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Andrea Long Chu è l’autrice di Femmine (2020), edito per Nero nella traduzione di Clara Ciccioni. Il testo è un libello di cento pagine che entrerebbe facilmente in una tasca e la sua copertina è rosa per un semplice motivo: siamo tutti femmine. A scanso di futili provocazioni basate su quale colore vada al maschio e quale alla femmina, l’autrice guadagna subito la curiosità del lettore dando al suo saggio un incipit stuzzicante:

«Siamo tutti femmine.
Tutti i libri peggiori sono stati scritti da femmine. Un elenco di cose inventate da femmine comprenderebbe: gli aeroplani, i telefoni, il vaccino per il vaiolo, il ghosting, il terrorismo, l’inchiostro, l’invidia, il rum, il ballo di fine anno, la Spagna, le automobili, le divinità, il caffè, il linguaggio, la stand-up comedy, ogni genere di nodo, il parcheggio in doppia fila, lo smalto per le unghie, la lettera tau, il numero zero, la bomba H, il femminismo e il patriarcato. Il sesso tra femmine non è migliore o peggiore di qualunque altro tipo di sesso, perché nessun altro tipo di sesso è possibile. Gli squali attaccano esclusivamente le femmine. L’1% è femmina al 100%.
Non tutte le femmine sono serial killer, ma tutti i serial killer sono femmine, compresi i necrofili. Tutti gli stupratori sono femmine. Le femmine hanno architettato la tratta degli schiavi sull’Atlantico. Tutti i morti sono femmine. Tutti i morenti, anche.
Io sono femmina. E tu che stai leggendo, pure tu sei femmina – anche (soprattutto) se non sei una donna. Benvenuta. Mi dispiace».

Long Chu racconta della nascita di certa parte del femminismo, iniziando dal Manifesto SCUM e dall’opera di Valerie Solanas. Per chi non conoscesse Solanas, una parola-chiave è imprescindibile: estremismo.
Manifesto SCUM, dunque. Si tratta di una polemica caustica e senza pietà rivolta al governo, agli uomini e a molte donne; in seguito Solanas scrisse una commedia dal titolo che non dimentichi facilmente: In culo a te (Up Your Ass, in inglese). Solanas fu un’attivista e una scrittrice dal carattere bellicoso che iniziò a farsi strada nel Greenwich Village di New York tra gli anni ’50 e ’60; cercò per lungo tempo di collaborare con Andy Warhol, dal quale non ricevette mai risposta. E siccome in guerra non si guarda tanto al sentimentalismo, Solanas gli sparò nel 1968, all’uscita dal suo studio, la Factory, in piena Manhattan. Warhol si salvò per miracolo.

Poco dopo l’introduzione di SCUM nel dibattito femminista dell’epoca, Solanas passa alla sua opera più nota con un esergo diretto: «Dedico questo atto a ME STESSA», urla da In culo a te.
La protagonista della commedia si chiama Bongi Perez. Bongi è il ricettacolo della misandria più feroce, ma anche di un maschilismo non tanto celato; per tutta la commedia, Bongi non fa altro che parlare male degli uomini e fischiare e insultare le donne. In culo a te è un autocompiaciuto manifesto dello stile di vita di Solanas: arrabbiato, provocatorio, irascibile, sfacciato, e non manca di una ridondante nota pornografica che difficilmente sarebbe stata tollerata da un pubblico.

Bongi reclama a gran voce la fine del sesso maschile attraverso l’accurata selezione del sesso dei feti, i quali, prima di differenziarsi in maschio e femmina, si formano tutti coi due cromosomi femminili X. L’accidentalità del cromosoma Y, che forma i caratteri del maschio, è, secondo Bongi-Valerie, un errore genetico. Ma ciò che Solanas non sa (o sa, ma non se ne cura) è che propone lo sterminio del genere maschile sulla base dei caratteri che gli uomini attribuiscono di norma alle donne: vanità, sottomissione, ansia narcisistica e passività sessuale. Il titolo della commedia, in fondo, è anche un gioco di parole sulla sodomia. Ciò che fa In culo a te, ripercorrendo la dottrina di SCUM, è di proporre una «misoginia contro gli uomini».

«Siete confusi? Bene. Anche Valerie lo era, non perché non sapesse di cosa stava parlando, ma per la sua accanita devozione alla sua stessa ambivalenza: una lavoratrice sessuale che si dichiarava asessuale, una lesbica che andava a letto con gli uomini, un’autrice satirica senza senso dell’umorismo, una che odiava gli uomini ma spesso e volentieri si comportava come gli uomini che odiava».

Dopo l’introduzione sull’opera di Solanas, Long Chu indirizza il suo saggio verso una definizione ben precisa: femmina è qualunque operazione mentale che sacrifica il sé per fare spazio ai desideri di un’altra persona. Quando parla di femmine, Long Chu non si riferisce né al sesso biologico, né al genere. L’essere femmina prescinde dall’attribuzione del cromosoma XX, è una condizione assoluta dell’umanità. Essere è essere femmina, le due cose si equivalgono. Ognuno di noi, di conseguenza, fa i conti a modo proprio col suo essere femmina e questo definirebbe il genere.

Leggendo Femmine, si potrebbe incorrere nel superficiale giudizio di considerarlo uno studio di genere che fa della provocazione il suo stendardo: un’asserzione quasi imperativa come siamo tutti femmine potrebbe irretire il lettore in un’attitudine fatale per la comprensione: il preconcetto. L’errore, però, è di considerare tutti gli studi di genere, incluso quello di Long Chu, come meri atti di provocazione. A ben vedere, l’espressione esatta – qui come in altri casi – è di rilettura della predestinazione dei ruoli sociali, che non possono più dipendere dal genere. Ecco dove stanno il contributo di Solanas e quello di Long Chu: nella riformulazione sociale dei generi, a partire dalla ridefinizione della mascolinità e della sua discutibile supremazia sulla femminilità.

«La civiltà umana rappresenta un’articolata serie di tentativi di sopprimere e mitigare la femminilità, e che questo è in realtà il proposito implicito di tutta l’attività umana, soprattutto di quell’attività che chiamiamo politica».

L’accusa che gli uomini e le donne di destra hanno sempre rivolto alle femministe è di non voler più essere donne. Dietro un’affermazione così perentoria c’è un fondo di verità. Secondo Long Chu, le pioniere del femminismo non volevano più essere donne nei termini dati dalla società, o meglio: non volevano più essere femmine, prodigandosi per l’abolizione totale del genere o per la riproposta dell’essere donna senza dover più essere femmina. Il femminismo, in questo caso, si oppone alla misoginia nella stessa misura in cui la esprime. Dopo che Solanas sparò a Warhol, l’editore si chiese se avesse fatto bene a pubblicare SCUM. Era uno scherzo, o così pensavano tutti. Una biografia su Solanas racconta che avesse un grandissimo senso dell’umorismo, a dispetto di quanto afferma Long Chu; un lettore scontento di ciò che lei scriveva disse: «Sembrerebbe che la signorina Solanas formuli un argomento per poterci accoltellare qualcosa o qualcuno». Non fu un commento troppo distante dalla realtà.

«Ginger: “È divorata dall’invidia del pene. Dovrebbe farsi vedere da un’analista”.»

Ginger è uno dei personaggi della commedia. La sua massima fa capo a una teoria freudiana arcinota, ma anche piuttosto desueta, valida comunque nella misura in cui Long Chu tratta della misoginia delle donne verso altre donne, scimmiottando comportamenti di mortificazione tipicamente maschili. Molte femministe si sono dissociate dall’operato di Solanas, perché legato a un’ideologia aggressiva di esclusione piuttosto che di condivisione o di inclusione; il concetto di sorellanza, che è uno delle fondamenta dei movimenti femministi, prende due direzioni che finiscono per essere interdipendenti: in primo luogo, è necessario suscitare nelle sorelle (madri, mogli, nonne, amiche, amanti…) la consapevolezza di essere attrici del proprio essere personale e interno alla società, passando all’esercizio quotidiano di una coscienza rinnovata dopo millenni di sottomissione maschile imposta da una radicata cultura patriarcale; secondariamente, e solo dopo aver creato un’unione basata sulla reciproca sussistenza femminile, si potrà discutere di una piena uguaglianza tra donna e uomo. Tuttavia, finché mancherà la consapevolezza dell’essere donna in quanto donna e non di donna in quanto essere plasmato dalla volontà o da capricciose velleità maschili, tale rivoluzione sarà sempre fallace.

Non a caso Long Chu cita la battuta di Ginger. In un articolo del 1922, Freud associa il mito di Medusa alla paura maschile della castrazione; la bocca spalancata della gorgone sarebbe una metafora dell’apertura vaginale. Freud interpreta lo sguardo pietrificante di Medusa come simbolo dell’erezione del bambino, che gli rammenta di avere ancora il pene. In questo caso, dunque, l’assioma si inverte, in quanto il bambino non avrebbe paura di essere castrato, anzi: gli piacerebbe esserlo. «Sono gli uomini a invidiare la fica» diceva Solanas in SCUM.

Le lotte femministe e omosessuali hanno spesso avuto il dialogo sul genere come terreno comune di emancipazione. Le femministe che cercano di reprimere la transessualità da maschio a femmina, e che sono sempre esistite fin dalle prime manifestazioni del XX secolo, vanno sotto il nome di TERF, acronimo di Trans-Exclusionary Radical Feminists. Un testo citato da Long Chu è il libro di Janice Raymond, del 1979, The Transexual Empire: The Making of The She-Male, nel quale si descrive il percorso di riassegnazione di genere come la riduzione della vera forma femminile a un artefatto chirurgico. Insomma, come a dire che una donna trans, in realtà, non fa altro che comprarsi una vagina.

Anziché rifiutarli, Raymond sostituisce uno stereotipo di genere con un altro. Agli occhi dei reazionari e di un certo gruppo di femministe, dunque, la transessualità femminile diventa una perversione, perché la donna transgender può appropriarsi del corpo femminile rendendolo una fantasia accessibile a tutti. È sufficiente pagare un chirurgo. Il genere è sempre un veicolo di oggettificazione sessuale, sia che se ne propagandi l’assoluta libertà dai ruoli a esso assegnati dalla società, sia che se ne ricavi il pretesto per scagliarsi contro le persone transgender.

«Se l’identità si esaurisse nel genere, la transizione sarebbe facile quanto il pensiero di compierla, come una lampadina che si accende all’improvviso. La tua identità di genere semplicemente esisterebbe, in muta astrazione, e a nessuno importerebbe – men che meno a te. Al contrario, se la transizione di genere – dalla semplice richiesta di usare un pronome anziché un altro, fino alle chirurgie più invasive – può insegnarci qualcosa, è che il genere è una cosa che ti viene assegnata da altri. Il genere esiste, se deve esistere, solo nella congenita generosità di persone a te estranee. La verità è che non siamo il centro di transito del significato su noi stessi, e probabilmente non abbiamo neppure il diritto di esserlo».

Un altro punto su cui Long Chu riflette è il parallelismo indotto che intercorre tra femminilità e pacifismo. Sulla falsa riga del Futurismo italiano, l’artista e danzatrice francese Valentine Saint-Point scrisse, nel 1912, il Manifesto della donna futurista. Saint-Point dichiarava espressamente di condividere il dinamismo delle macchine, la brama di violenza e l’interventismo dei futuristi, elementi che anche le donne, a suo avviso, dovevano esperire. Saint-Point sosteneva che l’Europa aveva vissuto per troppo tempo in un’epoca femminile, sentimentale e pacifica, e che sia le donne che gli uomini dovevano integrare elementi femminili e maschili, solo così avrebbero raggiunto una piena vitalità. Ciò che più mancava a entrambi, però, era la virilità. Ne consegue che l’unico modo perché le donne si realizzino è iniziare un processo di maschilizzazione.

Ma si può anche prospettare il caso opposto, cioè che un maschio scelga la femminizzazione, come avvenuto per Long Chu, e qui entra in scena Matrix. Nel film, Thomas Anderson, che durante la notte è un hacker, comincia a capire che qualcosa, dentro di sé, non va. Quando diventa il prescelto, il suo nome è Neo, cioè «nuovo», strettamente legato alla sua rinascita dentro il Matrix. Le donne trans considerano Matrix un film sulla transizione di genere da quando i fratelli Wachowski si sono dichiarati al pubblico come donne trans. E poi spuntano la pillola rossa e la pillola blu, una metafora (ma nemmeno tanto) delle pillole ormonali.

«Per Valerie, il più grosso imbroglio nella storia della civiltà umana è la semplice idea che gli uomini siano uomini. Di conseguenza, il sistema patriarcale di oppressione sessuale esiste non per esprimere la maschilità dell’uomo, ma per nasconderne la femminilità».

Come Matrix, anche Fight Club è un altro paradigma eccellente per intendere la cosiddetta maschiosfera, quel becero angolo di internet dove attivisti del maschilismo, travestiti da messaggeri del rispetto dei ruoli sessuali, perlopiù membri di comunità alt-right, concordano sul fatto che l’uomo bianco eterosessuale sia la vittima prescelta del terzo millennio e si scambiano dritte su come dominare la donna e il mondo femminile senza pericolo di rappresaglie. Per alt-right si intende una frangia di destra alternativa al normale conservatorismo, la cui dottrina si basa, tra l’altro, su un forte negazionismo storico. La maschiosfera nasce negli ultimi anni ’50, quando il femminismo inizia a farsi strada, e i suoi rappresentanti usano oggi la metafora della pillola rossa di Matrix per riferirsi a un presunto lavaggio del cervello femminista; se Neo sceglie di prendere la pillola rossa, vuol dire che vuole diventare donna nel senso di una costrizione sociale femminista, ma se prende la pillola blu, tutto rimarrà come dovrebbe essere. Fight Club parla di un timido uomo beta, come lo definisce Long Chu, che incontra un uomo alfa ribelle di nome Tyler Durden, col quale fonda un circolo di combattimento. Alla fine, si scopre che l’alfa è lo stesso protagonista che desidera scappare dalla sua noiosa vita borghese o, magari, dalla paura di perdere la sua mascolinità.

«Per Valerie, il più grosso imbroglio nella storia della civiltà umana è la semplice idea che gli uomini siano uomini. Di conseguenza, il sistema patriarcale di oppressione sessuale esiste non per esprimere la maschilità dell’uomo, ma per nasconderne la femminilità».

Progressi in termini di studi di genere sono stati fatti e non sono pochi. Uno dei contributi più felici è sicuramente la sostituzione del termine transessuale, che in origine indicava una parafilia, con transgenere o transgender, nella più comune etichetta inglese. Se è vero che siamo tutti femmine, la cosiddetta «autoginefilia» non può essere più considerata una perversione, ma il naturale percorso di transizione sessuale dettato dalla disforia di genere. Alla fine della commedia, Bongi conosce Arthur, una donna che si è appropriata del nome del marito. Parlano, anche se è nell’aria un certo desiderio sessuale reciproco. Ma in fondo, Bongi, nonostante si definisca una donna d’azione, fa solo questo: parla.

«Arthur: “Sono abominevole, vero?”»

In un’intervista del 1967 a Warhol, Solanas chiede all’artista quale effetto abbia avuto SCUM sulla sua vita; Warhol risponde che gli ha permesso di apprezzare meglio le ragazze. Solanas incalza chiedendogli se prima pensasse che esisteva solo un sesso, e lui risponde di sì, ma che adesso ne esistono due.
Ne siamo davvero sicuri?

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