Come parlare dello Strega?
Riunione di Altri Animali. Propongo un gioco: prendiamo 12 lettori qualificati, procuriamo loro tutti e 12 i libri candidati e 24 giorni per leggerli (due giorni per ciascun libro). Alla fine, ognuno di loro voterà la cinquina ideale, e noi posteremo soltanto la tabella con le 144 caselle (12 lettori x 12 libri), con i pallini a indicare i loro voti e una spiegazione di come si è arrivati al risultato finale.
La proposta cade quasi nel vuoto. Non solo perché il lavoro richiede una quantità di volontari che non abbiamo e un numero complessivo di ore di lettura spaventosamente alto. Sospetto che a frenarci sia l’aspetto giocoso di un approccio del genere. Il disperdersi dell’attenzione critica che accompagna tutte le disamine collettive dei libri candidati al premio «più prestigioso d’Italia». Il pericolo che qualsiasi opinione espressa in una forma diversa dalla singola recensione approfondita possa essere ricondotta al chiasso che accompagna il baraccone dello Strega, che si nutre annualmente di polemiche, voci di corridoio, mosse strategiche dietro le quinte, e che finisce per ridurre il tutto a una questione di marketing, non particolarmente raffinata.
Al netto delle controversie, delle esclusioni notevoli e dei giochi di potere, è innegabile però che la scelta degli Amici della Domenica dovrebbe corrispondere a una rosa di consigli di lettura. Decido allora di farmi carico io dell’impresa e provare a dire qualcosa di interessante (se mi riesce), se non di intelligente sui libri e solo su quelli. Escludendo dal discorso, cioè, per prevenire qualsiasi fastidio (in primo luogo il mio), tutto ciò che riguarda il premio in senso stretto e le sue dinamiche, i grandi marchi, l’editoria indipendente, i nomi famosi e quelli sconosciuti. La speranza minima è di ricavare almeno qualche buona lettura e di farne racconto.
Gli amici mi scoraggiano: «Secondo me è proprio sbagliato parlare dello Strega, zi’», dice L. . «Se neanche ti pagano, chi te lo fa fare?», dice A. «Piuttosto mi rileggo Thomas Mann. O Corrado Alvaro», dice O. Hanno tutti ragione (come titolava un controverso libro finalista di qualche anno fa), o almeno porzioni di ragione. Io stesso mi dico che difficilmente troverò uno scrittore del cuore come Pavese o Bufalino, o autori potenti come Starnone, Consolo, Pontiggia, Citati, Landolfi… Eppure, eccomi qui, a dedicare il mio tempo libero a leggere, al posto vostro, dodici libri di cui si è parlato molto e molto si parlerà ancora, almeno per le prossime settimane.
Comincio l’impresa con Due vite di Emanuele Trevi (Neri Pozza)
Il breve libro di Trevi è uno scavo nella memoria, il tentativo di far riaffiorare le personalità di due amici prematuramente scomparsi, i due scrittori Rocco Carbone e Pia Pera. Il suo punto di forza è il suo limite: l’eccesso di intimità. Le due vite non stanno in piedi da sole, è il sentimento di Trevi che ne allestisce la messa in scena e ne orchestra la regia. Alla fine è lui, Trevi, il protagonista. I libri, le fotografie, le lettere avrebbero ancora un che di documentario, sarebbero facilmente un correlativo oggettivo (oggettuale) di due esistenze, ma qui intervengono l’affetto, la memoria personale, il senso di colpa, ciò che di elastico le amicizie comportano, nell’inevitabile alternarsi di contatto e distacco. E nei tristi epiloghi che mettono fine alle due biografie (un assai poco narrativo incidente in moto di Carbone e il lento spegnersi per malattia di Pera). Non è un libro patetico e non è un libro lirico, è invece un libro scritto con lucidità e con la precisione di chi ha trovato un metodo per addomesticare i ricordi. Si accendono nostalgie del passato condiviso, ma si rievocano anche gli scritti dei due e li si esamina con equanimità, pur concedendo di ricercare in essi qualcosa del carattere dei loro autori. Una testimonianza delle qualità umane e letterarie, resa con affetto e partecipazione mai debordanti, e in una prosa elegante. Che, quando astrae dal vivo della materia, infila frasi memorabili come: «Non dico solo nei libri, ma nell’universo non c’è nulla che davvero ci assomigli, noi stessi non ci assomigliamo, e ogni forma di identificazione non è, in fin dei conti, che il casuale sovrapporsi di ombre fuggitive». Qui è dove, come spesso accade, le parole di Trevi trascendono il singolo momento narrato. L’impressione che rimane più a lungo, ultimata la lettura, è che Trevi sia in grado di scrivere con sensibilità e acume di qualunque argomento rendendolo affascinante. Il che è un meraviglioso invito a leggere tutti gli altri suoi libri.
Il secondo romanzo che leggo è di Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani)
L’incipit mette davanti al tema dei temi di questo libro: «Tutte le vite iniziano con una donna e così anche la mia». Questa donna è l’ingombrante madre Antonia, che è, per la protagonista e narratrice, modello di determinazione e fonte di vergogna e rancore: occupa un appartamento, cresce prima due poi quattro figli, accudisce il compagno reso disabile da un incidente sul lavoro, porta in sostanza sulle spalle il peso dell’intera famiglia. È un romanzo di formazione, in cui ciò che viene guadagnato non è il successo ma la solitudine, l’incapacità di comunicare, la sfiducia in sé stessi, la rabbia e il risentimento. Il desiderio di rivalsa si traduce in una chiusura e in una serie di azioni violente, mentre le tappe dell’esistenza sono scandite dai trasferimenti (e dai tradimenti): la minuscola casa occupata, quella provvisoria assegnata a Roma nel palazzo troppo elegante di Corso Trieste, quella scambiata con un’altra assegnataria ad Anguillara Sabazia; il ritorno, sul finale, a una Roma ormai estranea. Anche il paese affacciato sul lago è uno dei protagonisti del libro, con i suoi riti, le sue dicerie e cattiverie, con le amicizie pendolari, con le rigide separazioni tra le ville dei ricchi e le case popolari dei poverissimi. Il libro è costruito in prima persona, in uno sforzo di rappresentare l’ingenuità della visione bambina – poi sostanzialmente mantenuta immutata. È scritto in un presente storico che schiaccia i tempi lunghi della durata e della ricorsività su quelli dell’azione istantanea e dell’evento, senza che il tempo del racconto sia mai individuato come altro rispetto a quello dell’azione. Così le scene drammatiche sono preparate da un accumulo di storia, in una struttura che si ripete pressocché costante, ovvero il caricare di tensione ciò che appare consuetudinario per poi inscenare e risolvere un conflitto con un’esplosione o un’implosione (nel caso delle azioni) o portarla a sconfinare in una sorta di iperbole metaforica (nel caso delle descrizioni). «Noi non abbiamo i cellulari, non abbiamo la televisione, non abbiamo un computer, noi senza mezzi, senza possibilità di comunicazione, chiusi nel passato di un mondo che sta correndo al galoppo, ci sorpassa, ci schiaccia sotto i suoi zoccoli duri.» Sempre con un gusto dell’ostensione del particolare che mostri l’enormità, la gravità, l’onnipotenza della miseria, l’ostinazione con cui la famiglia (e la protagonista stessa) resiste alle avversità. E con un raccontare che, forse per imitare il disordine interiore dell’io narrante, indugia, si arresta e riparte, riepiloga, insomma accelera e decelera assecondando il ritmo dell’immaginazione.
Il terzo libro che leggo è Splendi come vita di Maria Grazia Calandrone (Ponte alle Grazie)
L’autrice, poetessa di fama, ha una storia del tutto straordinaria, che non sfigurerebbe come soggetto per un film dossier: abbandonata a quattro mesi dalla madre naturale, suicida, fu adottata dalla famiglia Calandrone (il padre senatore), per essere dapprima accolta con tenerezza e amore e poi, lentamente, diventare oggetto del disamore rancoroso della madre che, in un’ostilità senza ragione, le attribuisce colpe spropositate e assurde e, in una parola, la rifiuta. Ma questa umanissima vicenda di dolore familiare e di incomprensione (che prosegue con il racconto dell’adolescenza, poi dell’incontro con Ornella Muti e l’affiliazione a Scientology, la scoperta della vocazione poetica, fino alla scomparsa di questa madre dolorosa) è trattata da Calandrone con delicatezza e rarefazione. Così il testo ha la lieve profondità di un dettato lirico (spesso le righe vanno a capo come fossero versi e sul finale due liriche vere e proprie chiudono il romanzo) ed è organizzato per brevi e talvolta brevissimi paragrafi. Le figure titaniche che si fronteggiano sono tratteggiate con pennellate piene di grazia, anche quando ciò che si racconta è l’insulto in latino che rinfaccia alla figlia la sua rustica ascendenza. Di una vita che sarebbe romanzesca (di un romanzesco sentimentale, intimo e domestico, certamente) Calandrone fa invece qualcosa di affine a una confessione poetica (e autorizza a questa interpretazione anche un accenno nella nota finale sulla «reticenza» vinta con la scrittura), sulla base di una fiducia nella parola, nel suo potere creativo: «Bussole e armi dei disarmati sono, le parole».
Il quarto libro è Cara pace di Lisa Ginzburg (Ponte alle Grazie)
Al centro del romanzo di Ginzburg sono due sorelle (Nina e la narratrice in prima persona), cresciute in una famiglia «esplosa» a causa delle assenze della madre, fuggita dal matrimonio, e del padre, incapace di prendersi cura delle figlie. La loro infanzia difficile in una casa troppo grande e troppo vuota (una giovane tata straniera a fare da figura di riferimento), l’adolescenza e il presente adulto in cui vivono una a Parigi e una a New York. Ginzburg mette insieme scene di interni e incontri/scontri, dialoghi, telefonate, scambi di messaggi su Whatsapp per narrare due vite lontane e diverse (per indole, aspirazione, interessi): tenta di restituire un’adesione immediata e calorosa al ricordo, in un profluvio di emozioni rivissute e rievocate. Ma non arriva mai ad arroventare la vicenda. Spesso, anzi, Ginzburg si affida alle definizioni più che al racconto; come quando riassume quel che non ha descritto con sufficiente chiarezza o assegna etichette che non corrispondono alla materia narrata: così ripete esplicitamente che tra la madre e le figlie (distanti) c’era una «corrente d’amore» o, invece di mettere in scena la presunta telepatia tra le due sorelle così diverse tra loro, la annuncia: «Una più una: è diverso da una sola. Prima che un’alleanza, la nostra era ed è un’intesa telepatica, ora che viviamo in paesi diversi rafforzata da scambi quotidiani». Ancora: «Era stato allora che mia sorella aveva visto e capito il mio vuoto, questa gabbia dorata dentro cui devo continuamente darmi da fare ed essere vigile per non spezzarmi le ali». Alla fine ciò che più a lungo rimane è la sensazione di incompiutezza di un dramma che non riesce a esplodere davvero, e in questo la chiusa del romanzo non aiuta, con un colpo di coda poco coerente con il resto, e attuato in appena cinque-sei pagine.
Il quinto libro che leggo è L’anno che a Roma fu due volte Natale di Roberto Venturini (SEM)
Si inizia con Torvajanica sotto la neve, ma in questo libro sembra che la gioia sia bandita: i protagonisti sono degli eccentrici, tristi e votati alla disperazione, periferici come il paese in cui vivono, satellite della capitale. Il loro tentativo di rivalsa, una rivalsa grottesca, giocata contro la morte (e perciò destinata al fallimento), passa per un assurdo trafugamento della bara di Raimondo Vianello dal cimitero del Verano, per portarla a riposare accanto alle spoglie mortali di Sandra Mondaini. Un tempo il Villaggio Tognazzi era un lido florido e frequentato dalle star del cinema, tra cui l’attore eponimo, ma gli anni e l’abbandono hanno fatto di questo luogo un deserto: qui Alfreda si è richiusa in sé alla morte del marito, diventando un’accumulatrice seriale di oggetti inutili di cui non si disfa per non separarsi dal passato (ma le autorità minacciano di imporle uno sgombero). Il figlio proverà prima a convincerla a disfarsi del superfluo e ricominciare a vivere in maniera più normale e poi, con una banda improvvisata, si lancerà nell’impresa che costituisce il grosso del romanzo, in un’atmosfera degna dei fratelli Coen (almeno dei loro momenti più cupi). Venturini compie un costante movimento dentro e fuori l’immaginazione dei personaggi, facendo appello a un archivio di icone, alcune personali altre provenienti dalla cultura televisiva, cinematografica, musicale, della pubblicità, del gossip, insomma nazional popolare. Un immenso archivio (o accumulo), che aggiunge tridimensionalità e spessore alla favola nera cui assistiamo. A un certo andamento fiabesco fanno pensare anche le frequenti fughe in avanti o indietro («Pensò che…», «Immaginò che…», «Si ricordava che…»). E tuttavia il narratore si concede qui e lì interventi ingombranti – «Era come la cauda pavonis in alchimia»; «come quando Mosca si diede fuoco prima dell’arrivo di Napoleone»; «un sorriso compiaciuto da bambino che all’improvviso ricorda la combinazione destra-basso-diagonale basso destra-pugno per lo shoryuken di Street Fighter 2» – intervenendo con frasi che provengono da universi non coerenti e non contigui a quelli narrati. La voce e il tono del primo Venturini (quello di Tutte le ragazze con una certa cultura hanno almeno un poster di un quadro di Schiele appeso in camera) nel complesso apparivano più compatti, e conservavano dosi generose di cattiveria nell’ironia anche quando indugiavano nel patetico; mentre in L’anno che a Roma fu due volte Natale prevale un senso finale di malinconia.
Il sesto libro è Il libro delle case di Andrea Bajani (Feltrinelli)
Due espedienti narrativi danno forma al libro di Bajani: il ricorso a una prima-terza persona, ovvero il nominare «Io» il personaggio di cui racconta il narratore onnisciente (nelle prime battute: «il bambino, che per convenzione chiameremo Io»), quasi a volerne oggettivizzare l’umanità e l’intimità; la scansione per brevi capitoli, ciascuno datato e intitolato a una casa (Casa del sottosuolo, Casa di famiglia, Casa dell’adulterio ecc.), nei quali effettivamente si raccontano accadimenti ed emozioni partendo dalla descrizione degli edifici e degli ambienti, testimoni di unioni e separazioni, liti, sesso e dolori e quant’altro, e le emozioni sono date dalle posizioni reciproche, dal modo in cui i corpi, quasi fossero mobili soprammobili suppellettili, occupano lo spazio. Inframezzate a queste istantanee, vi sono alcune planimetrie, a sottolineare il senso di reciprocità tra luoghi ed eventi. Casa è il carapace della tartaruga della casa natale, l’abitacolo della Fiat Panda bianca del Padre, ma pure il nascondiglio segreto in cui le Brigate rosse tengono prigioniero Moro, ipotizzato oltre il riquadro dello schermo televisivo («Se Io s’infilasse gattonando dentro il rettangolo di luce del televisore che sta nella sala da pranzo» vi giungerebbe) e il bagagliaio della Renault 4 in cui viene ritrovato il suo corpo, casa la placenta della madre gestante, casa la banca in cui è depositato il primo conto corrente, casa l’Idroscalo dove viene assassinato Pier Paolo Pasolini. (Moro e Pasolini sono trattati come momenti apicali, eventi storici che incrociano l’esistenza individuale, sfiorandola). In mezzo, una storia d’amore tra Io e una donna che ha già una bambina. Le storie d’amore, si sa, sono fatte anche di traslochi, di quelli felici, quando si instaura una convivenza, e di quelli tristi, quando l’amore finisce. Sul finire del libro ricorre un confronto tra l’esiguità dello spazio “a misura d’uomo” e l’enormità degli edifici, nella vuota cavità degli interni, nel peso dei volumi di cemento armato, nell’incastro di edifici e spazi della città. «Ma il silenzio è silenzio anche sul balcone: l’esterno è uguale all’interno meno il frigo, che in cucina si sente soprattutto quando tace, come una specie di sollievo. Eppure fuori il sollievo è un panorama spaventato, Roma è un fermo immagine apparente, le strade sono strade e sono vuote, gli edifici sono spazio solidificato, il silenzio è in cemento armato – tranne il vento che spunta gli angoli alle case, appena sibilando.»
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