Si racconta che alla prima parigina del suo spettacolo «Ubu re», l’eccentrico drammaturgo francese Alfred Jarry presentò l’opera al pubblico dicendo che la vicenda si svolgeva «in Polonia, ovvero in nessun luogo». Tra la nutrita comunità polacca emigrata a Parigi la cosa pare abbia suscitato un certo scandalo. Non ci sarebbe stato di che stupirsi conoscendo quanto eccentriche fossero la personalità e l’opera di Jarry. Inoltre, anche a volerla guardare diversamente, non aveva del tutto mentito. Nel 1896 la Polonia non era presente sulle carte geografiche da più di un secolo e sarebbe riapparsa solo alla fine del 1918, quando Jarry era già da un pezzo ospite del cimitero parigino di Bagneux.
Dizionario dei Chazari, opera del serbo Milorad Pavić uscito nel 1982 e recentemente ripubblicato in italiano da Voland nella traduzione di Alice Parmeggiani, non ha in realtà molto in comune con l’opera di Jarry. Tranne che per una cosa. È un libro che parla dei Chazari, ovvero di nessun popolo. Sarebbe azzardato dire che i Chazari non esistono. In un certo modo non esistono adesso, assimilati da identità nazionali più solide e durature. Questo però varrebbe per moltissimi altri popoli, spariti dalle pagine della storia con il nome con cui c’erano entrati. La questione che riguarda l’assenza dei Chazari dal libro di Pavić è di altra natura. Prima però, è opportuno spendere qualche parola su di loro.
Quello dei Chazari è stato uno dei tanti popoli nomadi e poi sedentarizzati che hanno abitato l’Europa del periodo tardoantico e altomedievale. Appaiono nelle cronache europee più o meno nel VII secolo. All’epoca un imperatore romano siede a Costantinopoli, mentre a occidente non ce n’è nessuno da due secoli e per vedere Carlo Magno bisognerà aspettare ancora un centinaio di anni. Di origine e lingua altaica, come i turchi moderni, i Chazari erano una confederazione di tribù arrivate in Europa dall’Asia centrale, verosimilmente eccellenti arcieri a cavallo, capaci di creare un vero e proprio impero esteso dal mar Caspio fino alla Crimea toccando il lembo più orientale dell’odierna Bulgaria. Un territorio vasto, ricco e a stretto contatto con l’Impero romano d’Oriente e la sua capitale, Costantinopoli. Ci resteranno circa tre secoli, incuneati tra le vestigia greche dell’eredità romana da un lato e gli eredi di Maometto dall’altro.
È questa una premessa fondamentale per approcciare la lettura di Dizionario dei Chazari nonostante non sia un romanzo storico né tantomeno un’opera etnografica sul popolo chazaro. Pavić attinge a una ricca fonte di spunti per ricreare un pastiche moderno e originale. Per coglierlo, tuttavia, è necessario tornare momentaneamente ai Chazari e in particolare alla loro situazione nel nono secolo, quando da popolo pagano e politeista delle steppe si trovarono al centro di rotte percorse dai predicatori del cristianesimo costantinopolitano, ma anche nell’orbita delle sempre più organizzate tribù arabe, alacri di entusiasmo nell’espandere l’Islam e il loro controllo politico sulla regione. Una teoria storiografica non del tutto condivisa dagli esperti sostiene che l’Impero dei Chazari resistette all’influenza spirituale, e dunque politica, dei due ingombranti vicini scegliendo di passare sì a una religione monoteista, ma a quella ebraica. C’è chi si avventura oltre e attribuisce alla diaspora chazara, seguita al crollo dell’Impero, la nascita della grande comunità ebraica che ha abitato l’Europa centro-orientale fino ai noti avvenimenti della Seconda guerra mondiale.
È evidente che questo contesto lacunoso e pieno di dubbi si presenta come un tessuto a maglie larghe in cui il genio stravagante di Pavić ha potuto inserire un romanzo poliedrico e fantasioso. Dizionario dei Chazari, sempre se di romanzo possiamo parlare, immagina di ricostruire tre ipotesi diverse sull’abbandono del paganesimo da parte del popolo chazaro, riportate in rispettivi libri. C’è una versione in cui i Chazari hanno scelto il cristianesimo, un’altra in cui si sono convertiti all’Islam, e infine una terza che racconta la conversione all’ebraismo. Ognuna di queste versioni è costruita in forma di dizionario, o di enciclopedia, con voci in ordine alfabetico riferite a luoghi, simboli, personaggi utili a spiegare ogni volta la propria ricostruzione dei fatti. Va da sé, ognuno dei tre libri riporta come fatto assodato la conversione dei Chazari alla propria religione di competenza.
Alla base di tutto, Pavić gioca con una leggenda classica del mondo altomedievale e fatta propria anche dalla tradizione russa: immagina che il Khan dei Chazari abbia chiamato a corte un esponente per ogni confessione monoteista a esporre le proprie ragioni, invitandoli a cercare di convincerlo a scegliere – per sé e per il suo popolo – la religione più adatta. La costruzione in forma di dizionario, o di lessicografo come suggerisce il sottotitolo, fa sì che non sia possibile né sensato tentare un approccio tradizionale. Non c’è una trama, un protagonista, un finale a cui tendere o un centro a cui fare riferimento. L’editore Voland invita a leggere il romanzo in modo non convenzionale, consultandolo come si farebbe con un vero dizionario, e provando a ricomporre a proprio piacimento le vicende descritte. A voler cercare dei referenti in altri tempi e altre letterature, Dizionario dei Chazari riporta alla mente gli esperimenti combinatori di Queneau e Calvino o il ben peculiare equilibrismo logico-narrativo di Borges.
Dire tuttavia che Dizionario dei Chazari è privo di una trama non equivale ad affermare che sia una lettura caotica o difficile. È un gioco dalle regole diverse dal solito, al quale si può giocare con piacere e divertirsi moltissimo, a patto di non incaponirsi nel volerlo inquadrare dentro una struttura narrativa classica di cui è volutamente privo. Altrettanto fatuo sarebbe leggere Dizionario dei Chazari aspettandosi di sapere qualcosa di più dei suoi – supposti – protagonisti. Il popolo che campeggia nel titolo, nel libro è quasi del tutto assente. A prendere la parola tra le pagine sono prevalentemente bizantini, arabi, ebrei, monaci tessalonicesi, maestri d’ascia armeni, nobili serbi, studiosi albanesi. I Chazari sono l’oggetto di un discorso che formalmente li riguarda, ma poi si avvolge inevitabilmente attorno a quelli che ne parlano. La disputa sulla religione che un popolo pagano sceglierà per sé è in realtà lo specchio in cui le civiltà vicine si confrontano e osservano sé stesse. Anche queste, del resto, deformate.
Pavić mischia storia e mito in un groviglio volutamente inestricabile nel quale la cronaca reale del viaggio evangelico di Costantino da Tessalonica, il futuro San Cirillo, abita le stesse stanze di un racconto di un pittore che perde ogni talento quando tenta di dipingere con la mano destra, o a quello di un nobiluomo che genera un figlio forgiandolo nel fango e recitandogli dei salmi. Il viaggio dentro Dizionario dei Chazari è un invito a perdersi tra queste storie, scritte con il tono affascinante e divertente di chi sa raccontare una leggenda inverosimile e però seriamente credibile per il mondo che l’ha prodotta. Perdersi è davvero una prerogativa necessaria, visto che non c’è un sentiero segnato e che Pavić ha affollato il suo libro di una quantità di personaggi, scenari e aneddoti tali che è impossibile stare dietro alla sua immaginazione ipertrofica. È un libro pieno di immagini a ripetizione che non vogliono, e non possono, essere assimilate in toto dai lettori. Si può cogliere uno spiraglio, una forma di consolazione nel sentire di essere dentro un intreccio, nella vicenda di due oggetti che tornano varie volte attraversando le pagine, sfuggendo alla logica del dizionario. Si tratta di una chiave romanzesca che taglia la storia arrivando molto vicino a noi. Ricorda la vicenda della più famosa palla da baseball della letteratura mondiale, quella di Underworld di De Lillo, arrivato per altro quindici anni dopo i Chazari di Pavić.
Senza indulgere in un discorso ozioso su chi ha inventato cosa, l’osservazione fondamentale da fare una volta completata la lettura di Dizionario dei Chazari è che nel ristretto (editorialmente) spazio delle letterature non anglofone c’è una riserva sterminata di simboli e storie, ma soprattutto di autori capaci di declinarle nella contemporaneità con taglio originale e uno stile che nulla ha da invidiare agli autori d’oltreoceano. Tutt’altro.
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