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Camille ha quasi trent’anni e un solo scopo nella vita: attraversarla senza lasciare tracce. Per farlo, intende porsi a lato della sua esistenza, giocando con i diversi ruoli che la cultura occidentale vorrebbe imporle e preferendo per sé una parte da comprimaria. È lei la figurante, voce narrante e (anti)eroina del romanzo di Pauline Klein, edito da Carbonio e tradotto da Lisa Ginzburg.

La sua protagonista è una strana creatura, determinata a sottrarsi a ogni definizione vincolante. Lascia la casa della sua infanzia a Parigi, dove ha vissuto con la madre: una donna «molto bella, molto dolce e straordinariamente tollerante», la cui apertura mentale è però più un capriccio che un atteggiamento genuino verso il mondo; una donna che ha voluto comunque instillarle un certo habitus borghese, benché un mese su due le venga staccato il telefono.

Camille sente di dover mettere una distanza tra sé e la vita parigina, o tra sé e la vita in generale, e si trasferisce a New York. Qui lavora, malpagata, per una galleria d’arte, sempre inseguita dall’eco delle parole materne per cui lavorare nell’arte è una cosa che si può fare solo possedendone i mezzi. Nel frattempo, per arrotondare, non disdegna d’intrattenere i clienti della compagnia telefonica erotica SmartSex ed entra nel forum per brave ragazze Aufeminin.com, fingendosi ora uno «sporcaccione voglioso», ora una donna di mezz’età in cerca di qualche brivido.

«A impressionarmi, soprattutto, fu l’eccitazione procuratami dalla miseria sessuale di quegli uomini e dei loro fantasmi».

Sul palcoscenico del comune decoro, intanto, intesse una relazione con un agente di Lehman Brothers, allontanandosene per tempo quando l’istituto bancario entra in crisi e fallisce (siamo nel 2008). Inizia così la sua indagine delle maschere sociali, che condurrà collezionando esperienze e parti da recitare.

Tornata a Parigi, trova impiego in una «specie di boutique barra libreria barra spazio espositivo»: le sue mansioni consistono nell’inventariare oggetti e opere d’arte. Spacciandosi per un’impiegata operosa, la protagonista attuerà di fatto un’indolente resistenza al senso comune, al lavoro e ai loro dettami, a quello che ci si aspetterebbe dalle persone (e dalle donne) raggiunta una certa età. Il suo opporsi, come notato anche da «Le Monde», farebbe pensare al Bartleby di Melville. Se il paragone con lo scrivano di Wall Street rischia forse di risultare un po’ azzardato, è in parte vero che Camille ne è una moderna imitatrice. Lei, però, non oppone alcun rifiuto verbale di fronte ai suoi compiti, alle sue funzioni: gradualmente se ne sottrae e sparisce, accogliendo un altro camuffamento. Come in un film, Camille fa da comparsa al suo esistere; scena dopo scena veste i panni della figlia, della fidanzata, della conquista di una notte e della lavoratrice, solo per smascherare con arguzia ed estrema lucidità le contraddizioni e i meccanismi ingannevoli che si celano dietro i personaggi che accettiamo d’interpretare.

«Avevo sempre avuto la precisa intuizione di come bisognasse camuffarsi e comportarsi».

È con questa penetrante capacità di analisi che scandaglia tutti gli aspetti del quotidiano: il lavoro, la creatività, l’arte, l’amore, l’erotismo, il sesso – persino la pornografia, che la giovane donna “studia” setacciando le numerose categorie offerte da YouPorn e di fronte alle quali prova il medesimo smarrimento esistenziale provocato dalle categorie del vivere civile. Un’analisi, la sua, che non approda mai a una configurazione definitiva e conclusa.

«La possibilità di formarsi, posarsi, trovarsi, inserirsi io l’ho lasciata agli altri. Che s’inserissero, insomma, tutti, io non ho mai potuto smettere di lasciarmi cullare dall’ambiguità del mondo».

Quello che la figurante sembra chiedersi davvero è cosa rimane di noi oltre le costrizioni e gli obblighi, oltre l’andamento dei rapporti (professionali, affettivi, occasionali) che ci è noto e in cui ci orientiamo. Un dubbio che probabilmente sarà sorto a qualcuno negli ultimi mesi, in cui molte delle dinamiche d’interazione cui eravamo abituati sono venute a mancare fin quasi a scomparire dal nostro orizzonte mentale e fattuale. Camille cerca una risposta attraverso la sua personale quarantena ante litteram: quindici giorni di isolamento a cui si sottopone non per proteggersi da un virus, ma per sfuggire alle insistenze della sua datrice di lavoro.

Il suo sguardo non risparmia neanche l’amore, le istituzioni della coppia e del matrimonio come ulteriori tappe per la piena realizzazione dell’individuo. Di fronte alla prospettiva di dividere la vita con Elias, fidanzato e promesso sposo, è capace anche di tirarsi fuori dall’eccitazione e dal coinvolgimento amoroso e domandarsi, non senza un certo cinismo:

«A quale categoria di YouPorn potevamo appartenere in quel momento? Giovani borghesi in divenire? Ultimo sesso prima del matrimonio?».

Più che ambire a una costruzione del sé Camille appare intenzionata a de-costruire ogni tentativo di appuntarsi al petto una specifica identità e smontare i molteplici ingranaggi che, come agenti all’interno della struttura sociale, diamo per scontati. È probabile, allora, che la sua indagine aspiri proprio a svelare la natura fondamentalmente illusoria e costrittiva del concetto d’individualità e della sua ricerca. Come ha dichiarato l’autrice del romanzo in un’intervista, Camille è quella voce che la maggior parte di noi preferisce spegnere per poter vivere, ma che a ben vedere potrebbe suggerirci un modo inedito di osservare ciò che consideriamo normale, e irrinunciabile, e spronarci a compiere lo scarto necessario per rivalutare quello che siamo e come lo viviamo, insieme alla smania di rintracciare un significato in ogni tappa del viaggio, e per «accogliere il divenire, il forse, il non ancora, l’appena, il sempre sul punto di, come una vertigine».

Al pari della sua non-protagonista, l’opera di Pauline Klein è un oggetto letterario di difficile collocazione. Frasi incisive, lapidarie, e una prosa pulita si alternano a sezioni più ampie e ridondanti che raccolgono le riflessioni di Camille; l’opera ricorda più un agile trattato filosofico, complici di certo gli studi dell’autrice (Filosofia alla Sorbona ed Estetica alla Nanterre University). Con i suoi pensieri e gli interrogativi che si pone, la figurante vuole invitare chi legge a condurre la medesima esplorazione, attraverso un controllato esercizio speculativo. Sta al lettore decidere se accettare l’invito a defilarsi per rimettere in discussione le ingiunzioni della società col suo gioco delle parti e se, in ultimo, abbracciare anche il tentennamento, l’alienazione, il caos e la possibilità della solitudine.