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Fossimo stati negli anni Novanta il protagonista di Storia di Shuggie Bain di Douglas Stuart (traduzione di Carlo Prosperi, Mondadori) sarebbe stato Shug Bain, una specie di Frank Begbie protestante, tassinaro rissoso e fedifrago che conosce palmo palmo i laidi marciapiedi di Glasgow e scarrozza signore di facili costumi in giro per la città. Ma siccome sono passati venticinque anni da Trainspotting, a prendersi la scena è suo figlio, Shuggie Bain, un bambino bullizzato che ama le bambole bionde e i minipony. Questa è la sua storia, non quella del padre, e non l’avevamo ancora ascoltata.

Partiamo dai luoghi. Il romanzo prende avvio in una piovosissima città di arenaria a nord del Vallo di Adriano, un posto popolato di «gente pallida e bronchitica», dove addentrandosi nel midollo, nella parte «più vera», si incontrano «locali notturni clandestini nascosti sotto le arcate buie dei viadotti ferroviari, pub senza finestre dove vecchi e vecchie trascorrevano le giornate di sole in un sudato, puzzolente purgatorio. Era dalle parti del fiume che ossute donne dal volto nervoso si vendevano a clienti al volante di station wagon fiammanti, e talvolta era lì che la polizia, poi, le ritrovava fatte a pezzi dentro sacchi della spazzatura. La sponda settentrionale del Clyde ospitava l’obitorio comunale». La fase successiva di Storia di Shuggie Bain si tiene a Pithead, un insediamento ancora indietro nella transizione ecologica che meriterebbe una etnografia a sé; si trova a ridosso di una torbiera e di un mare di pietra, dove uomini di grafite lavorano a «colline di scorie che si estendevano per chilometri e chilometri come onde di un mare pietrificato». Shug Bain ha pensato che quello era il futuro e ci ha preso casa, salvo poi fare i bagagli che neppure aveva imboccato il vialetto d’ingresso. Ci lascerà la sua asimmetrica famigliola: Agnes, Shuggie, Leek, Catherine.

Abbiamo detto di tutti i luoghi e tutti i laghi, ma non del tempo dell’azione che copre gli anni che vanno dal 1981 al 1992. Che sia un libro del 2020 lo capiamo però dal nipote di Shug Bain, Donald Jr, futuro marito di Catherine, che nel giro di un rigo si macchia del duplice misfatto di manspreading e mansplaining. E poi c’è la stessa Catherine che il 12 di luglio se ne va a zonzo con una mantella verde e per poco non la violentano se risponde male alla domanda «Celtic o Rangers?». Patriarcato, arretratezza sociale e culturale, tribalismo limaccioso: ecco serviti i temi.

Due figli dal primo marito, un bolso cattolico tale e quale al padre che l’ha cresciuta, Agnes Campbell ripudia il consorte giusto in tempo per scodellare Shuggie, prodotto di cotanti lombi – quelli di Shug Bain, col suo bel riporto da pettinare e una donna in ogni dove. Agnes si ritrova costretta in un appartamento coi genitori e a desiderare una vita che sia una. Non andrà benissimo: prima si beccherà le cinghiate del padre (ricordate il bolso cattolico?) e poi finirà dentro un tugurio cadente sotto alle miniere di Pithead. Ci metterà poco a rimpiangere le torri di Eastern Road, a Sighthill, quei blocks che verranno abbattuti col nuovo secolo, spartane colate di calcestruzzo verticale che nella testa degli architetti di allora dovevano rappresentare una qualche confusa idea di città del futuro. Come sant’Agnese, Agnes non brucia ma è tra le fiamme (una vecchietta si premurerà di farle sapere che alla fine, siccome non prendeva bene, «gli uomini» l’hanno decapitata, a sant’Agnese). Affoga i dispiaceri nell’alcol ma non si dà per vinta, almeno non ancora. Frequenta gli Alcolisti anonimi, esplora a dovere il suo penchant per i tassinari e Stuart non smette di ricordarci che a quarant’anni suonati e con un filo di trucco e parrucco ancora riesce nella sua migliore imitazione di Liz Taylor, fase Puerto Vallarta. Poi è sempre in tiro, impeccabile nella mise che fa invidia a tutto il vicinato di bifolchi, e linda e pinta come una capocchia di spillo si bea delle attenzioni di ogni maschio arfio del circondario. È il personaggio più interessante del libro fra i momenti di oblio e le saltuarie resurrezioni.

I figli del cattolico McGowan (una comparsa nella vita di Agnes e nel romanzo) sono presto detti: c’è Leek, il taciturno, involuto, fratello maggiore di cui sappiamo poco, a parte quella sua voglia di trovarsi un qualche rifugio, sia sotto le lenzuola o in una catapecchia zeppa di foto di modelle di Page 3 ricavata nel sottoscala di una fabbrica che sembra in stato di abbandono. Avrebbe pure velleità artistiche ma si vedono poco. Pure lui qualche vizio se lo trova: gioca alle slot, e questo ce lo leva di torno per buona parte del libro. Catherine, l’altra figlia di primo letto, si dà subito direzione Sudafrica, e toglie di impaccio noi e il suo autore nel doverle dedicare qualche paginetta per descriverne la psicologia.

I villici di Pithead sembrano avere tutti figli in doppia cifra, denti marci per la troppa Irn-Bru, bevanda nazionale caledoniana rigorosamente alternata alle latte doppio malto mortale di Special Brew che fanno scoccare occhiatacce alle cassiere (mentre da noi per anni sono passate per scelte fini, da intenditori). I più pudichi mettono le mani a coprire i barattoli di Tennent’s con le donne ignude che la tivù a gettone manda in onda a piè sospinto. Non sono ancora arrivati gli anni delle pubblicità Chauvinist (ma insomma) e i calciatori e cantanti sfoggiano i mullet (che inspiegabilmente nell’edizione italiana troviamo tradotto come taglio «a triglia»). I contatori per l’elettricità vanno a monetine da cinquanta penny, i pastori tedeschi si chiamano Rambo, i preti sono pedofili, boys will be boys, ci stanno le case mobili e al primo appuntamento si va a una mascherata western, insomma siamo in Scozia, s’è capito.

Soprattutto una cosa accomuna gli abitanti della ridente Pithead: il disprezzo per Agnes, capitata lì per caso e vista come una mezza borghese con la puzza sotto al naso e un’attenzione al vestiario e all’igiene francamente fuori luogo. Ma se gli uomini la bramano, le donne la guardano prima con sospetto e poi con autentica avversione. Nulla a confronto dell’odio viscerale a cui è soggetto il povero Shuggie – Hugh all’anagrafe – che dà il nome all’opera di Douglas Stuart. A scuola ci va giusto per farsi mettere sotto dai compagni e dagli insegnanti, il resto del tempo prova a scovare le bottiglie nascoste dalla madre, a osteggiare la varia umanità di scrocconi e profittatori, e occasionalmente pettina qualche bambola o si fa male tentando di essere come gli altri. «Sempre un po’ strano. Strano strano» dice di lui il fratello altrettanto strano ma meno strano. Nell’educazione sentimentale di Shuggie arriveranno pure le molestie (spoiler: avvengono su un taxi) e l’età adulta ce lo mostrerà in un bedsit a pigione da Mrs Bakhsh, solissimo e impegnato in un lungo commiato.

A Storia di Shuggie Bain manca l’impazienza con la forma romanzo, quell’irrequietezza espressa dal precedente Booker Prize, e se in Ragazza, donna, altro Bernardine Evaristo filmava un coro di monologanti ultracontemporanee, Stuart si butta a capofitto nel ritorno all’infanzia, nella cornice narrativamente rassicurante dove è possibile ambientare un bel melò dickensiano col suo Shuggie che ha tutta l’aria afflitta di un Billy Elliot che si farà (non è dato saper se solo fuor di metafora). Il bambino che mantiene salda la barra mentre attorno il mondo gli frana addosso è raccontato in una terza onnisciente che non si leggeva da anni, e con buona ragione. Il tutto in una lingua brulla, che non disdegna immagini al limite dello sghignazzo, come quando nello spazio di poche righe passiamo dal taxi nero che «girò su se stesso come un cagnone che si insegua la coda» a Shug Bain che «trovò i lunghi, folti baffi e cominciò a lisciarseli distrattamente come fossero un gattino». Non siamo nei dintorni della babble novel animata dalle conversazioni di intellò e universitari, questo pare chiaro. E come in ogni romanzo fortemente trainato dalle dipendenze, le azioni sono prevalentemente ricorsive: con buona pace di Martin Amis che scriveva in Money che «certe volte tornano utili anche le dipendenze: se non altro servono a stanarti dal letto», la gran parte del libro si svolge fra divani sfondati e salotti coi muri fradici. Nemmeno una gitarella al pub, per dire. A tal proposito, Stuart indaga l’alcolismo dilagante fra minatori, disoccupati e casalinghe sfaccendate alle prese con nidiate di mocciosi, come una piaga sociale, con un determinismo ferreo, ottocentesco. A tratti sembra di leggere Germinal di Zola. I suoi personaggi non fanno a tempo a incassare il sussidio di disoccupazione che subito finisce dritto in Buckfast. Le donne poi sono costrette a prostituirsi in cambio di un goccio oppure per offrire una chance di redenzione, sia anche una giornata fuori a pesca, ai propri figli. Gli uomini hanno a disposizione tre mestieri: o fanno i tassisti (e allora stuprano, tradiscono, bevono, rubano, fanno campagna per Storace eccetera) o i minatori, e siccome le miniere vanno chiudendo per la deindustrializzazione (vi ha dato un bel mestiere: il tassista), allora c’è la wild card dei disoccupati che non leggono libri né giornali, non visitano musei, mostre, chessò un sito archeologico, magari un castello, non vanno a teatro, al cinema, a un concerto ma nemmeno allo stadio o a ballare. Praticamente, un italiano su cinque. E stanno tutti a Pithead. A uscirne con le ossa rotte non sono solo i tassinari, a quanto pare capaci di ogni nefandezza – e viene da chiedersi se Stuart abbia mai messo piede su un taxi romano e se il conducente non si sia abbandonato alla solita serenata rap meloniana inducendolo a cantare una vecchia canzone di GTA –, ma fonte di ogni male è anche e soprattutto il calcio. A ogni derby Rangers-Celtic i tifosi della squadra perdente si rifanno fra le mura domestiche spedendo all’ospedale le malcapitate donne di casa. Sia mai un tassista malintenzionato ti regali gli scarpini, come minimo ti vuole vedere calpestato e sbertucciato dai compagni in una pozza di fango. Poi se perfino il tassista benintenzionato ti fa dono di un almanacco coi risultati sportivi, allora finisci per diventare un nerd sulla difensiva, capace di snocciolare il rosario delle formazioni titolari della Scottish Premier League pur di non buscarle. Il calcio ti farà diventare un vero uomo o ti ammazzerà nel provarci.

Non è una visione scontata del beautiful game. In A Natural, Ross Raisin prendeva un ragazzo che a diciannove anni si esprimeva attraverso un pallone e sui campi da calcio trovava la sua ragion d’essere e lo poneva di fronte a un doppio bivio. Il suo Tom Pearman ha sempre saputo cosa sarebbe stato della sua vita: avrebbe giocato in Premier League. Ma un bel dì quando a diciannove anni viene rilasciato dal vivaio della società dove era cresciuto, si ritrova non più adolescente in League Two su campacci di periferia e contornato da un’umanità avvilente. Il suo romanzo di formazione sarà complicato ulteriormente dalla scoperta della propria omosessualità, difficilmente conciliabile con un mondo schiettamente maschilista e con la sua bruciante ambizione di riuscire nello sport che fino a quel punto è stato la sua vita. Laddove in A Natural il calcio può perfino diventare uno strumento di liberazione, in Storia di Shuggie Bain questo sport è visto esclusivamente come un metodo per asserire una mascolinità tossica, un bisogno di aggregazione turpe il cui collante è solo e soltanto la prevaricazione. Manco a dirlo, Shuggie viene scelto per ultimo quando è il momento di fare le squadre e sbeffeggiato dai compagni, il solito allenatore bidimensionale gli bercia contro le altrettanto trite contumelie d’ordinanza, e lui si consola insegnando a memoria la coreografia di Control di Janet Jackson alla adorata madre. I luoghi comuni sono salvi.

Per essere un Booker Prize di questi tempi, Storia di Shuggie Bain presenta una quota diversity piuttosto bassa, specie se lo paragoniamo al precedente di Bernardine Evaristo (ma non al romanzo di Atwood), e però va considerato anche con un certo realismo: nell’ultimo censimento è venuto fuori che oggi la Scozia è al 96% bianca. Figuriamoci all’alba degli anni Ottanta. Il comico sudafricano Trevor Noah ci ha fatto tutto uno spettacolo sull’ipotesi che Idris Elba potesse diventare il nuovo James Bond e puta caso trovarsi in missione in Scozia, dove perfino l’agente più trasformista avrebbe dato nell’occhio per via del colore della pelle. Il libro però è stato un successone e, come da tradizione frassichiana, diventerà un set portagioie, una serie tv, un calendario, un liquore e perfino un profumo. D’altronde in questa riscoperta dell’immaginario di quegli anni, su Netflix e non solo, ne verrebbe fuori una buona, perlomeno di serie tv. Gli anni Ottanta hanno visto Edimburgo diventare la capitale dell’Aids in Europa, anche se Glasgow manteneva saldo il primato quanto a eroinomani. Nel 1980, a Raymond Depardon viene commissionata una serie di fotografie che immortali la vita glasvegiana dell’epoca. Lo stesso committente, il Sunday Times Magazine, le rifiuterà per la loro inattesa carica di verità. Quelle foto avranno un impatto non indifferente nella ricostruzione della città tentata dal quarantaquattrenne Douglas Stuart, che nella vita lavora nella moda per Calvin Klein, The Gap e Jack Spade. Le immagini parlano chiaro: adolescenti e ragazzini che si muovono con grazia dentro un ambiente radicalmente ostile alla vita umana. Sprazzi di colore in un mondo grigio e anemico. Scritte sui muri e torri residenziali, orgoglio proletario e gomme da masticare.

Quanto al risultato finale dell’opera che ne è scaturita siamo di fronte a una lettera d’amore alla madre piuttosto laboriosa e monocorde, e non si fatica a riconoscere in Agnes e in Shuggie, la madre dell’autore e l’autore stesso. Le distinzioni di classe, l’alcolismo, la mappatura di un mondo scomparso, il lungo lascito del thatcherismo al nord si mangiano il romanzo e Stuart, all’esordio, fatica a scegliere un punto di vista e una vicenda da privilegiare. La prima bozza constava di novecento pagine, un mattone rivelatorio per uno scrittore che dentro di sé aveva evidentemente un mondo (o forse anche più d’uno), ma che sembra aver privilegiato questa verità e l’urgenza del racconto alla finzione narrativa. Il secondo romanzo di Stuart sarà ambientato negli anni Novanta, e prevedibilmente verterà su una storia d’amore fra due ragazzi provenienti dalle opposte tribù, protestanti e cattolici, nella Scozia degli anni Novanta. Ancora l’altra faccia di Trainspotting e di quel paesaggio umano; di nuovo una narrazione che gioca sulle opposte fazioni l’un contro l’altra armate. È lecito attendersi la stessa carica di realismo sociale, speriamo che vi si coniughi anche una riflessione sulla forma e sullo stile più matura.

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