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La morte di Vivek, l’ultimo romanzo di Akwaeke Emezi (il Saggiatore, 2021, trad. di Benedetta Dazzi) ha riscosso il favore delle critiche ed è attualmente finalista al premio PEN/Jean Stein e nella longlist dei premi Dylan Thomas e Aspen Words Literary, oltre a essere già bestseller del New York Times, Indie Bestseller, e Indie Next Selection.

Il romanzo si delinea, su un primo livello, come la storia di formazione di una ragazza transgender MtF, cresciuta in una famiglia benestante di Aba, cittadina commerciale del sud-ovest della Nigeria. La madre di Vivek, di origini indiane, frequenta una piccola comunità di donne straniere sposate con cittadini nigeriani; in questo microcosmo Vivek sviluppa la sua identità e inizia a percepire la distanza tra le dissonanti aspettative del mondo esterno e i propri desideri. Queste dissonanze si esplicitano nella spaccatura tra infanzia e adolescenza, in cui l’esplorazione del proprio corpo e le rivelazioni familiari concretizzano una rinascita e una seconda infanzia – e qui già emerge il contrasto tra una temporalità eteronormativa e una temporalità queer.

In realtà, La morte di Vivek nasconde una polifonia di storie e voci: diverse figure entrano in primo piano nella narrazione con i loro punti di vista e i loro racconti, finendo per ampliare il romanzo ben oltre la cornice costruita sulla morte misteriosa della protagonista. A fare da sfondo al percorso di Vivek c’è la stessa Nigeria dell’infanzia di Akwaeke Emezi, un paese nel mezzo di rivolte, bande armate di vigilanti e dittatura militare, a metà degli anni ’90. La descrizione del contesto storico, tra conflittualità sociali, culturali e religiose, non è ridotta alla sua funzione scenografica ma è un vero e proprio elemento della storia.

La religione in particolare offre una chiave interpretativa degli aspetti sovrannaturali del romanzo. L’infanzia e l’adolescenza di Vivek sono costellate di simboli ed eventi che anticipano un legame spirituale tra lei e il mondo ultraterreno in cui vivono i suoi antenati. Vivek si rinchiude in una solitudine impulsiva e silenziosa; di fronte all’isolamento della figlia, i genitori gestiscono la situazione in modo confuso e a volte violento. L’ignoranza e l’ostilità mischiano la rimozione di un immaginario religioso ritenuto obsoleto, relegato nei limiti della superstizione, e la violenza eteronormativa, nelle forme ereditate dalla colonizzazione. I culti Igbo assumono nel testo di Emezi una funzione decoloniale, un tentativo da parte dell’autrice, di educazione cattolica, di superare il colonialismo interiorizzato dalla propria comunità attraverso la riscoperta di una cultura marginalizzata.

Non è un caso che Emezi dichiari tra le sue principali fonti di ispirazione la scrittrice afroamericana Toni Morrison, che indicava nella marginalità il proprio centro, pretendendo che fosse il mondo a spostarsi verso di lei, e non il contrario. La storia stessa di Vivek, che riesce a farsi ascoltare solo dopo la morte, è stretta attorno a un centro che appare a sprazzi. Il processo di decolonizzazione prosegue nelle pieghe di un’identità che potrebbe essere rimandata a immaginari «occidentali»[1]: la queerness di Vivek non risulta manifestarsi in un dissidio tra un’identità ritenuta falsa e una autentica e nascosta, ma è frutto di un processo in divenire costante, non riducibile alle categorizzazioni basate su genere e orientamento sessuale. Vivek non ha mai la percezione di essere qualcosa di specifico a cui riferirsi e non ne è interessata, sebbene il processo non sia privo di dolore, soprattutto nel clima generale di incomprensione e ignoranza del contesto non solo familiare.

L’impianto narrativo prende in prestito alcuni degli stilemi del giallo, con un mistero da svelare che impone ritmo e unità spaziale all’intreccio. La storia della famiglia borghese di Aba è però incentrata su una temporalità spezzata. La cornice iniziale dell’album fotografico non basta a contenere incursioni ultraterrene, anzi le facilita: è proprio la presenza sotterranea di elementi spirituali a concretizzare la vera sostanza del romanzo. Vivek, divincolata dal tempo lineare degli esseri umani, ci parla dal mondo degli spiriti: con la confidenza di chi sa che tutto è già vissuto, già morto e già rinato, osserva gli eventi con una gioia rassegnata che presenta ancora qualche dubbio sui viventi e su sé stessa (mantenendo anche da morta margini di trasformazione e zone grigie).

L’innesco del romanzo si aggira attorno al nome perduto di Vivek. Un tributo apparentemente mancato che finisce per svelarsi parte fondamentale del movimento soggettivo della protagonista. Un denso corredo di segni assedia progressivamente la sua coscienza: i capelli lunghi, la voglia a forma di stella marina, i vestiti da donna e gli amori la fanno gravitare verso il nome femminile mai assegnato a una figlia che i genitori non hanno mai smesso di considerare un figlio.

Il nome è lo scandaglio delle sue ricerche interiori tormentate da un involucro troppo stretto, vestiti sbagliati, sguardi incompresi e amori che galleggiano tra l’inconscio e la parola, navigando le strette vie del silenzio e dell’isolamento. Vivek non è ridotta però a una vittima che vive nella sofferenza e nel disprezzo, nonostante le incomprensioni con la sua famiglia. Continua invece a esprimere gioia e coraggio nelle sue collezioni fotografiche e nelle sue uscite. Riesce, grazie a un gruppo di amiche trovate all’interno della comunità materna, a esprimersi e confidarsi. Anche il rapporto con il cugino-fratello Osita le permette di scoprire la propria intimità e la guida verso il nome scomparso, simbolo di una reincarnazione familiare, e connessione spirituale. Quasi indifferente al rischio di outing, Vivek cerca il tuning, ovvero entrare in sintonia con il proprio ambiente attraverso sé stessa. Procede oltre, ponendo alte barriere di indifferenza e ostilità, sfidando le strade senza trasudare un patinato eroismo dei margini, facendo della propria normalità il centro.

Il nome risulta così la chiave simbolica che apre uno spiraglio sulla storia di Vivek, il vero nome che avrebbe dovuto ricevere, seguendo la linea ancestrale e religiosa che connette le varie dissonanze della protagonista con l’ambiente circostante. Non come giustificazione ultima e assoluta, ma in quanto intreccio di una ricerca complessiva di spazi altri, il sostrato spirituale si innesta in una soggettività queer, in modo che la piccola comunità solidale di amiche diventi per Vivek una nuova casa in cui esprimersi, da cui partire per investigare le proprie origini e il proprio futuro.

Akwaeke Emezi alterna mirabilmente apparizioni e sottrazioni, creando una rete di echi rarefatti che sembrano ricondurre a una voce onnisciente e ultraterrena, a uno stile più sobrio e asciutto.  La narrazione è attanagliata da una presenza immateriale che preme per obiettivi comprensibili solo a metà. La parte esplicita sembra legata allo sciogliersi dei conflitti e dei silenzi generati dalla vita di una figlia mai riconosciuta come tale, in cui le parentesi meditabonde nell’aldilà riassumono il percorso e la direzione dei dubbi e dell’intreccio. La parte nascosta, invece, si apre a partire da una strana forma di serenità che serpeggia tra le contraddizioni del romanzo. La calma di Vivek proviene dal divino, da un mondo lontano eppure immanente nella mitologia Igbo, mistificato dai vivi, in cui il tempo è già avvenuto. È questo il luogo da cui ci parla la protagonista per la maggior parte del testo, lo spazio che comprime la fine e l’indifferenza per la fine, in quanto eterna trasformazione e passaggio. La storia comincia dalla conclusione, proiettandoci in un tempo diegetico fuor di sesto: il primo capitolo si impone con forza iconica, una soglia così sottile eppure significativa, tutta condensata in una semplice frase: «Diedero fuoco al mercato il giorno in cui Vivek Oji morì». Qui c’è tutto il romanzo: i tumulti del macrocosmo e l’apparente chiudersi di un microcosmo, avvolto in un mistero. I passaggi e le connessioni tra i due sono il vero sentiero della storia, dove l’autrice ci permette di vedere per diffrazione il turbinare di forze desideranti e spirituali nelle spire del caso e della storia.

Il romanzo è segnato da un labirinto di spazi liminali, aree grigie che Vivek attraversa di continuo. La protagonista interseca il genere, la nazionalità, la lingua e lambisce, in vita, una forte spiritualità. Questa spiritualità abita nella pelle, nella voglia inspiegabilmente ereditata dalla nonna come nel risentimento per una vita non riconosciuta. È una presenza taciuta o ignorata dalla maggior parte dei personaggi, o peggio distorta in forme di colonizzazione interiorizzata. Ne rimangono degli accenni che strisciano fuori attraverso la scrittura di Emezi, oscillante tra il divinatorio metafisico e un’emotività chirurgica.  L’elemento stilistico che rappresenta meglio questa oscillazione è il passaggio frequenta dall’estrema interiorità di un personaggio, che descrive movimenti vulcanici, vividi ma quasi impersonali e subiti da una forza aliena, ancestrale, alle premonizioni – che sembrano provenire da una voce lontana che aleggia sulla storia, forse un ulteriore personaggio, forse Vivek, forse l’insieme collettivo di antenati che parlano da un mondo senza tempo.

Nel suo terzo libro Emezi compie un ulteriore passo verso le proprie origini, incentrando l’azione in un’unica città. La storia possiede elementi autobiografici e si infiltra nel cuore caldo di una famiglia e dei suoi rapporti compiuti e incompiuti. La cartografia emotiva di questa famiglia, segnata da gioie esplosive ma rimosse e introversione creativa e salvifica, è portata su un ulteriore piano che ne ispessisce la fibra. Infiltrazioni spirituali e richiami ancestrali pesano su tutti i personaggi come una cappa, fino a diventare un cordone per un altrove vivido e abissale, che riempie le incomprensioni senza scioglierle per sempre.

Per ulteriori approfondimenti su cultura e religione Igbo e questioni di genere, rimando ai materiali utilizzati nella stesura dell’articolo e direttamente segnalati qui da Akwaeke Emezi.


[1] Emezi indica i processi di colonizzazione, e nello specifico la diffusione del cristianesimo, come principali responsabili dell’introduzione in Nigeria, all’interno della regione dell’etnia Igbo, dell’idea di binarismo sessuale  rigido con le sue costruzioni sociali pubbliche e domestiche basate sul genere. Questo è l’immaginario che Emezi considera «occidentale», dalla propria posizione di individuo razzializzato, transgender e non-binario. Sebbene non priva di tratti patriarcali, la cultura Igbo contempla spazi grigi nei rapporti di genere mai presi in considerazione dalla società occidentale – in questo senso, la riscoperta di questi culti e di questo immaginario rappresenta una funzione decoloniale che interseca l’asse della religione e del genere, fondendo spiritualità e transgenderismo.

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