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Lavarsi i denti alla sera è un gesto che si fa con svogliatezza, specie se si è stanchi, ma tocca sforzarsi, prima di andare a dormire, non c’è storia che tenga, perché di notte i batteri della carie si divertono di più. Il flusso di saliva nella bocca diminuisce e la concentrazione di glucosio aumenta. Come dice il proverbio: quando il gatto non c’è, i topi ballano. Se però uno si mette a letto e non chiude occhio, se uno si stende a pancia in su e non fa che guardare il muro, vale lo stesso?
Si chiede questo, ogni volta che fuori è buio e si trova al bivio tra la porta del bagno e quella della camera, Filippo. Resta qualche secondo in piedi nel corridoio, cercando di resistere alla vocina nella testa che gli ordina di vergognarsi anche solo per aver osato pensare di andare a dormire con i pezzi della cena tra i molari, poi cede.
Fa scivolare la mano sulla maniglia di ottone, accende la luce sullo specchio – quella calda, ché i faretti del controsoffitto lo infastidiscono – e spantofola fino al lavandino. La sua faccia, riflessa nell’oblò di cristallo, è ricoperta da goccioline di calcare. Si sente come uno strano anfibio dalla pelle viscida.
Lorenzo lo raggiunge e fa cadere sul tappetino del bagno braghe e mutande, per poi dirigersi allegramente verso il water.
«Le raccogli, vero?» sibila Filippo, con una vena di stizza, mentre cerca di tirare fuori dal tubetto gli ultimi residui di dentifricio; non imparerà mai a strizzarlo come si deve. Quando il tubetto è nuovo e pieno, la tentazione di afferrarlo e spremerlo a casaccio è troppo forte.
Lorenzo, uccello in mano, si scrolla di dosso poche gocce di piscio, il giusto per non alzarsi dal letto nel bel mezzo della notte: «Sei una noia».
L’acqua scorre fresca e si accumula in una pozza di sputo e schiumetta.
«Hanno ripreso a sanguinare».
«Le gengive?»
Filippo versa nel tappo dosatore il collutorio alla menta.
«Sì, mi toccherà tornare dal macellaio».
Lorenzo afferra il suo spazzolino e con l’altra mano accarezza il fianco a Filippo, un tocco delicato.
«Dovresti cambiare dentista, il barbiere di mio padre ne sa di più».
È il momento in cui Lorenzo inizia a gonfiare un aneddoto, un fatto assurdo di cui si è ritrovato a essere protagonista nell’infanzia e dal quale immancabilmente gli sono giunti degli utili insegnamenti. Tipo quel pomeriggio assolato dell’ottantanove in cui il barbiere di suo padre, appunto, gli aveva legato un incisivo alla porta della bottega per poi farglielo schizzare via con furia dalle labbra e lui aveva sentito di essere forte. Pensava a quella prova di resistenza e coraggio, quando le cose si mettevano male. I racconti di Nick Adams, in sostanza.
C’è stato un periodo in cui le storielle autocentrate di Lorenzo divertivano Filippo, ma non ne rimanevano, oramai, che gli angoli sbiaditi nella noia di un copione ripetuto troppo a lungo.
«Ma tu mi vuoi ancora bene?» chiede Filippo, afferrando con un guanto il filtro dello scarico.
Lorenzo termina il gargarismo e sputa direttamente nel tubo.
«Certo che te ne voglio, la smetti di chiedermelo?» risponde. Le parole risultano come d’ovatta stropicciata tra le tante pieghe dell’asciugamano.
«Non me lo dici più» gli mormora Filippo di rimando, quando in realtà vorrebbe urlargli contro che farebbe meglio a ripulire il filtro dopo che si rade il viso.
Dall’appartamento accanto, giunge chiara la trasmissione in diretta di un talent. L’ingegnere Anselmi, un tutt’uno molliccio con la poltrona, avrà dimenticato di mettere l’apparecchio acustico e starà ronfando con la pappagorgia che pende sul petto. Tra due ore, forse, sua moglie si sveglierà allo squillare di un jingle pubblicitario e correrà, per quanto possa correre una vecchia con problemi alla tiroide, a recuperare il congiunto in salotto. La letteratura spesso descrive l’inferno come un crudele ed eterno loop, un disco che continua a incepparsi sullo stesso brano e che non puoi cambiare; ma è l’inferno e ci si va, al massimo, da morti. C’è chi passa assieme una vita intera, negli angusti appartamenti di città, ed è una cosa considerata normale. A Filippo piace tornare a casa e trovarci Lorenzo, quello che non capisce è perché mai, adesso che lo stesso uomo gli bacia il collo, si faccia strada coi baci anche un pizzicore, un fastidio. Gli viene facile provare a scansarsi, o fingere di avere ancora un qualcosa da fare.
Rovista nella scatola dei farmaci.
«Hai mal di testa?»
«No, è solo ansia, tranquillo»
«D’accordo amore, ti aspetto di là» gli sussurra Lorenzo, salutandolo con una lieve carezza sul braccio a suggerire compassione.
Persino la parola amore suona fuori luogo, detta in una lingua sconosciuta. Quando la sente pronunciare, non riesce a collegare i punti della frase. La sensazione di essere un anfibio diventa di giorno in giorno più insistente e il livello dell’acqua nella casa si innalza fino a fargli mancare l’aria.
Cosa mi parli a fare, pensa Filippo, quando Lorenzo tenta di comunicare altro dalla lista della spesa e dall’ammontare delle bollette, non lo vedi che non escono che bolle dalle nostre bocche?
Il tubetto del dentifricio è in condizioni pietose, ma Filippo non ha cuore di buttarlo. Non può essere tutto in una strizzata iniziale, il bello. Si deve piegare e ripiegare, il tubetto, pressarlo con il dorso del pettine, poi tagliarlo e raccogliere con il dito la pasta rimasta appiccicata alle pareti del recipiente.
«Spegni la luce» biascica Lorenzo in dormiveglia, il corpo nudo e prono sul letto, «Fa caldissimo».
Filippo afferra un bicchiere d’acqua sul comodino e lo rovescia sulla schiena di Lorenzo, che se la gode e ridacchia contento di quel fresco improvviso. Gli si arriccia la pelle in tante piccole squame, una chiazza di umido si spande sul lenzuolo.
«Anche io ti voglio bene» sussurra serio Filippo, prendendo posto nello stagno accanto a Lorenzo.
«Ma come se ne vuole a un fratello».
C’è quel silenzio insonne che rende udibili gli animali notturni: un gracidare, una rana in pancia che gonfia il collo e fa per saltare.

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↔ In alto: foto Diana Polekhina / Unsplash.

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