero la fisica», come George Gamow definisce l’avvento dei quanti, quando Heisemberg, Bohr e i padri dell’interpretazione di Copenaghen diedero alle stampe testi che non si limitavano a divulgare le loro scoperte ma ne raccoglievano anche le conseguenze epistemologiche, sociali, politiche. Tripaldi raccoglie questo approccio: il suo libro è un distillato alchemico di scienza e filosofia, ricondotte alla loro originaria e vitale inscindibilità, nella consapevolezza che ciascuna attinge sempre alla sostanza dell’altra.
La necessità impellente che satura di urgenza Menti parallele è quella di congedarsi dalla separazione netta che intercorre tra tecnologia e organismi viventi, chiamandosi fuori dall’obsoleto paradigma antropocentrico, con le sue illusioni malsane di dominio sulla natura e le devastanti implicazioni politiche e ambientali.
«I materiali intelligenti possono agire come porte magiche che permettono di rompere lo specchio, l’idea dell’intelligenza umana come semplice riflesso di una realtà oggettiva, aprendo il nostro sguardo su un universo molto più senziente e molto più dinamico di quanto potessimo immaginare».
Come nel finale del classico di Richard Matheson Tre millimetri al giorno, in cui un uomo che si rimpicciolisce quotidianamente si ritrova a confrontarsi con il sopraggiungere del millimetro zero (e, secondo la logica classica, al proprio annientamento), è solo quando i nostri parametri consueti abdicano che si possono spalancare nuove galassie di senso. Ciò che rimane più vivido della lettura di Menti parallele è quanta ricchezza inesplorata si celi nelle zone di confine, e quanto importante sia frantumare il nostro riverbero umano per cominciare ad abitarle. Il solo modo per apprendere dall’oceano di Solaris è nuotarci.
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