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L’opera di Sara Durantini, L’evento della scrittura, rappresenta un viaggio oltre il tempo e lo spazio, alla ricerca di connessioni e di significati nella scrittura di tre grandi figure femminili della letteratura francese del XX e XXI secolo: Sidonie-Gabrielle Colette, Marguerite Duras e Annie Ernaux.

Il libro si sviluppa in tre macro-parti dedicate, in ordine cronologico, all’analisi di ognuna delle tre scrittrici sotto i diversi punti di vista tematico e stilistico. La descrizione scorre fluida, in un continuum narrativo che parte sempre dalla vita di queste donne, passa per l’incontro di Durantini con le loro opere fino a giungere a un’analisi approfondita, ricca di contenuti e riferimenti calzanti di alcuni dei loro romanzi e, in particolare, dei rispettivi processi di scrittura che hanno permesso loro di evolversi, crescere, liberarsi talvolta e imprimere qualcosa di più duraturo della parola stessa.

L’obiettivo dell’autrice, se così lo si vuole definire, è il desiderio di ripercorrere il vissuto delle tre donne in questione, sottolineare come hanno rivoluzionato, ognuna a modo proprio, la letteratura francese, ma soprattutto di mettere in luce la potenza della scrittura come evento personale forte. Il percorso, intrapreso da Sara Durantini, indaga ancora una volta l’eredità trasmessa in modo indelebile e duraturo dalle parole scritte da queste autrici.

Si inizia da Colette, portavoce dell’autobiografia femminile del Novecento, che crea una vera e propria mappatura della propria vita attraverso le sue opere. La scrittura per Colette è qualcosa che evolve nel corso della sua vita «fino ad arrivare a essere un talismano» come dice la stessa Durantini, per superare gli anni, l’invecchiamento, forse la vita in senso più ampio. Colette, come le altre due autrici prese in esame, ha un rapporto complesso con la madre Sido, personaggio divenuto anche letterario. Prima di riuscire a scrivere della madre, Colette affronta una personale evoluzione dapprima in quanto donna e successivamente come scrittrice autobiografica. La scrittura per Colette è un banco di prova, un’azione viva che prende forma nel presente sfruttando il passato e questo banco di prova giungerà con il romanzo Chéri, pubblicato nel 1921. Sarà qui che l’autrice attuerà la sua trasformazione e diventerà attraverso la scrittura e anche grazie al personaggio di Léa, una donna diversa, indipendente, finalmente libera, non solo dalla figura letteraria maschile Chéri, ma anche metaforicamente dagli uomini della propria vita e dalla figura materna, tanto sofferta.

Colette, come afferma Durantini, inventa un nuovo linguaggio letterario e ridisegna il genere autobiografico dando alla narrazione femminile una spinta innovativa e più audace. Nella fase finale della sua vita, Colette inizierà finalmente a esprimere quella mancanza della figura materna, quell’incomunicabilità con il mondo materno tanto desiderato. Vi è dunque nel suo processo di scrittura un ritorno alle origini, avviene un distacco dall’oggetto narrativo «madre», si passa attraverso il dolore provato e la scrittura diventa così un mezzo per riconciliarsi, indagare se stessa e osservare la madre riuscendo a guardarla per la prima volta in tutta la sua interezza. Il culmine si avrà nel 1930 con il romanzo Sido, in cui l’evento della scrittura si fa più evidente e si dichiara per ciò che è realmente, come scrive Sara Durantini «un atto creativo che nasce nella violenza e nel dolore, una parola nuova che affonda le radici nel fango della scrittura».

Nella seconda parte si approda a un’altra grande figura femminile: Marguerite Duras, donna con un vissuto travagliato, alcolizzata e spesso devastata dalle relazioni amorose e familiari. Dalla lettura del libro si capirà presto che le tre autrici vengono viste l’una come la naturale erede dell’altra per portare avanti a modo loro, con il loro carattere e la loro personalità, questo nuovo genere autobiografico femminile, che si rinnova di continuo e aggiunge sempre nuovi parametri stilistici.

Anche in Duras la scrittura affonda la lama nel dolore del ricordo e tenta di recuperare ciò che è difficile da raccontare. Si parla di recherche durassiana in quanto la scrittura dell’autrice stessa simboleggia una vera ricerca tra i ricordi, talvolta rarefatti e non limpidi, di quella che è stata la sua vita. Sara Durantini traccia un profilo di Duras estremamente preciso, sia dal punto di vista della sua vita sia da quello stilistico. Viene affrontata la questione della lingua che è sontuosa, ma al contempo semplice e frammentaria, capace di descrivere le varie sfaccettature dell’io. La scrittura durassiana viene definita in diversi modi: del vivo, corrente, dell’autofiction. A mio avviso, indipendentemente dalle definizioni che le vengono attribuite essa ha una caratteristica costante: la capacità di oltrepassare i limiti temporali, di mettersi in competizione con la memoria stessa cercando di afferrare in dei fermo immagine ciò che non vuole perdere. Durantini descrive attentamente i vari processi di scrittura e spiega come a furia di scrivere e riscrivere avvenga una vera trasfigurazione del vissuto, una ricostruzione della realtà, un mélange tra finzione e vita vissuta, d’altro canto sarà la stessa Duras che dirà: «il reale porta con sé la sua propria finzione». Tutto ciò lo si può osservare in opere come Agatha, pubblicata nel 1981 o nella più conosciuta L’amante, edita nel 1984. Per concludere, si può notare come, anche in Marguerite Duras, il processo di scrittura proceda per distruzione e lacerazione.

Si giunge, infine, alla vivente Annie Ernaux, in questo ultimo periodo molto letta e discussa. Questa scrittrice rappresenta, secondo Durantini, la summa di queste due figure femminili e, a modo suo, estende l’alfabeto linguistico letterario, inaugurato da Colette, a un piano più sociale e inclusivo. Ernaux abbandona l’esigenza di raccontarsi, di ricercare il giusto compromesso tra ricordi e realtà, di evolversi, ma affronta la scrittura in modo chirurgico con un’unica intenzione: scrivere la vita. I motori che la spingono sono molteplici: il desiderio di offrire un lascito, di creare una memoria collettiva, ma forse più di tutto la forte volontà di combattere l’oblio progressivo del passato e imprimere una traccia indelebile di un noi onnicomprensivo. Il suo processo di scrittura si attua tramite una ricerca archeologica del tempo, attraverso l’uso puro della sua memoria, che lei stessa definirà anche materiale, una testimonianza di questa operazione è il suo diario personale. Anche per Ernaux, come in Colette, è necessario applicare una distanza tra l’evento da narrare e l’evento della scrittura. Questo lasso di tempo serve per poter affrontare la scrittura in modo neutro, servendosi della sua cosiddetta scrittura piatta. Se Duras aveva una scrittura corrente, che tendeva ad afferrare, per Ernaux si tratta più di una scrittura lenta, analitica e di scavo. Durantini ci racconta l’incontro emozionante con l’opera ernausiana e di quanto esso sia stato incisivo. L’io nei suoi libri scompare, passa attraverso un lei fino a diventare sempre più impersonale arrivando a un noi generale. Annie Ernaux rappresenta il culmine di quest’autobiografia e la cambia nuovamente per farla diventare ancora più audace e aperta verso un mondo non più solo femminile. Si giunge così a un’autosociobiografia fatta da una lingua, anche in questa autrice, talvolta frammentaria e tagliente, in cui memoria personale e storia si fondono insieme per diventare sociale. Anche qui la scrittura parte da un evento traumatico, talvolta scandaloso, perciò dal dolore. Ernaux una volta ha affermato di scrivere per «vendicare la sua razza», da qui è evidente come la scrittura sia anche per lei uno strumento di lotta, ma soprattutto di testimonianza.

In conclusione, il libro di Durantini sottolinea, in modo chiaro, quanto queste tre figure abbiano combattuto per affermare con forza la loro voce affinché possa riecheggiare dentro di noi in eterno. La lotta intrapresa a colpi d’inchiostro da queste tre autrici è servita a dimostrare come la scrittura non solo racconti un evento, ma lo sia essa stessa, dal momento che riesce a narrare l’indicibile e a svelare la realtà su un mondo femminile ancora troppo sconosciuto.