Potete trovare la prima parte dell’articolo qui.
Il settimo libro che leggo è Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti (Mondadori)
È un romanzo fulminante, in cui si entra controvoglia, strapazzati e stimolati all’antipatia da un io narrante che è vanaglorioso e pieno di sé, e che procede aggressivamente per frasi brevi e taglienti come staffilate, o graffi. Gli altri mi odiano, ma io che ero povera mi sono riscattata e da scrittrice di successo l’ho avuta vinta su tutti. E tuttavia questo straparlarsi addosso, orchestrato benissimo da Ciabatti con continue prolessi e analessi, è magnetico. È il romanzo di una donna che scava nel suo presente e rivive l’adolescenza infelice e colpevole, dalla quale non è mai uscita, e finisce per costringere il lettore a un’empatia accorata – ma mai complice (ed è qui il capolavoro di torsione che riesce a Ciabatti). Un io che si deprime, comprime e dilata, che accusa una folla innominata di guardarla con occhi giudicanti e a quegli occhi chiede però di essere testimoni e anzi pubblico, di applaudire e compatire. Spesso apostrofa i lettori direttamente, stracciando la quarta parete (come quando ripete il suo bisogno di riconoscimento e risarcimento: «Datemi un diadema, un cigno»). Urla perché vuole attenzioni. Ma c’è una brillante intelligenza a scalciare e strepitare, e una lama di sguardo talmente affilata da spaccare in due ogni proprio capello con freddezza. Questo io auto-finzionale (è inevitabile parlare di autofiction, ammesso che la definizione abbia un senso) è credibile per la sua costruzione non monolitica, poliedrica, così generosamente confidenziale, autoindulgente e autoaccusatoria insieme. Una voce che usa un «noi» per chiamare a raccolta le lettrici con cui condivide sofferenze gelosie invidie, le difficoltà del corpo femminile (difficoltà fisiche e psichiche, lo sviluppo del seno, il peso, il piacersi, il piacere, la maternità, la menopausa). In un fluviale, incessante definirsi, rivelarsi, identificarsi, disconoscersi, non tanto febbrile quanto paranoico. Cede all’ipotesi del momento, adatta l’interpretazione del mondo e della storia (personale e universale, vien da dire) al sentimento del momento. È totalmente compresa in quel sentimento e poi, di colpo, ribalta il sentimento e il giudizio nel suo contrario. Incalzata, pedinata e infine scoperta e sconfessata da sé stessa. Una che dice di sé: «Non sono una persona attendibile.» E altrove: «Ma atteniamoci ai ricordi manipolati». E però anche: «ricordate: è una storia vera». Dunque: bipolarità. Mitomania e autocommiserazione. Posa e manipolazione. Non è semplice contraddizione, è uno spostamento più profondo e coincide con la coesistenza e compresenza di un tutto-nulla costante. Depressione e iperattività, autocommiserazione e delirio di onnipotenza. Proprio da questa prolifica confusione scaturisce l’affabulazione. Assumere e mantenere questa postura richiede una ferocia speciale. E Ciabatti se ne fa carico, a rotta di collo, fino a «scoparsi l’adolescenza».
L’ottavo libro è Le ripetizioni di Giulio Mozzi (Marsilio)
Questo è un libro di cui è difficile parlare (l’avranno detto altri, prima di me, e meglio), che non chiama il lettore a una supina adesione ma anzi suscita orrore e sdegno e richiede stomaco, tanto da subire l’esclusione dallo Strega Giovani (perché inappropriato a un pubblico di minorenni) e l’assai più controversa esclusione dalla cinquina del Campiello (dove non avrebbe sfigurato). Sin dalla prima pagina, in cui la data esatta è pronunciata come un «preteso 17 giugno», Mozzi manipola il senso della verità (di quella minima verità che è il patto tra narratore e lettore). In questo modo, da subito, con la ricerca di un ricordo-madeleine che non trova però corrispondenza nei fatti, lancia una sfida all’intelligenza di chi si avventura per queste pagine: non ci saranno paratie, non ci saranno sponde a mostrare dove finisce il flutto della finzione e dove inizia la terraferma di una possibile coerenza con il reale. Si legge: «Che cosa importa, se un ricordo è vero o falso? Che cosa importa, se la nostra vita, la vita di chiunque, è vera o è inventata?». E più avanti: «“Dunque io cosa sono? Immaginaria o reale? Vera o non vera?” “Se vuoi essere reale per me, devi essere immaginaria”». Si andrà avanti tra i flutti della finzione, perché quello è il solo e unico reame della letteratura. Ogni riferimento ai fatti della vita di Giulio Mozzi (e ve ne sono parecchi), ogni dettaglio che sembra poter coincidere con quelli delle «storie» di Mario, il protagonista, è puramente fittizio. Eppure la scrittura di Mozzi, che mette insieme un imponente inventario di oggetti, eventi, incontri, divagazioni, sogni, miserie umane, rimane estremamente realistica. Dalla doppia, anzi tripla, vita del protagonista non si trae insegnamento (il montaggio caotico ma efficace non smentisce l’impressione che non ci sia una progressione nell’accumularsi, nel ripetersi dei capitoli). Né dall’amore sfortunato per Lucia, il primo, né da quello pacifico e supino per Viola, la promessa sposa, né da quello contorto e lontano per Bianca, madre di una figlia-non figlia del protagonista, né dal rapporto di oscena servitù sessuale per il corrotto Santiago. Il libro è pieno di dialoghi straripanti di intelligenza (alla maniera di Mozzi, del resto chi lo segue lo sa). Resta, per più di un riferimento esplicito, il sospetto che tutto il testo sia un complicato, leopardiano studio sulla felicità – nel suo conflitto con il caso e il destino, nel contrasto tra immaginazione e realtà, tra desiderio e violenza. E, per finire, l’aspetto scandaloso del libro, il suo volontario percorrere la strada del male naturale (era il titolo di una raccolta di racconti di Mozzi), quello che coabita con il bene naturale, e che diventa senza sussulti abitudine e costume, seconda pelle, seconda (o terza) vita. Mozzi ha la capacità lucidissima di raccontare entrambe le cose: l’alta aspirazione dell’artista e la laida abiezione del pervertito (l’eros con i cani sgozzati, la pedofilia, di nuovo). Nobiltà d’animo, generosità verso gli anziani genitori e menzogna. È sempre stato questo, Mozzi, non ha mai avuto mezze misure. Perché? Ci si chiede, alla fine, stremati dalla lettura. E il cerchio non si chiude. Mozzi ha creato un castello di relazioni, di rapporti perturbanti (esclusivi, incomunicanti) e poi ci ha scavato dentro un deserto. Ha eretto un tempio (umano, e quindi fragile e insano) e poi lo ha demolito. E le ultime parole del libro («Adesso, basta.») sono anche le ultime parole del lettore.
Il nono libro è Il pane perduto di Edith Bruck (La Nave di Teseo)
In quanto ricostruzione diretta della vita di una donna sopravvissuta alle deportazioni naziste, questo libro si inscrive nel filone delle orazioni civili più che in quello dei romanzi letterari. Da un incipit quasi fiabesco («Tanto tanto tempo fa c’era una bambina…»), con un tono che sembra riprodurre un doloroso stupore, Edith Bruck ci porta per mano dall’infanzia ungherese in un piccolo paesino all’impatto dirompente delle leggi razziali (con i compaesani “buoni” che si rivelano antisemiti), quindi la deportazione a Birkenau, Auschwitz, Dachau, Kaufering, Landsberg, Bergen Belsen, Kristianstadt, e quindi di nuovo, in marcia, fino a Bergen Belsen. Una vera e propria odissea, che prosegue con il tentativo di rientrare in patria, dove la casa natale è stata distrutta. Da lì la peregrinazione presso i fratelli e poi l’arrivo di Edith a Israele, un matrimonio e un divorzio, il lavoro di ballerina e una tournée in giro per l’Europa, l’Italia, l’incontro e il matrimonio con Nelo Risi, la pubblicazione dei libri, le lauree ad honorem («Se ci ripenso, mi pare il più bel gioco che abbia mai giocato»). L’esperienza centrale, ovviamente, è quella del lager, in grado di segnare per sempre l’esistenza («In quel luogo si imparava tutto sull’uomo e sul mondo») e di creare una distanza incolmabile con il resto degli esseri umani («tra noi e chi non aveva vissuto le nostre esperienze s’era aperto un abisso, […] noi eravamo diverse, di un’altra specie»). Dal punto di vista stilistico serve a poco segnalare che la terza persona un po’ ingenua della prima parte del libro cede il passo a una prima persona che dice io di fronte all’orrore e alla concreta fatica della sopravvivenza, in linea con l’intento civile dell’opera (sottolineato dalla chiusa e da una lettera finale, umanissima, risentita, rivolta al Dio che ha lasciato accadere il Male).
Il decimo libro è Adorazione di Alice Urciolo (66th&2nd)
Questo libro (ne aveva scritto la nostra Giorgia Sallusti qui) ha i continui cambi di scena e di focalizzazione sui personaggi, il ritmo e gli stacchi di una sceneggiatura, e non di quelle cinematografiche ma proprio di quelle delle serie tv (l’autrice è sceneggiatrice di Skam Italia, tra le altre cose). E lo si legge appassionandosi, con curiosità e un po’ con nostalgia (ma questo riguarda la mia ricezione di quarantenne, non direttamente il testo), divorando le pagine come nel più classico dei binge watching. È una storia di adolescenti della provincia laziale, ambientata nella minuscola Pontinia, dove tutti conoscono tutti per parentela diretta o indiretta o frequentazione e, soprattutto, tutti sembrano reagire allo stesso modo, ovvero con il silenzio e la rimozione, alla tragedia che si è consumata quasi un anno prima della prima scena del romanzo: Enrico ha ucciso per gelosia la ragazza che voleva lasciarlo, Elena. Come un amore adolescente possa deragliare verso un possesso cieco e distruttivo è quello che, in un modo o nell’altro, si chiedono i protagonisti del libro: Diana, Vera, Vanessa, Giorgio, Gianmarco, Christian, alle prese con relazioni, amicizie, rapporti genitori-figli (dominati da incomunicabilità e assenze) e con l’esperienza dei propri corpi e del sesso. Urciuolo ha una grande capacità di gestire un coro di protagonisti con fine sapienza registica e allo stesso tempo di suscitare un’empatia continua. Anche quando (molto realisticamente) una scena contraddice l’altra e, per esempio, certi slanci di amicizia di un personaggio vengono interpretati da un altro come frutto di invidia gelosia rancore. È un libro denso eppure delicato, fatto di gesti rivelatori ancor più che di dialoghi, che mette in scena uno spaccato della complessa ricchezza dell’adolescenza – anche se lo fa, come si diceva, alla maniera di certe serie televisive, quindi mettendo la spunta a tutti i temi caldi da trattare, dall’accettazione di sé all’esibizionismo, dalla verginità all’omosessualità, dalle facili simpatie neofasciste di certi ambienti alla depressione di giovani e adulti.
L’undicesimo romanzo è La casa delle madri di Daniele Petruccioli (TerraRossa edizioni)
È la storia di una famiglia, quella di Sarabanda e Speedy, e dei loro due figli gemelli Elia ed Ernesto. Quest’ultimo viene al mondo con un handicap motorio, vissuto come colpa gravante sulla sua vita e rifiutato come superabile ostacolo alla normalità: «Per i gemelli, del resto, la malattia di Ernesto, datando dalla loro nascita, rappresentava l’atto costitutivo dell’esistenza. Senza di essa, non c’erano neppure loro. I gemelli cominciavano (nascevano) come tragedia, e come tragedia della mancanza (nascevano monchi)». Ed è una storia di reciproche incomprensioni e di tentativi falliti di comprendersi (o di spiegarsi a sé stessi, o di ignorarsi testardamente), incorniciata dalla storia naturale delle famiglie, che è fatta di congiungimenti, separazioni, contrasti, scomparse – e della reazione a ciascuno di questi eventi. Tutto questo Petruccioli lo conduce come uno scavo continuo, meticoloso e accurato, delle ragioni e delle intenzioni di personaggi in contrapposizione (Ilide e Sarabanda, Sarabanda e Speedy, Elia ed Ernesto), e con una scrittura spesso contrappuntistica: «Ilide era mimetica. […] Non uno sconto, non una deviazione dalla norma piccolo borghese […]»; «Sarabanda era un’esibizionista. […] Non una concessione, non un cedimento alla norma borghese […]». La personalità di ognuno emerge più netta nel contrasto con quella di un altro, così come le sensibilità inconciliabili che si abbandonano o si negano a tentativi di conciliazione. Conflitto è la parola che attraversa neanche troppo silenziosamente il libro intero. Conflitto dell’io con sé stesso e dell’io con gli altri. Nell’inafferrabile dominio delle emozioni, l’ambivalenza di ogni definizione è un ulteriore filo rosso. Petruccioli descrive gli eventi come fossero già avvenuti, da una prospettiva temporale lontana, finale, che gli permette di far cozzare continuamente i primi indizi di un mutamento con il loro esito. Il tutto con una sorta di ansia di anticipazione (evidente nei frequenti incisi del tipo «anni dopo avrebbe capito che…»), una corsa verso il futuro: sembra suggerire che neanche nella conoscenza del destino s’appaga e scompare la paura della fine (che è l’anima di ogni narrativa). Al pari dei soprammobili, delle suppellettili, di ciò che di decorativo e accessorio ingombra le stanze, anche la disposizione degli immobili, la scansione di pieni e di vuoti è soggetta al tempo: niente è immutabile, e il ricordo che si affeziona alle forme è destinato a scomparire. In questo senso l’intero romanzo d’esordio di Petruccioli sembra un inno alla memoria perduta, alla perpetua dissoluzione del presente in un archivio labile che, inevitabilmente, verrà cancellato nello spazio esiguo di una generazione.
Dodicesimo e ultimo libro è Borgo Sud di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi)
Di Pietrantonio ha scritto il seguito dell’Arminuta: tornano la protagonista (e narratrice) e la famiglia abruzzese, in particolare la sorella Adriana («Con mia sorella ho spartito un’eredità di parole non dette, gesti omessi, cure negate. E rare, improvvise attenzioni. Siamo state figlie di nessuna madre. Siamo ancora, come sempre, due scappate di casa»). Delle due donne, adulte, seguiamo gli amori testardi e infelici. Ancora una volta il tema di fondo è il rapporto con una alterità primitiva, istintuale e terrestre, la radice familiare contadina, a tratti incomprensibile, raccontata con uno sguardo insieme critico e affettuoso. Ma se nel primo libro (in cui era narrata l’infanzia della protagonista) la tensione della vicenda era costruita intorno a un segreto che era ignoto anche alla narratrice (la ragione dell’abbandono da parte della madre adottiva), qui invece l’autrice crea un’aspettativa intorno a un’informazione essenziale che viene taciuta al lettore, ovvero lo scopo del ritorno precipitoso da Grenoble a Pescara e il motivo dell’ansia e della notte insonne, popolata di ricordi, che da sola costituisce i tre quarti del libro. Nonostante l’eleganza della scrittura, questo piccolo tradimento fa sentire il suo peso (e non aiuta a risollevare il libro la relativa modestia dell’intreccio).
In conclusione
Togliamoci subito il dubbio, per non tornarci più sopra. I miei cinque nomi, nell’ordine in cui li vorrei disposti nella serata finale: Mozzi, Trevi, Ciabatti, Bajani, Caminito.
Poi una confessione (telefonata): leggere questi dodici libri è stato impegnativo e ha richiesto più tempo di quanto avessi previsto di dedicare all’impresa. Esprimere una scala di giudizi relativi sarebbe stato invece molto più facile, anche se non immediato. Se ripenso all’esperimento di lettura collettiva che proponevo inizialmente alla redazione come gioco, mi sembra che in esso riposi un utile principio di verità: le specifiche qualità dei dodici testi saltano agli occhi sin dalle prime pagine. Voglio rendere conto anche di una brutta tentazione che tornava a presentarsi (e che ho cercato di scacciare concentrandomi sulle particolarità stilistiche). Quella di ridurre ogni lettura alla trama riassumibile o all’“argomento del libro” e di fissare l’attenzione sulle costanti ricorrenti, su ciò che ritorna da uno all’altro dei libri finalisti: il tema della “casa”, per fare un esempio. Ma un discorso del genere va nettamente rifiutato, perché si tratta di una trappola logica: non c’è nessun legame sopraordinato rispetto alla pura e semplice coincidenza, nel ritrovare questi libri affiancati nella semifinale di un premio. Quindi è stato necessario cancellare ogni tipo di fantasticheria su questo punto, rifiutare confronti ravvicinati e ogni tentativo di astrarre per creare una mappa del romanzo italiano o una radiografia dello stato dell’arte della prosa italiana a partire da questi dodici elementi. Avendo continuato a guardarmi intorno in questi mesi di letture obbligate, ho la certezza che qualsiasi ipotesi di far coincidere la letteratura italiana con i libri della dozzina Strega sia semplicemente fallace.
Dopo l’uscita della prima parte di questo articolo, sono stato contattato da amici che chiedevano se consigliassi loro un certo libro o se, approfondendo ciò che ne avevo scritto, non bisognasse dedurre piuttosto di lasciar perdere. Questo è il grande potere dello Strega: mettere sotto i riflettori dodici autori e dodici libri. Nessuna rigorosa analisi testuale, nessuna recensione critica può pretendere di avere l’ultima parola rispetto all’interesse, alla curiosità, alla “notiziabilità” che conferisce ai testi la fascetta gialla dei finalisti. La dozzina è, e continua ad essere, un enorme suggerimento (interessato) per il passaparola tra i lettori e quindi per le vendite. Se anche un romanzo risultasse una delusione per qualcuno, il premio conserverebbe la sua aura di letterarietà e di rappresentatività del panorama. Con la cinquina, a breve nominata, accadrà lo stesso e in misura maggiore. L’anno prossimo, accadrà lo stesso, di nuovo. Non per me, però. Per me la lettura integrale dei finalisti dello Strega non avrà un’altra edizione.
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