«La follia e il deserto hanno tre cose in comune» ci dice Antonio, protagonista/narratore/alter ego dell’autore di Beati gli inquieti: «1) l’abbandono, 2) la sconnessione, 3) lo spopolamento» (pp. 17-18). Poi prosegue, ampliando questa sua immagine: «Nel deserto hanno luogo tre momenti fondanti della storia della salvezza: 1) Dio si manifesta, 2) consegna le sue leggi, 3) mette alla prova». Con poche parole, Redaelli ci fornisce subito, nel terzo breve capitolo del suo libro, una potentissima chiave di lettura e più di qualche spunto di riflessione.
Con l’associazione follia-deserto, l’autore ci proietta nel tema della follia – tema a volte abusato in letteratura, e dunque difficile da affrontare – illuminando tre aspetti fondamentali che separano irreparabilmente il folle dal resto: il folle è perso, distaccato, isolato da ciò che viene percepito come normale. In quanto impossibile da comprendere appieno, il folle ancora oggi viene temuto, allontanato, infine ostracizzato. Viene in qualche modo cancellato dai registri di una comunità, come se fosse colpito da una damnatio memoriae ancora più letale rispetto a quella prevista dal diritto romano in quanto, sebbene l’individuo non venga effettivamente eliminato dalla storia, è pur vero che tutto ciò che esce dalla sua bocca diviene relegato al rango di favola, di allucinazione. Il singolo continua a esistere ma non ha voce alcuna. Egli non è invisibile o rimosso, peggio: la sua condanna persiste in piena luce.
E qui arriviamo al secondo punto. Se è vero che il deserto è abbandono, sconnessione, spopolamento, è altrettanto vero che proprio qui Dio si manifesta, consegna le sue leggi, mette alla prova. Nella storia del cristianesimo (ma non soltanto) Dio si manifesta a personaggi fuori dai ranghi. Fra chi ha poteri simil-magici, chi sente voci divine e chi afferma di tornare dal regno dei morti, è innegabile che nessuno dei veri protagonisti delle religioni può definirsi normale. Pensiamo, per esempio, all’eremo irraggiungibile in cui si pone colui che medita: spostando appena l’ago della bilancia, non si potrebbe quasi affermare di trovarci al cospetto di un alienato, di qualcuno che vive al di fuori della comunità? Lo stesso non può forse dirsi per l’eremita? Il saggio e il folle non condividono spesso, nella storia della civiltà non solo occidentale, un simile destino?
Ciò che Redaelli suggerisce in diversi punti, anche considerando la forte componente religiosa che pervade il protagonista, è che il folle possa avere una visione più autentica del mondo. Lo dice lui stesso, in effetti, poco più avanti: nessuno frequenta i matti perché «1) i matti non mentono. 2) i matti ci vedono. 3) i matti sono nudi» (p. 53). Senza fondare un’apologia della follia – a cui tuttavia si avvicina pericolosamente – Redaelli insiste su un tema classico: il folle può vedere la realtà meglio del non folle. Davanti a un folle, il non folle rischia di impazzire perché non ha la chiave per interpretarlo né può nascondersi in piena vista. Il non folle può mentire, il folle no.
Ma soprattutto (e qui entriamo a gamba tesa su un campo minato) non ci si può non chiedere perché chi parla con Dio sia da considerarsi santo mentre chi parla con qualcuno altro sia da considerarsi folle. La linea fra santità e follia è così sottile che in Beati gli inquieti è quasi invisibile. Il titolo stesso suggerisce tale momento di dissolvenza, e lo fa magistralmente, senza contare l’audace associazione che più avanti viene fatta fra Cristo e Nietzsche, all’interno di una lettura coraggiosa dell’Anticristo, attraverso la quale si arriva a dire che «c’è del cristianesimo nella follia» (p. 107).
Beati gli inquieti non è un libro «di trama», se non per rari momenti nei quali si racconta la storia di Antonio, il protagonista, e degli internati nella casa di cura La casa delle farfalle. Nonostante il finale passa essere anticipato raccogliendo qualche indizio qua e là, non è questo ciò che conta, bensì le riflessioni che il testo sa tirare fuori. È innegabile che certi tipi di follia possono essere pericolosi, come d’altronde lo sono certi tipi di sanità; nonostante, però, i manicomi siano stati chiusi da oltre quarant’anni con la legge Basaglia, il folle (categoria sotto la quale ricade uno spettro ampissimo di disturbi) è ancora oggetto di stigmatizzazione: abbandonato, sconnesso, spopolato, appunto. Redaelli, con questo libro, cerca di restituire ai folli una forma di dignità. Li rende profondi, creativi, capaci di produrre del bello.
Li rende, soprattutto, umani.
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