Entrammo nella stanza. Sul nudo materasso, figure in estasi, due uomini abbracciati.
L’alcova era il palmo di una mano dentro un condominio grande quanto il Regno Unito. Il fotografo della scientifica immortalava l’insieme. Per qualche attimo il flash lo ingoiò, ne levigò le storture. A breve le vittime sarebbero state impresse sulla superficie di una stampa e lì avrebbero smarrito per sempre la loro assolutezza. Icone selvagge di un pomeriggio di ottobre a Brighton, referto di polizia in una galassia di comete nere.
Uno era riverso sul fianco sinistro, ossa sporgenti, un grumo di sangue indurito all’orecchio. L’altro galleggiava steso sulla schiena. Un grande seno da donna. Il pene solo abbozzato. Un taglio svelava il verso interiore dei suoi tessuti. La lama presunta aveva inciso dal pomo di Adamo, aveva poi sostato sulla raggiera dello sterno ed era uscita dal suo stesso solco alla radice del pube. Le viscere affioravano composte nel loro sacco, come se avessero premuto un poco per vedere la luce. I tasselli numerati a terra, casuali. Un timbro di scarpa color sangue. Sul comodino una moneta da cinque sterline.
Timpano sinistro leso con un percussore. Un punteruolo, un cacciavite, un ferro da maglia. Un ematoma diffuso scuriva il collo. Il materasso matrimoniale nuovo, ancora profumato di plastica, straniero tra le macerie dell’arredamento. La moquette, un lago di mozziconi.
Il corpo quasi eviscerato stava composto, docile. Le unghie di mani e piedi curate, dipinte di rosa. La pelle depilata. Una testa di lupo sulla coscia destra. Un tatuaggio da galera, inscritto con una punta grossa, imprecisa. Tolsi la protezione dalle scarpe, strappai i guanti. Il borotalco esplose in un alone di neve che un poco mi commosse.
Lo spiazzo davanti al falansterio dove avevamo trovato i corpi aveva l’aspetto di un parcheggio senza auto. Panche, carcasse. Una schermaglia di adolescenti con le maniche strappate alle spalle, bracciali di cuoio. I lividi tra le nocche e sulle braccia. «Non è difficile», urlai. «Uno dei due uomini aveva le tette di una donna. Quanti travestiti bazzicano da queste parti?».
Finito il sermone, salii di nuovo le scale. Tornai da solo nella stanza. I corpi erano già stati rimossi. I tempi veloci della ricognizione di stato. Rimanevano così le impronte delle cose andate, abiti senza più necessità ai piedi del letto. Le finestre non avevano scuri. Studiai la pressione che l’amplesso aveva lasciato sul materasso. Sentii che la casa cadeva per intero in quella sconnessione concava del letto. Dove prima stavano posati due amanti, ora il vuoto. Il margine di un buco nero in cui precipitavano il pattume, gli oggetti abbandonati, un orologio da polso, una parrucca. Me ne andai preoccupato di finirci dentro anch’io.
La macchina da scrivere mi attendeva. La presa in visione delle fotografie, il riproporsi per altre forme di due cadaveri senza identità, la trascrizione delle testimonianze. Provai ad assegnare loro un nome fittizio, un mestiere. Una famiglia, un’auto, cicli di spesa da rispettare, la benzina, il latte, il tabacco.
Di ritorno in centrale deviai verso la marina. Sulla sabbia ritrovai l’accoglienza benevola dei rifiuti spiaggiati. Affondai i piedi in quel coagulo, cercando di restare in equilibrio sulle ramaglie che facevano da nervo tra un rifiuto e l’altro. Nel mezzo del magma le lattine brillavano come cartilagini. In quella meccanica eterna di prendere e dare, il moto ondoso della pozza che bagnava Brighton aveva condotto ai miei piedi, quel giorno, l’uccisione di due innamorati.
Varcai la soglia dell’ufficio con una stella luminosa sulla fronte. Ero il profeta Isaia, e come lui mi ripetevo «Nella città non è rimasta che desolazione». Sul tavolo di impiallacciato una colonna di cartelle d’archivio. Prima della processione dei parenti, dei congiunti, di coloro che prosperavano nell’ignoranza dei fatti, io avevo il compito arcaico di rischiarare il quadro. Fare luce nel buio dei fratelli più piccoli. Avrebbero elemosinato da me una soluzione, e io avrei mentito, come sempre. Mi sarei limitato a smerciare un poco di conforto, a raccontare una storia. I morti senza nome ci facevano compagnia come il ricordo di coloro che avevano perso la strada, ma che presto l’avrebbero ritrovata. I tossici, i rapinatori, i figli andati lontano e di cui non si aveva più alcuna notizia. Tutti si redimono, malgrado loro stessi.
Inspiravo dalla sigaretta spenta. Una delle foto era un’integrale dello squarcio sul petto. Sullo sterno il peso dei seni aveva aumentato la divaricazione incisa, probabilmente, da un bisturi. Erano belli anche così, sgonfiati, immersi in una reciproca distanza. Mi distrassi, perdendomi nel rimorso per certe buone abitudini che allora avevo lasciato da parte, fumare meno, non mangiare uova. L’immagine costante del mio appartamento immerso nel lordume saliva come fumo dalla camicia lisa al colletto e ai polsini.
Mi forzai a battere intestazione e data, ma le parole non venivano. Sollevai un poco la fronte oltre la cortina di benzoino e crema che infettava l’ufficio. Vidi un agente che urlava verso di me, mi chiamava, ma la sua bocca si agitava a vuoto, senza suono. D’istinto uscii dalla stanza. Nell’androne il gemito della radio aveva assunto il tempo di un salmo. Lo speaker diceva di un’esplosione grave. Quattro piani del Grand Hotel, a Brighton, erano stati disintegrati. Ignoto il numero delle vittime, un’intera ala dell’edificio era collassata. La stessa dove il Partito Conservatore e il Primo Ministro stavano trascorrendo la notte. Percepimmo in sottofondo le sirene, l’eco baritonale di qualcosa che ancora bruciava, alla fine la voce rotta di un paramedico. Tra le macerie stavano cercando il corpo di Margaret Thatcher.
Arrivati sul posto, sentimmo che le congetture parlavano di un ordigno importante. I militari si aggiravano a terra con i segugi. Sollevavano lembi di cemento alla ricerca di gente che ancora respirasse. Sembrava tutti fossero evaporati. Stavo ai margini della scena, con la ricetrasmittente stretta nella mano. La polvere parlava, ma noi restavamo in silenzio, in attesa.
Fu allora che mi apparvero i due morti della mattina. Il loro addome si gonfiava, il letto come un atollo in una stanza. Si spogliavano adagio, ripiegavano con cura gli abiti, la biancheria. Distesi sul materasso, si baciavano con il trasporto confidente di due bambini. L’uno accarezzava i capezzoli dell’altro. Li succhiava un poco, vi celava il volto e si complimentava affettuoso per il profumo. Stavano lì, davanti ai miei occhi, mentre attendavamo il verdetto dei cani o il cadavere del Primo Ministro. I riflettori ruotavano sul vuoto spalancato dall’esplosione, frugavano tra le rovine del Grand Hotel, e io non vedevo altro che i due assassinati. Quelle stesse luci ne illuminavano la carne argentea mentre si prendevano nel letto senza risparmio. Nella mia visione la stanza era malinconica e tersa così come l’avevo conosciuta ore prima. Gli amanti erano ancora vivi. Ansimavano, perlacei. Uno di loro si levò a sedere sul letto, si agguantò i seni, uno per mano, e disse all’altro «Guarda». La pelle si scucì in un due labbri divaricati e sotto la pelle del petto si vedeva il rudere del Grand Hotel di Brighton saltato in aria. Lo sentii domandare, divertito, «Riesci a vedere da qui dove sia sepolto il corpo di Margaret Thatcher?».
Una voce diversa, di donna, annunciò alla ricetrasmittente che il Primo ministro era rimasto illeso. Si era palesato ai militari, vivo per un miracolo o per un caso. Stava aspirando da una bombola d’ossigeno in qualche anfratto superstite dell’albergo. Alla notizia riuscimmo addirittura ad applaudire.
Guidai con la certezza che la strada mi avrebbe ingoiato. Parcheggiai nel mio posto macchina. Il pensiero di scendere mi accendeva la nausea. Albeggiava. I primi notiziari raccontavano per sommi capi lo strazio del Grand Hotel. L’appello della polizia era ancora vacante di molte persone, ma il tempo avrebbe riparato ogni cosa. Qualcuno lodò la solidità della struttura. Le ossa vittoriane del palazzo avevano retto all’urto. Non ci sarebbe stato attentato né esplosivo che avrebbe infranto la fortezza, né il lento collasso della nostra stagione. Saremmo tutti morti piano.
Salii a piedi, anche se non ne avevo la forza. Alla fine, varcai la soglia di casa mia. Sulla poltrona, spalle alle finestra, c’era una figura ripiegata sull’addome, la gobba coperta da una specie di telo. Accesi la lampada all’ingresso e vidi una donna con i denti sporgenti, il volto imbiancato di calcina. Sulle spalle aveva un asciugamano matrimoniale che teneva stretto alla gola, come se avesse freddo. La polvere le aveva impastato i capelli. Mi guardava incredula, gli occhi quasi diafani, alcolici. Strizzò le palpebre e ne ricavò una lacrima che si disegnò sulla guancia incrostata. La voce rotta mi disse: «Dove c’è discordia, che venga conservata. Dove c’è errore, che si aggravi. Dove c’è dubbio, che il buio aumenti. Perché dove c’è disperazione esiste la speranza».
Mi inginocchiai. Avevo quarant’anni, e nessun desiderio. Ogni scoria della mia vita dimostrava per suo conto che il naufragio è una condizione naturale.
↔ In alto: Grand Hotel Following Bomb Attack 1984-10-12 / Wikimedia.
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