Un’adolescente in crisi, divisa tra la vecchia e la nuova sé, scende da un pullman che da New York l’ha condotta nell’Iowa meridionale, una regione «triste e grigia, fatta di aree di servizio, carceri sovraffollate e monocolture» dove incontrerà il padre mai conosciuto. A leggerla così, sembrerebbe la scena d’apertura di un teen-drama anni ’90. Invece, e questa è solo la prima di tante sorprese, è l’inizio dell’impresa visionaria raccontata in Capannone n.8, romanzo di Deb Olin Unferth pubblicato da Sur nella traduzione di Silvia Manzio.
Passano gli anni e Janey, che nel frattempo in Iowa ci è rimasta dopo l’improvvisa morte della madre Olivia, rimedia un impiego come addetta al controllo degli allevamenti intensivi di galline ovaiole. Finisce così sotto l’ala di Cleveland, che ventuno anni prima ha avuto come baby-sitter proprio la mamma di Janey e il cui compito all’interno della macchina produttiva avicola è quello di supervisionare il corretto adempimento delle linee guida «per la sicurezza del consumatore e il benessere delle galline». Una formula tanto burocraticamente rassicurante quanto vuota di significato.
Unite dalle imprevedibili svolte del destino e dell’industria del pollame, le due si ritrovano a sottrarre singoli esemplari per lasciarli nottetempo sull’uscio di santuari animalisti e a violare la legge bavaglio che vieta la registrazione di video e audio all’interno dei capannoni, riprendendo «galline assembrate dietro le griglie, galline con ferite aperte, galline con uteri prolassati, galline morte dentro un bidone in un ammasso sanguinolento». Proseguono così in un’escalation che le condurrà all’elaborazione di un’imponente e surreale missione: rubare, anzi no, liberare in una sola notte quasi un milione di ovaiole da un allevamento industriale, la Fattoria Felice della famiglia Green.
«Fu allora che lo vide. Il Vero Progetto, una rivelazione. […] Vide le galline, centinaia di migliaia di galline, con un potere inaudito per le galline, che volavano via dal capannone, libere nella notte».
Le due, trovato uno scopo che le vivifichi, non saranno da sole in questa folle avventura. Ad accompagnarle ci sarà una colorita combriccola di umanità varia e dolente composta da Dill, ex leader di un’organizzazione ambientalista, Annabelle, rivoltosa figlia dell’allevatore Green, e Jonathan, unico discendente maschio di una famiglia di allevatori ed ex di Annabelle, di cui è ancora innamorato. Al loro seguito, chiamati a raccolta come per una guerra, trecento volontari pronti a un’ultima, eroica, azione.
Ci si imbatte così in una polifonia di personaggi commoventi e imperfetti, sprovveduti ed esasperanti; la narrazione, che procede saltando di voce in voce (inclusa quella degli allevatori, i “cattivi”), è scandita da capitoli brevi e fulminei e intreccia diversi piani temporali, compreso un futuro lontano in cui gli umani saranno spariti e a trionfare saranno le galline, forse più adatte ad abitare il mondo. Man mano, scopriamo le vicende personali dei protagonisti: i rimpianti, le frustrazioni e soprattutto il desiderio di rivalsa nei confronti della vita, di una causa, dell’amore o di sé stessi, tanto pervasivo da renderli miopi anche di fronte all’insuccesso annunciato del più grande ratto di animali della storia. La loro forza risiede proprio nella fallibilità palese, evidente al lettore sin da subito, ma che non li rende mai figure patetiche o caricaturali.
Scavando nella complessità dei motivi che li spingono a impegnarsi nel progetto, sono due i sentimenti che prevalgono: un po’ ci si ritrova a fare il tifo per questo manipolo di adorabili disadattati, un po’ li si guarda con tenerezza e un certo disincanto, specie nei punti in cui la narratrice si rivolge direttamente al lettore, quasi a suggerire un’osservazione equidistante dei fatti riportati tra le pagine.
Armati solo del loro carico di debolezze e incoerenze, i componenti dell’improvvisato drappello lanciano una sfida al mondo delle Big Ag, l’insieme delle grandi industrie agricole statunitensi di cui il settore avicolo è una delle ramificazioni più grandi e meno virtuose. Un mondo popolato perlopiù da «Repubblicani, maschi bianchi vecchio stampo, cristiani», che sforna settantacinque miliardi di uova all’anno e la cui ipertrofia produttiva (non è una novità) si basa proprio su una sfilza di condizioni e linee guida fin troppo permissive nei confronti di atrocità e insabbiamenti.
Un sistema la cui ipocrisia trova perfetta sintesi nelle parole del capo di Cleveland, con cui la donna si confronta poco prima di sottrarre la sua prima gallina e cambiare così il corso degli eventi e della sua esistenza: «L’uovo è l’unità nutritiva perfetta […]. Proteine, vitamina B12. Vitamina D. L’ideale per ossa e per la mente. Forza e intelletto. Una dozzina di uova e il povero mangia come il ricco. Il sogno americano, Cleveland. La soluzione democratica». Il sogno americano: un’altra formula rassicurante e oziosa che nasconde le crepe di una (sovra)struttura fragile, destinata a infrangersi al pari di un guscio d’uovo.
E le galline? Non se ne stanno a guardare, perché Unferth dà voce anche a loro. Così, facciamo la conoscenza di una gallina che risponde al nome di Bwwaauk, perché tutti gli uccelli «sono noti a sé stessi e agli altri con un determinato cinguettio – in altre parole con un nome». Scopriamo che «in natura le galline hanno combriccole complicate e voci distinte. Hanno più di trenta categorie di conversazione, tutte con il proprio intreccio di gloglottii, strilli, zirli e gorgheggi». Scopriamo che i polli scelgono rivali e alleati; viene tratteggiata l’evoluzione storica degli esemplari dal Gallus libero del primo Eocene alle specie addomesticate e catalogate dei nostri giorni.
Pennuti e umani sono messi sullo stesso piano, tanto che in un passaggio particolarmente significativo la narratrice, riferendosi alla differenza tra galline da cortile e ovaiole, si domanda quali polli siano più simili a noi: «Quelli che vagano in ellissi – noi nel cortile della scuola, nel campus, nel quartiere – o i mostri geneticamente modificati – noi che ci agitiamo nei cubicoli […], ci urliamo addosso in spazi angusti, tocchiamo dispositivi che roteano o si accendono o si aprono simulando attività come “divertimento”, “ginnastica”, “lavoro”, “amore”?».
In controluce, s’intravede un’esortazione a riflettere sulla relazione dell’uomo col mondo animale, in particolare con quelle specie che vengono investite di una funzione ben precisa e che diventano cibo, indumenti o forza lavoro. In virtù di questo modello, nella classificazione degli esseri viventi altri da noi, a determinare definizione e destino di un animale è il compito che è chiamato a svolgere, il ruolo che riveste all’interno dell’orizzonte antropocentrico.
«In gioco: gli oggetti della contesa, novecentomila galline di Livorno bianche, importate dall’Italia a metà dell’Ottocento e allevate in modo frenetico da allora. Erano merci o individui? Il punto era proprio questo».
Sono questioni che si inseriscono nel più ampio dibattito su specismo e diritti degli animali, tra cui quello di non considerarli soltanto come proprietà, risorse e beni di consumo. Insomma, chi volesse porsi degli interrogativi filosofici ed etici in questo romanzo troverà di sicuro il giusto pungolo. La stessa Unferth ne aveva già parlato nel reportage Cage Wars, apparso su Harper’s Magazine nel 2014, in cui entra nel mondo delle Egg Farms e ricostruisce la parabola che ha portato allo sviluppo degli allevamenti intensivi, all’impennata della produzione su larga scala e delle richieste pressanti del mercato, fino ai ritmi di produzione isterici e rapidissimi. Il materiale di ricerca è confluito poi nel romanzo, insieme alle numerose informazioni e alla documentazione cui l’autrice ha avuto accesso confrontandosi direttamente con investigatori, attivisti e allevatori.
Non si commetta, tuttavia, l’errore di derubricare Capannone n.8 a un’opera documentaristica o di denuncia. Certo, tra un’ovaiola in fuga e un buffo battibecco dei protagonisti, solo a un lettore particolarmente distratto e impermeabile non sorgerebbero almeno due o tre dubbi. Eppure, non siamo di fronte a una tirata moraleggiante in difesa dei volatili né a un’esaltazione del ruolo degli attivisti, di cui, al contrario, vengono messi in luce anche egoismi e contraddizioni («Ormai più che una rivoluzione l’animalismo era un capitalismo con la coscienza»). Il grande merito dell’autrice sta proprio nel saper toccare tutti i punti più urgenti (condizioni degli allevamenti intensivi, sostenibilità dei sistemi produttivi e ripensamento dei consumi) e cucirli perfettamente nell’intarsio della tragicomica vicenda principale, con immensa ironia e sorprendente leggerezza, senza tuttavia tralasciare profondità e commozione.
Rimane, questo, un romanzo larger than life, fuori dall’ordinario al pari dell’impresa che racconta: è tante cose insieme, così come tante sono le domande che solleva. È anche la storia di come gli incontri più inattesi siano in grado di risvegliare un sopito e incerto desiderio di liberazione (di altre creature come di sé stessi). «Per essere liberato devi avere un posto in cui essere libero», afferma a un certo punto Cleveland. Quel posto, a volte, può non corrispondere a un luogo fisico, ma tradursi nella decisione di mettere in pratica un’idea improbabile pur di riprendere slancio, ritrovare un obiettivo. Ma questo non è nemmeno (soltanto) il racconto di un gruppo di persone alla ricerca o alla riscoperta di una giusta causa per cui battersi contro ogni buonsenso.
Al di là della vicenda esilarante e insieme politica – e oltre la prospettiva dell’estinzione degli umani tratteggiata nell’epilogo (neanche più così assurda, visti i tempi) – dalle pagine sembra trapelare un’ulteriore domanda: è ancora possibile, all’interno di un sistema che si fonda su una consolidata serie di squilibri e di meccanismi autodistruttivi, compiere un’azione che non contribuisca ad aggiungere caos al caos, ma che possa davvero scuotere quelle fondamenta, e che riesca a farlo superando i personalismi e le lusinghe della militanza estemporanea? Chissà se le galline lo sanno.
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