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«Per me gli alberi sono sempre stati i predicatori più persuasivi. Li venero quando vivono in popoli e famiglie, in selve e boschi. […] Tra le loro fronde stormisce il mondo, le loro radici affondano nell’infinito; tuttavia non si perdono in esso, ma perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo: realizzare la legge che è insita in loro, portare alla perfezione la propria forma, rappresentare sé stessi». (Hermann Hesse, Il canto degli alberi, Guanda 2021, p. 7)

Se c’è una capacità che di norma non si attribuisce agli alberi, è certamente quella di rappresentazione, a maggior ragione se di sé stessi. Relegati al ruolo di paesaggio e scenografia, tutt’al più possono fare da sfondo passivamente, fungendo da cornice alle vicende che coinvolgono uomini e animali.

Se volessimo individuare il chiodo, il nucleo attorno al quale ruota Non siamo che alberi, libro di Filippo Ferrantini pubblicato quest’anno da effequ, dovremmo provare a rintracciarlo nel tentativo di scardinare questo paradigma interpretativo del mondo, di quello “naturale” soprattutto. Certo, le pretese dell’opera non sono di tale portata, eppure a metà fra leggerezza divulgativa e sperimentazione linguistica, l’opera stessa può mostrarsi come uno sforzo innovatore e delinearsi come uno strumento inaspettatamente contemporaneo, se non addirittura “futurista”, utile a ripensare il nostro rapporto con le piante e gli alberi, lo statuto ontologico che siamo soliti attribuire loro e la concezione che abbiamo dell’ecologia.

Va precisato che tra le ambizioni dell’autore, biologo ed esperto di conservazione del territorio e pianificazione sostenibile, tale dimensione emerge, in parte, solo alla fine del libro; l’esigenza da cui l’opera sembra inizialmente scaturire ha una matrice molto più personale, che nasce dalla volontà di riportare sulla carta, tramite la parola, quanto sperimentato durante un laboratorio ambientale svolto fra gli alberi e con gli alberi, nel bosco, «la Macchia lucchese» a cui Ferrantini è particolarmente legato. Si trattava in sostanza di scegliere di che lingua dotare gli alberi:

«Fra tante, ho scelto quella in cui, da piccolo, mi hanno parlato e letto storie, che da grande ho ritrovato in qualche libro, e che conosco. Ho giocato con quella lingua. Mi sono divertito a truccarla, a invecchiarla e a camuffarla. Ne ho saggiato la robustezza, testando le strutture più angolose, le costruzioni più azzardate, rispolverate da chissà dove. Reggeva. Poi ci ho fatto parlare i miei alberi».

Le poco più di cento pagine che compongono il libro sono per la maggior parte, appunto, alberi che parlano, che vivono e condividono, che percepiscono e modellano il mondo attorno al proprio sé, che oscillano tra alti e bassi caratteriali, a volte aspirando alla più imperiosa delle grandezze, altre chiudendosi con ritrosia, di fronte a una triviale offesa ricevuta da un arbusto, un uccello, un uomo, un vento o una stagione. L’opera è quindi strutturata in undici capitoli, di cui dieci hanno come titolo e soggetto una specie di albero diversa, che ne è l’assoluta protagonista: già questo non è poco. Perché, se si escludono alcuni rari esempi, la riflessione sulle piante e sull’intero “mondo vegetale” è forse il tema che maggiormente latita nel parco concettuale messo a punto dalla cultura umanista occidentale, tanto nel campo filosofico e storico, quanto in quello letterario.

Quest’enorme lacuna – che ha delle profonde e visibili conseguenze – viene denunciata dal filosofo Emanuele Coccia nel libro La vita delle piante (il Mulino, 2018), quando sottolinea il nostro «snobismo metafisico» nei confronti della vita vegetale, di fronte alla sua inopinabile preponderanza nel mondo che viviamo.

«La filosofia le ha spesso trascurate, per disprezzo più che per distrazione. Sono l’ornamento cosmico, l’accidente colorato e inessenziale che troneggia ai margini del campo cognitivo. […] Le piante sono la ferita sempre aperta dello snobismo metafisico che contraddistingue la nostra cultura. Sono il ritorno del rimosso, di cui ci dobbiamo sbarazzare per poterci considerare diversi: uomini, razionali, esseri spirituali» (p. 11)

Va dunque subito riconosciuto a Ferrantini il merito di aver messo al centro di Non siamo che alberi proprio le piante, imponendo dolcemente al lettore di riflettere, finalmente, sugli esseri vegetali, di immedesimarsi in essi. Di scoprirsi curioso rispetto a una dimensione dell’esistente data sempre e superficialmente per piatta e scontata, quando per la verità non lo è affatto, né piatta né scontata; ma è piuttosto della medesima sostanza della nostra dimensione, con cui si intreccia continuamente. La mossa che però, almeno a parere di chi scrive, qualifica ulteriormente lo sforzo dell’autore è quella, come accennato, di non semplicemente parlare di alberi, ma di far parlare gli alberi, equipaggiandoli di volontà, abitudini, rapporti e idee proprie. Avvicinandoli di qualche gradino allo status di esseri razionali e spirituali, vicini a come siamo soliti fare con la nostra specie.

Ci ritroviamo così ad essere trasportati fra le vicende del salice, del pioppo, della robinia, del pino, del frassino, solo per citarne alcuni. Storie di cui gli alberi sono la forza traente e attiva, entità che vanno o non vanno d’accordo con altri alberi, uomini o animali, operano attivamente nella realtà e nella memoria umane, fanno e provano cose; come per l’appunto il pioppo, che «è allegro, e vuole mettere allegria. La mette coi suoi rametti leggeri e sventolanti, che distraggono l’attenzione da un tronco di tutto rispetto, come si addice a un fustacchione di trenta metri e più», o il frassino, che nella foto scolastica che ritrae tutti gli alberi della Macchia è quello che «non guarda nell’obiettivo: leggermente voltato, un’espressione indecifrabile, lo sguardo a fissare un punto lontano dietro la cinepresa, fuori dalla finestra, oltre il muro».

È evidente già da questi brani come l’operazione che permette a Ferrantini di rendere vivi e viventi i suoi alberi e munirli della facoltà di rappresentare e rappresentarsi, sia una sorta di antropomorfizzazione. Questa, forse ancor più precisamente la personalizzazione, per soggetti umani come Ferrantini e ognuno di noi è un efficace strumento per tentare di considerare enti diversi da noi come veri e propri soggetti, e non semplicemente come oggetti da descrivere o dominare. Una delle definizioni che la Treccani fornisce in merito al termine “impersonare” è «farsi persona, acquistare vita e concretezza». Inoltre, potrebbe darsi che proprio l’antropomorfismo di enti non umani possa essere un passaggio propedeutico alla de-morfizzazione totale, ovvero al crollo delle barriere che continuano a farci auto-percepire come esseri ontologicamente diversi da tutti gli altri.

Occorre sottolineare l’importanza e l’attualità di questo tema; il filosofo francese Bruno Latour così si esprime a proposito:
«Non ha alcun senso accusare romanzieri, scienziati o ingegneri di commettere peccato di “antropomorfismo” quando “attribuisco un’agency” a “ciò che non dovrebbe averne alcuna”. È esattamente il contrario: se devono fare i conti con ogni sorta di “morfismi” contraddittori è perché cercano di esplorare la forma di questi attanti, inizialmente sconosciuti e poi gradualmente addomesticati da altrettante figure necessarie per accostarvisi». (La sfida di Gaia, Meltemi 2020, pp. 106-107; corsivo dell’autore)

Quando, dunque, Ferrantini scrive che l’ontano «non ascolta chi lo spregia, non dà peso a chi gli dice che non punta abbastanza in su, che non scalpita per arrogarsi titoli e nomee», o che il salice «come tutti gli arrabbiati, tutto dedito al suo apparire, farsi accettare, guardare e ammirare, non s’è mai preso la briga di fermarsi un momento e guardarsi per sé», bisogna cogliere precisamente lo sforzo di attribuzione di un’agency (capacità di agire sulla realtà) a ciò che non dovrebbe averne alcuna.

L’adozione di un linguaggio estremamente particolare per far parlare i propri alberi valorizza ulteriormente l’operazione di Ferrantini; con locuzioni provenienti da vari ceppi dialettali dell’Italia centrale, termini antichi condotti a nuovo lustro, modi di dire che si perdono nei secoli della tradizione popolare, l’immaginario degli alberi viene sì umanizzato, ma reso al contempo in modo identitario, cucito su misura alle esigenze narrative degli alberi, creando così figure necessarie per accostarvisi, ed evitando un mero appiattimento dell’esistenza vegetale sul nostro linguaggio contemporaneo. Così, nel capitolo dedicato all’Olmo, quando apprendiamo della sua stretta relazione con la vite e di come tale legame sia assurto a simbolo di unione fra marito e moglie nella cultura campestre, riusciamo ad assumere il punto di vista dell’olmo stesso, che «il mestiere lo conosce: acchiappa la vite, una bella pianta ubertosa e allegra, l’abbraccia, la tiene su. Quella ributta a dovere, ma intanto si sentono i granchiolini [gli uomini] ridacchiare. Ridacchiano di lui: vòttali [“guarda lì”, “guarda un po’”, voce fiorentina desueta] bellini, dicono, attorcinati a quella maniera, paiono sposati. L’olmo, al solito, non se ne sarà dato pensiero, tutto preso dal lavoro, ma la buggerata seguita e seguita, finché non gli si appiccica addosso, e la vite da pampinea diventa “maritata”, e l’olmo, giocoforza, marito».

Ogni albero ha quindi un proprio carattere, propri desideri e modi di fare, che lungo la vita cambiano, evolvono, si fanno più dolci o più aspri in base anche ai rapporti con gli altri alberi, con gli uomini, gli insetti, i funghi, gli arbusti e il sottobosco. Esattamente come gli umani, gli esseri che emergono da Non siamo che alberi non sono entità statiche, fisse, ancorate a un’imperitura e leggendaria inamovibilità, come siamo normalmente indotti a considerare gli alberi, ma piuttosto creature dinamiche, volitive, attive e operanti su se stesse e sul mondo che le circonda. Questo è un punto chiave che risulta evidente quando Ferrantini ribadisce che i protagonisti delle storie raccontate sono «proprio loro, gli alberi. E non per specie e generi, bada: mi riferisco a loro, gli alberi in persona. Certo, una persona ramosa e indefinita, sfuggente, quasi frattale in quel continuo replicarsi di strutture modulari». È questa frattalità a permettere all’autore di realizzare un rovesciamento radicale nei confronti della nostra concezione della differenza fra esseri animali ed esseri vegetali; è in sua virtù infatti che questi ultimi possono finalmente apparirci per quello che sono, ovvero esseri più mobili, cangianti e complessi di noi: «a differenza di noi animali, inchiodati alle nostre forme, le piante frammentano il loro sé in un caleidoscopio di variazione, disegnandosi ciascuno la sua geometria di rami allungati, barbe stese nel terreno, pagine di foglie e tasselli di corteccia ripetuti all’infinito, ogni pianta diversa, ciascuna rispondente a una sua propria simmetria superiore». Non si può non sentire l’Hermann Hesse della citazione d’apertura riecheggiare.

Appurato dunque il cosa Ferrantini cerca di fare con i propri alberi – innalzarne lo statuto ontologico/dotarli di attività o agency, per dirla con Latour – bisogna ora capire come è riuscito a farlo, individuando lo strumento impiegato dall’autore, che legittima l’audacia dell’operazione. Vedremo poi come ciò ci permetterà di collocare Non siamo che alberi nella corrente culturale contemporanea che si impegna nella ricerca e definizione di una nuova filosofia della natura, e dunque di una nuova ecologia.

Se Non siamo che alberi riesce a restituire un’immagine degli alberi viva e pulsante, è perché questa, anche nei momenti più coloriti, narrativi, mitologici o romanzati, è sempre costruita su precise e complete conoscenze scientifiche. La lettura dei vari capitoli è infatti ritmata dalle numerose note, che rimandano alle argomentazioni su cui si fondano le storie/tradizioni/vicende/usanze descritte e raccontate. Se da un lato questo frastaglia la fruibilità del testo, di contro ne aumenta considerevolmente la credibilità e, soprattutto, l’effettivo potenziale di alberizzazione (contrario di antropomorfismo) dell’uomo da parte dell’albero. Così, quando Ferrantini scrive che «ogni leccio, in fondo, nasce fortunato. Con la camicia, si direbbe noi. E lui, la camicia ce l’ha davvero: un pigiamino bianco, di vellutino chiaro, che rende le giovani pianticelle piumose e tenere come pulcini», scopriamo, nella nota rispettiva che «le giovani piante di leccio sono coperte da una sottile peluria chiara (si parla di scorza “tomentosa”); successivamente la corteccia perde tale pubescenza e assume un aspetto lucido, mentre il colore vira prima al grigio-verdastro e poi al grigio». O ancora, quando veniamo edotti sulla natura femminea del tiglio, che si nota inequivocabilmente «quando lo si vede, ormai donna fatta, ad accudire quella masnada di figlioli che ogni tiglio che si rispetti si porta torno a torno, attaccati agli orli delle sue sottane di radice», apprendiamo, in nota, che «il colletto della pianta tende naturalmente ad emettere polloni avventizi, anche in assenza di potature; in caso di diradamento della chioma, poi, il tiglio può ricacciare polloni anche dall’apparato radicale superficiale. Come risultato, la pianta appare quasi sempre circondata dai propri ricacci, che spesso arrivano a nascondere l’intera ceppaia».

Il punto è cruciale, poiché è esattamente la mediazione scientifica, con il suo corpus di pratiche e strumenti, a poter rinsaldare lo statuto ontologico degli enti diversi da noi (alberi e piante nel nostro caso), in modo concreto, comprensibile e utile all’azione pratica. Tornando a Latour, possiamo rimarcare l’importanza del momento di “attribuzione agency”, a cui il filosofo ha dedicato uno sforzo significativo:

«Ora, chi meglio degli scienziati sa far parlare, scrivere e dissertare il mondo? Il loro lavoro consiste appunto nell’inventare, con la mediazione degli strumenti e con l’artificio del laboratorio, lo spostamento del punto di vista, così indispensabile alla vita pubblica. Come tenere conto dei nuovi esseri, se non si può cambiare radicalmente la posizione dello sguardo?» (Bruno Latour, Politiche della natura, Raffaello Cortina 2000, p. 156, corsivo dell’autore)

Possiamo quindi dire che Ferrantini riesce ad attuare l’auspicato spostamento del punto di vista perché mette la ricerca e l’argomentazione scientifica al servizio della definizione di nuove agency, animando così gli alberi in modo concreto e motivato, potenzialmente efficace nell’aprire la strada a un nuovo tipo di concezione della natura, e di azione nei suoi confronti. Come Latour, altri autori stanno cercando di ridisegnare i concetti fondanti della filosofia della natura, adottando un metodo simile a quello impiegato in Non siamo che alberi: utilizzare le conoscenze scientifiche per dare spessore allo status esistenziale del non umano. Pensiamo al già citato Emanuele Coccia, a Stefano Mancuso, a Donna Haraway e a James Lovelock, fra gli altri.

Ciò che contraddistingue questa “linea di pensiero” o “corrente filosofica” è, assunto il peso della ricerca scientifica, il tentativo di smantellare le idee preconfezionate ereditate dalla modernità a proposito della “natura”, intesa come presupposto unicum armonico, in favore di un’ecologia che riesca a cogliere la struttura complessa e dinamica del mondo, senza tralasciare per questo l’identità dei singoli esseri che lo compongo. Anche rispetto a tale, difficile e semanticamente “pericolosa” ambizione filosofica, Non siamo che alberi fornisce un prezioso contributo.

Ciò avviene quando Ferrantini, nell’ultimo capitolo del libro, Una Storia di storie di alberi, sposta la lente dagli alberi al bosco, alla Macchia. Occorre sottolineare ancora una volta come l’autore si arrischi nel passaggio dai singoli (alberi) all’universale (bosco), solo dopo aver profondamente caratterizzato e agentizzato i primi, lungo le tante storie che precedono le conclusioni. Storie che, va notato, includono non solo l’indole e i racconti delle singole piante, ma anche il costante legame di reciprocità che le lega a tutti gli esseri altri con cui essi vengono in contatto, generando per l’appunto il bosco. La concezione della foresta che emerge da Non siamo che alberi rappresenta un valido esempio di come sia possibile considerare la “natura” tramite una terza via: né assembramento caotico di singoli egoismi, né unità armonica precostituita e agente come unica volontà, bensì come campo dinamico generato da, e sostanziato nel, complesso di relazioni degli enti che, semplicemente essendo, la strutturano.

«Il bosco è uno dei pochissimi posti dove il paesaggio e i suoi abitanti sono un tutt’uno. Un albero è il bosco e lo abita, definisce l’architettura e al contempo la fa viva, la vive egli stesso, nelle pazienti ripetizioni dei suoi infiniti moduli. Di nuovo, la nostra mente mammaliana sente vacillare quel distinguo troppo animale fra io e non io, fra opera e artefice, fra l’uccello che fa il nido, o il tasso che scava la tana: nel bosco ogni albero è abitante e luogo abitato, moltiplicato nello spazio così come i suoi elementi vegetali si moltiplicano nel suo essere frattale.»

Una dimensione in cui singolare, collettivo e universale si mescolano e compenetrano, e in questa mescolanza gli alberi emergono tanto come enti individuali quanto come parti connesse a una rete molto più estesa, contemporaneamente, senza scarti né cronologici né ontologici. Non è un caso allora che Emanuele Coccia adotti proprio il termine mescolanza (mutuandolo da Anassagora) per definire la propria idea di mondo, né che le sue conclusioni siano vicine a quelle di Ferrantini stesso:

«Perché vi sia mondo, il particolare e l’universale, il singolare e la totalità devono compenetrarsi reciprocamente e totalmente: il mondo è lo spazio della mescolanza universale, dove ogni cosa contiene ogni altra cosa ed è contenuta in ogni altra cosa». (La vita delle piante, cit., p. 90, corsivo dell’autore)

In termini certamente meno suggestivi ma estremamente precisi e istruttivi, ancora Bruno Latour chiarisce in che modo possiamo tentare di liberarci dall’idea di una “natura” precotta e automatica, che finisce per far degenerare e distorcere la nostra azione nel mondo, come il disastro climatico testimonia ampiamente, e avvicinarci alla visione di mescolanza universale proposta da Coccia:

«L’interno e l’esterno di tutte le frontiere sono sovvertiti. Non perché tutto sarebbe connesso in una “grande catena dell’essere”, non perché esisterebbe da qualche parte un piano globale che ordinerebbe la concatenazione degli agenti, ma perché l’interazione fra un vicino che manipola attivamente i suoi vicini e tutti gli altri che lo manipolano definisce quelle che potremmo chiamare onde di azione che non rispettano alcuna frontiera». (La sfida di Gaia, cit., p. 152, corsivo dell’autore)

Il prezzo del considerare la natura come un quid da cui noi possiamo in qualche modo essere separati, o con la quale possiamo tutt’al più connetterci in modo più o meno profondo, è di fronte agli occhi di tutti; trattiamo il mondo peggio di come tratteremmo il peggiore dei nostri nemici, nonostante trattare il mondo equivalga interamente a trattare noi stessi, come fossimo un estraneo là dove non vi può essere estraneità. Ferrantini non manca di notare quest’aspetto, inserendo tra i suoi undici alberi un intruso, una pianta che appare in tutto e per tutto come un albero, ma che è in realtà una specie di leguminosa; la robinia, pianta «banalizzatrice». La somiglianza con la nostra specie affiora quando l’autore, descrivendo il disastro compiuto dalla robinia, fornisce anche una precisa rappresentazione del disastro compiuto dall’uomo:

«Dal costone scosceso a ridosso della via, a perdita d’occhio, fino ai crinali dei monti, altro non si scorge che frasche e foglie tinte di spaventoso color verde pallido, da cui penzolano oscuri baccelli scuri, ingozzati di seme. Dovunque, schifosissimi tronchi screpolati e grinzosi abbrancano la montagna, risalendo su per gli sdruccioli, invadendo ogni forra, fin dove lo sguardo può arrivare. L’aria è satura di greve odore stucchevole. Sono robinie. Hanno distrutto tutto».

Bisognerà, prima o poi, ricostruire, ed è evidente che i vari approcci al problema ecologico non abbiano, finora, funzionato; Non siamo che alberi è, in questa cornice, un’opera innovativa che tenta di parlare della “natura” rompendo la parete della sua supposta oggettività. Conferendo agency agli alberi, Ferrantini muove dei passi verso la «de-morfizzazione» dell’essere auspicata da Bruno Latour, e l’apertura di nuove brecce nella muraglia che ancora separa il nostro io dal supposto-non-io, l’“ambiente naturale”.

Che aspetto potrebbe, allora, avere una concezione della “natura” dai confini più sfumati? Una visione che segua il principio della compenetrazione e mescolanza degli esseri, piuttosto che quello della loro separazione, o unificazione predefinita nell’idea astratta di “natura”? Ferrantini ha le idee molto chiare a riguardo, e le mostra quando racconta di un episodio esplosivo (letteralmente), avvenuto nel 1944 nel cuore della «Macchia», che ha lasciato sul terreno numerosi cadaveri umani, animali e vegetali.

«Quando la polvere fu posata, si vide che non c’era più distinzione fra pianta e animale, fra i confini del bosco e della persona: persone non ce n’era più, e nemmeno più bosco, ma una materia mista, indefinita, senza più forma e tuttavia come pronta a diventar qualcosa».

Speriamo dunque che la polvere cali presto – a ben vedere, il cambiamento climatico sta già deflagrando con potenza nella nostra Macchia – e che con essa si dileguino anche i preconcetti sotto la cui guida ci ostiniamo a considerare e agire il mondo. Adoperarsi per dotare di agency il non umano, come Ferrantini fa con i suoi alberi, sarà fondamentale per ristrutturare interamente il nostro approccio ecologico, ripartendo proprio da una materia mescolata e compenetrante, nella quale soggetto e oggetto finiscano di essere entità opposte, ma siano immerse l’una nell’altra.

«Se l’essere-nel-mondo è immersione, pensare e agire, operare e respirare, muoversi, creare, sentire saranno inseparabili: un essere immerso infatti si relaziona al mondo non più come un soggetto si rapporta a un oggetto, ma come una medusa vive nel, con e attraverso il mare che le permette di essere ciò che è. Non c’è alcuna distinzione tra noi e il resto del mondo.» (Emanuele Coccia, La vita delle piante, cit., p. 46)

Non siamo che alberi, esplorando la profondità della somiglianza e del rapporto tra noi e gli alberi, ci allena a pensare in questi termini, e, dunque, anche a operare, respirare, muoverci, creare e sentire come se non ci fosse alcuna distinzione tra noi e il resto del mondo; o, per lo meno, fra noi e gli alberi.
Possiamo considerarlo un ottimo inizio.