Non fare al prossimo tuo quello che non vorresti fosse fatto a te, tranne quando il prossimo è una lei, perché vai a capire cosa vogliono le donne.
Transito di Aixa de la Cruz inizia da una fine: una volta conclusa la stesura della tesi di dottorato, l’autrice è stata assalita dalla necessità di non smettere di scrivere, di continuare a dare corpo letterario ai propri pensieri, in una forma più intima e personale di quella consentita da un approfondimento sulle Letterature Comparate a cui aveva appena finito di lavorare. Da quello che poteva essere un punto d’arrivo, un traguardo universitario, si sprigiona una spinta propulsiva ulteriore: ne emerge a un’opera esile quanto feroce, che non risente della brevità ma ne approfitta per compattarsi, come le dita che si uniscono in un pugno. Così è nato Transito. Pubblicato in Italia da Giulio Perrone editore nella traduzione di Matteo Lefèvre, il libro è definito in quarta di copertina scrittura impura dell’io. De la Cruz spazia infatti tra l’autofiction, il memoir e la saggistica personale, andando a comporre quelle che a più riprese preferisce denominare «confessioni».
In ordine sparso l’autrice percorre alcuni momenti cruciali della propria storia, scansionandone le ferite più profonde. È attraverso tagli e graffi che la sua personalità si è definita; la sua crescita ha cercato una struttura passando dolorosamente da una fase della vita a un’altra, da una coscienza di sé a una opposta. Se è vero che la felicità non lascia cicatrici e di conseguenza il dolore è un ottimo insegnante, de la Cruz sceglie di raccogliere le lezioni più importanti che le sono state impartite ed esaminarle senza indulgenza. «Visto il fallimento ottenuto fin qui, forse comincia a essere ora di mettere all’asta le nostre viscere», ragiona mentre riflette sull’autofiction come genere insieme ad amici con cui condivide l’ambizione alla letteratura (altra peculiare fonte di tormento).
In un serrato dialogo con sé stessa, a tratti monologo, a tratti conversazione squarciata dall’irrompere dell’alterità, Aixa de la Cruz disseziona cicatrici proprie e altrui, pur ribadendo che «in questo racconto l’unico dolore che esiste è il mio». La voce narrante spazia tra argomenti diversi e diversi personaggi/persone – l’amica vittima di un tremendo incidente, il «biopadre» assente e detestato, la madre portatrice di un rapporto conflittuale segnato dal sacrificio, le compagne di classe ostili causa di un’adolescenza sofferta – mantenendo nitida la centralità di chi racconta. Il ritmo della scrittura è scandito dal sovrapporsi di tematiche anche distanti che però concorrono tutte a costituire la persona che è Aixa de la Cruz alla soglia dei trent’anni, una donna che cerca di venire a patti con quello che è, in un mondo che la schiaccia per lo stesso motivo. I passaggi bruschi della lingua marcano tutta la frammentarietà che può abitare un singolo, vasto e contraddittorio, eppure proprio per questo in grado di chiamarsi “io”.
Frasi secche e taglienti si alternano a riflessioni fluviali e citazioni di pensatrici femministe. La temporalità salta al sovvenire di eco e ricordi, offrendo l’elettroencefalogramma di un cervello iperattivo, impegnato a scandagliarsi.
In Transito vita e letteratura coincidono in modo estremo e la stessa sovrapposizione si verifica tra il corpo e il linguaggio della protagonista e voce narrante: impossibile dire dove finisca l’uno e dove cominci l’altro. Il corpo femminile di de la Cruz è un corpo oggetto di violenza, innanzitutto in senso sistemico, perché abita una Spagna che a dispetto della presunta modernità continua a stigmatizzare l’essere donna. La stessa protagonista finisce così, in prima battuta, a rifiutarsi, affascinata dal più libero ed emancipato universo maschile. Quello di Aixa è poi un corpo femminile “dato”, non necessariamente riconosciuto come proprio. All’arrivo del ciclo ecco giungere «la frase più terribile: ormai sei una donna». È un corpo che sanguina e si scaglia in una condizione di minorità sia autoinflitta che socialmente normalizzata, un corpo oggetto di indagine brutale, poi negoziazione e solo in seguito accettazione. De la Cruz abbraccia il femminile in piena belligerante coscienza e non per il mero incidente di esservi nata.
Il suo tragitto autoriale muove, come tutto, da un desiderio, quello di «emendare» la propria storia: «Sarà che ancora non credo che la storia sia vera. Non lo sarà finché non l’avrò scritta. Allora sì, allora aggiusterò le cose, ma fino ad allora lo spettro delle possibilità narrative rimane aperto». La parola conferisce a chi la utilizza il potere di sovrascrivere gli avvenimenti e risignificarli. Ciò non significa che de la Cruz intenda mistificare quanto accaduto a lei e alle persone che ama (o che odia), sebbene per sua stessa ammissione ogni scrittura, anche autobiografica, sia sempre un atto di elaborazione creativa: «Insisto che le barriere che copre la cronaca, le memorie, l’autofiction e la fiction sono inesistenti perché scrivere è ricordare e ricordare è sempre un atto immaginativo».
L’autrice cerca piuttosto di aprire nuovi universi di senso dove altrimenti ci sarebbe soltanto sofferenza e nel farlo sceglie la via della più totale franchezza: il ritratto che offre di se stessa è costituito spesso dai frammenti in cui si ama meno, dai difetti più detestabili, dalle azioni più vili. L’assenza di sconti destinata agli altri personaggi impallidisce di fronte alla crudezza con cui de la Cruz parla di sé. Anche davanti al fenomeno del #MeToo ammette: «Mi sento più a mio agio con la confessione che con la testimonianza, più come colpevole che come vittima».
Il libro è tutto attraversato da eventi collettivi che si sommano ai traumi individuali di Aixa: lo scandalo del carcere iracheno di Abu Ghraib, il terremoto di Città del Messico del 2017, casi di violenza di gruppo seguiti da victim blaming verificatisi in Spagna, il #MeToo sono tutti momenti che tracciano una rottura storica e sociale per infiltrarsi nel personale. L’indagine condotta in Transito è a tratti una prosecuzione del lavoro già svolto per il dottorato dall’autrice, spia del tentativo di comprendere i meccanismi del potere e dell’abuso, del modo in cui il dominio sull’Altro si reitera secondo dinamiche sovrapponibili e comuni denominatori, in cui i soldati e le soldatesse di Abu Ghraib sono legati con un filo rosso agli stupratori, così come a un apparentemente prosaico bullismo scolastico. Senza mancare di citare Foucault, de la Cruz interroga la natura molecolare e pervasiva del potere, di una forza che si rinnova mediante il controllo dei corpi e si fortifica solo nell’oppressione di un’alterità. L’autrice intende rovesciare questi dispositivi, appropriarsene e usarli ai loro danni. Non a caso afferma: «Vedete, la confessione è l’origine del nostro mestiere», laddove Foucault individuava nell’uomo occidentale «una bestia da confessione». Non confessione per il potere, ma confessione contro il potere, non confessione che risciacqui la coscienza ma strumento con cui far più fonda la ferita e scoprirsi nel duplice ruolo di carnefice e vittima.
«Io sono tutti coloro che mi hanno contaminato; sono fatta di prestiti e di furti e mi addentro in un vicolo senza uscita, volendo redimere la mia colpa attraverso un processo che la rinnova».
Persone vicine e avvenimenti distanti aprono parimenti spazi di riflessione ed esperienza, portando Aixa de la Cruz a «cambiare idea» (Cambiar de idea è proprio il titolo originale del libro) innumerevoli volte, transitando tappa per tappa a una diversa cognizione di sé e del tessuto umano, politico e sociale di cui è nodo e, infine, dei modi in cui intende esserne parte: per cosa lottare e contro cosa scagliarsi.
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