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L’edizione 2019 del festival del fumetto di Bilbolbul ha trovato un modo di esistere attraverso numerosi e interessanti incontri multimediali (da seguire su Facebook o ritrovare su Youtube). Come ogni anno, poi, l’associazione Hamelin ha pubblicato un catalogo che raccoglie interviste e approfondimenti (Prendere posizione). Quest’anno la parola va ad autrici cui si chiede: “come accadono i corpi sulla pagina?” Una domanda fondamentale, perché è contemporaneamente estetica, plastica, prospettica e morale, come suggerito dal titolo del catalogo.
Pubblichiamo su Altri Animali un estratto dall’intervista realizzata da Giordana Piccinini ad Anke Feuchtenberger (1963-), autrice tedesca tra le più importanti e originali degli ultimi decenni.

 

Il fatto di vivere nella Germania Est avrà anche influenzato la tua “formazione fumettistica”, nel senso che credo fosse molto più difficile poter leggere ciò che in altri paesi circolava più diffusamente. Quali sono stati i vantaggi e gli svantaggi di questo percorso?

Vivendo nella Germania Est non ho incontrato il fumetto (Töpffer non lo chiamavo fumetto, per me erano storie in immagini, Bildgeschichten) fino a quando, entrando già adulta per la prima volta in un negozio di fumetti dopo la caduta del muro di Berlino, a ventisette anni, mi sono sovreccitata percettivamente per la quantità e i colori e mi sono concentrata istintivamente solo su due fumetti, uno di Mark Beyer e uno di Jacques de Loustal. Fino a quel momento ero stata molto più influenzata dalla pittura, dalla scultura e anche dal teatro. Penso sia stato un bene non aver avuto idoli fumettistici, che avrei potuto cercare di copiare.
Quando seguivo i corsi di grafica e scultura, mi chiedevo cosa avrei potuto fare dopo gli studi. Diventare un’autrice di manifesti per il partito socialista? Fare libri per bambini sarebbe stato bellissimo, però sapevo già che non sarei riuscita ad adattarmi. Così mi concentravo sulla scultura e mi sono diplomata con un lavoro per il festival del cinema sovietico, che in quel tempo di Glasnost era bellissimo, forte, radicale.
Quando lavoravo per i gruppi teatrali cresceva la voglia di fare non solo programmi di sala, ma anche piccole storie disegnate usando i testi di Shakespeare o di Büchner, per esempio. Non essendo cresciuta con i fumetti, mi inventavo un modo, fondato sulla mia conoscenza del teatro. All’inizio le mie storie erano forse più teatrali e non come quelle dei fumetti classici, sicuramente avevano tanti difetti: non avevo la pratica artigianale del fumetto, ma questo mi ha spinto a usare la mia energia per creare un mondo più in rapporto con la cultura che ho descritto prima.

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Quando ti sei affacciata al fumetto, negli anni Novanta, c’era un momento di grande trasformazione. Hai sentito una vicinanza con il processo di rinnovamento che questo linguaggio stava sviluppando?

Già nella DDR quando lavoravo per compagnie teatrali indipendenti, disegnando manifesti, costumi e scenografie, ho sviluppato spontaneamente un disegno sempre più narrativo. La rivista svizzera “Strapazin” è stata la prima a scoprire e pubblicare disegnatori che lavoravano nella Germania dell’Est. Dopo la pubblicazione, sono stata invitata in Svizzera per il festival Fumetto dove ho potuto incontrare disegnatrici e disegnatori che stavano ricercando in maniera indipendente come facevo io.
È stato così importante per me trovare per esempio Dominique Goblet, Julie Doucet, Thomas Ott, M.S. Bastian, Lorenzo Mattotti, Max, David B., perché in Germania non c’erano tanti fumettisti interessanti a quel tempo, e pochissime erano donne. Così si sono sviluppate amicizie e una rete di respiro internazionale.

Hai iniziato a fare fumetti negli anni Novanta e hai vissuto già da adulta gli anni Ottanta. Per noi quel decennio ha significato anche essere immersi in un immaginario sul femminile molto stereotipato, quasi a cancellare i risultati di un decennio di lotte femministe. Senza contare che anche la tradizione del fumetto aveva forti stereotipi sulla rappresentazione femminile. Come ti sei posta di fronte a questo immaginario?

Ho vissuto la mia adolescenza negli anni Settanta nella Germania Est, dove molte delle cause per cui le donne dell’Ovest stavano lottando erano legate alla realtà: il diritto di abortire, il lavoro, il salario pari a quello dell’uomo, l’asilo per i bambini. L’emancipazione delle donne era imposta dal governo. Non conoscevo nessuna donna che stesse a casa, come casalinga. Non ho visto immagini pornografiche pubblicate, non c’era nemmeno la pubblicità. Credo che questo sia stato molto importante per l’educazione di un immaginario.
Le città erano grigie, sporche, piene di manifesti con i ritratti di Marx, Engels, Lenin… non c’era grande possibilità di perdersi nel consumo, nel fashion. Quando volevo portare un vestito chic, me lo facevo io. Il mio desiderio – come quello di altre artiste e artisti – era di rendere migliore il socialismo attraverso azioni illegali e sovversive.

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Con la caduta del muro, il socialismo è stato velocemente mangiato dal capitalismo, la rivoluzione che poteva cominciare è stata affogata nel consumo, che improvvisamente era possibile. Una strategia molto efficace per interrompere un’azione politica rivoluzionaria.
Ho preso consapevolezza del fatto che la situazione politica e sociale, per le donne, era come tornata indietro storicamente. Immagini pornografiche, prostituzione (davanti alla finestra di casa mia), entravano nelle città, perché l’Est era un campo libero per il mercato. Era tutto nuovo per me. Qui ha preso forza la mia idea di resistenza a questo “nuovo” sistema, con il disegno di manifesti che potessero dare voce alle donne, insieme alla ricerca di luoghi sicuri (le Case delle Donne) lontani dalla paura e dalla violenza, accanto alla costruzione di asili per l’infanzia, diversi da quelli della DDR. I temi della mia ricerca con il disegno erano incentrati su questo. Da qui il desiderio di scrivere e disegnare storie servendomi degli strumenti del fumetto.
Negli anni Novanta, a causa del contesto in cui mi muovevo, non ho fatto guerra allo stereotipo femminile del fumetto perché non lo conoscevo, non lo frequentavo. Ma mi sono impegnata a seguire la necessità di formare la mia idea e di andare più in profondità nella ricerca di quello che mi interessava, trovando connessioni con la fertilità, un’immagine del corpo non contaminato dal commercio. Mi piaceva, essendomi formata negli anni Ottanta, che il disegno fosse brutto. Essere provocatoria, emotiva, un po’ come Anne Clark.

I corpi dei tuoi personaggi provocano due reazioni che sembrano quasi contraddittorie ma invece si completano l’una con l’altra: da una parte emerge la “mostruosità”, mettendo in scena corpi deformi, sghembi, senza capelli, a volte anche fluidi; dall’altra si sente con forza che i tuoi corpi sono stratificati, complessi e per questo “veri”. Insomma, mostruosità e autenticità: trovi un legame tra queste due parole?

Scusa, mi sembra un po’ giudicante quello che dici. Cosa sarebbe un corpo non deforme, un corpo “forma” nel fumetto? Nel fumetto tradizionale tutti i corpi sono deformi, per raccontare meglio c’è bisogno di farlo, penso. Un topo come Mickey Mouse non esiste. È completamente deforme.
Io avevo un’educazione molto accademica, basata sul realismo socialista. Volevo proprio lasciare questo realismo e ho cominciato, alla fine degli anni Ottanta, un processo per dimenticare l’anatomia e le mie esperienze nel disegno naturalista. Per me era un’evasione dalla prigione accademica, e chiaramente era anche una provocazione: una donna senza tette e senza capelli provocava molta resistenza, non solo da parte dei maschi. Per questo sono stata anche insultata. Però non mi sono mai fissata su un certo stile. Ho cercato sempre di cambiare i corpi e di fare il contrario di quello che avevo fatto prima. C’erano donne senza capelli, ma anche donne con tantissimi capelli. Cercavo e cerco un’altra forma di bellezza, che include anche i vermi, i bruchi e forme organiche che non vengono adorate per la loro bellezza.

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Nei disegni di Puttana P ho sentito una dialettica molto intensa tra corpo e architettura, tra organico e inorganico, tra metamorfismo e rigidità. Quale dialogo cerchi di instaurare tra questi due elementi?

Ho vissuto tanti anni nel centro di Berlino Est. Attorno a grattacieli di cemento. Dieci anni all’undicesimo piano. Nel sopravvivere a questa anomalia per il corpo, per il fatto di essere così lontana da terra, ho cercato di capire gli spazi. Mi piace molto camminare e sentire lo spazio e le distanze fisiche. Solo nella città la luce può disegnare sui muri.
Nell’adolescenza ho passegiato con la mia cagna per chilometri e mi sentivo come un cane io stessa: non mi piace la città, mi manca la terra sotto i piedi, però è molto seducente quello che si sente. Odori interessanti. Spazi artificiali per trovare altre persone, che sono segnate da questi posti. Berlino è un mostro gigantesco, con tanti spazi vuoti perché è stata distrutta durante e dopo la guerra.
Il socialismo cercava di realizzare un’architettura economica, per tante persone, case alte con abissi tra una e l’altra.
Come in Wee Willie Winkie di Feininger, ogni casa mi sembrava avesse un diverso odore, un altro carattere. In Das Haus ho cercato di usare il mio desiderio, la nostalgia che avevo quando ho dovuto lasciare Berlino come un desiderio del corpo. Scrivere le memorie di certi posti come memorie del corpo, che è una casa. Capivo che il corpo è l’unica casa permanente che abbiamo.
Penso che lo spirito della distruzione di Berlino si senta ancora. Adesso è anche dimostrato scientificamente, ma è una cosa che penso già da molto tempo e su cui mi sono confrontata anche con in miei cari amici e colleghi del gruppo Actus di Tel Aviv: i nostri genitori non ci hanno lasciato in eredità solo il colore dei capelli, ma anche il trauma della guerra, per esempio, oppure quello dell’educazione prussiana. La città, gli edifici, mi sembrano una bella metafora per questi resti che sono lasciati nel nostro corpo dal passato. Lo spirito di una città appare, per me, quando lo sento con tutto il corpo, passeggiando. Questo ho cercato di descrivere in Die Spaziergängerin, con saggi grafici da e su diverse città dove sono stata.

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