Skip to main content

Ciò che colpisce in Chi se non noi (Nottetempo, 2021) di Germana Urbani è senz’altro l’audacia. Nell’epoca in cui le storie di ordinaria resilienza al femminile vanno rapidamente diffondendosi (m’è scappato resilienza? Ops!), la giornalista e insegnante veneta ci offre un esordio in cui la protagonista, Maria, prima si appiattisce sulla personalità dell’uomo che ama – un belloccio di nome Luca, “immobile e nero come un animale in agguato” –, poi, abbandonata un attimo dopo aver rinunciato a tutte le conquiste della sua vita per stargli vicino, va definitivamente in frantumi, sfiorando (o forse è più corretto dire raggiungendo) altalenanti stadi di follia. Urbani su questo è spietata, non risparmia niente, vuol consegnarci una donna sconfitta senza sottrarre nemmeno un mezzo termine al campo semantico del sadomasochismo e dell’umiliazione, e lo fa con lo scopo preciso di spostare il nostro sguardo più a fondo, sulle ragioni meno evidenti che portano alla degradazione della vita di Maria.

Siamo sul Delta del Po ai giorni nostri, e in particolare nella zona del Basso Polesine che fu teatro dell’alluvione del ‘51, quella stessa terra a cui Cibotto ha dedicato il suo primo libro, Cronache dell’alluvione. Non a caso Urbani cita il grande cantore del Delta e lo usa come fonte di ispirazione per la ricostruzione della geografia antica e per le parti in cui il racconto dell’alluvione si innesta in quello del presente. Per entrare nel merito del romanzo, difatti, tocca partire proprio da qui, dal fiume. In Chi se non noi il paesaggio del Delta non fa da mera cornice a una storia d’amore sciagurata, ma il lento incedere del fiume traghetta l’intera narrazione. In fondo è quello il luogo da cui tutto scaturisce, incluso Luca. Dai continui a rimandi a questa “tera umida de miseria” in cui Maria si sente tronco trascinato dalla corrente ma dove tutto, suo malgrado, corrisponde simbioticamente al suo paesaggio interiore – l’orizzonte basso e fangoso, il mare “di bronzo lucente” dei campi di soia, “immensi cieli color cicoria” – si leva un inno a luoghi poco conosciuti, ambigui ma affascinanti, di cui finiamo per intuire la poesia. Maria attraversa in motorino una serie di paesini e al suo passaggio li nomina tutti, perché il nome ha un motivo, dentro c’è la storia della sua gente e forse il suo destino, qualcosa che la insegue: l’isola di Ariano, Ca’ Mello, i ponti, l’Isola dell’Amore.

In questo Polesine piatto e lagunare c’è anche la sua casa, naturalmente, quella dov’è cresciuta e da cui desidera scappare a gambe levate. Unica figlia femmina in una famiglia di pragmatici contadini, ancora bambina dice al nonno che le piacerebbe fare l’architetta e andarsene in città “a godersi la bellezza, profumando di buono”. La madre naturalmente non ne vuol sentire, anzi, dopo le superiori la vorrebbe impiegata in un laboratorio tessile della zona, poi sposata. Maria asfissia al pensiero. Resiste, trova un lavoretto per pagarsi la retta universitaria, lascia il paese e si laurea. Per giunta non si limita a raggiungere il primo confine dei giovani deltizi in fuga, Adria, ma arriva addirittura a Bologna, dove entra in un prestigioso studio di architettura. È fatta. Quasi. Ogni venerdì, infatti, Maria parte dal suo appartamento in città e percorre a ritroso la strada di casa per vedere l’uomo che ama, Luca, troppo affezionato ai luoghi natii anche solo per andarle incontro. All’ipotesi di una convivenza che semplificherebbe tutto questo andirivieni, lui risponde in modo criptico: ci tiene alla sua autonomia, dichiara, e poi il loro è un rapporto speciale, non c’è mica bisogno di definizioni. Un’affinità elettiva un po’ sui generis, a occhio e croce. Poco importa, d’altronde, che Maria abbia faticato tutta la vita per arrivare dov’è. Quando lui le offre come unica opzione quella di vivere a Ocaro, un ritorno sul Delta, lei rinuncia al lavoro dei suoi sogni, alla bioarchitettura e alle amate mostre fotografiche per andare a riparare buche sull’asfalto per conto dell’ufficio tecnico del Comune di Ariano, in modo da essere più vicina a casa. Dopotutto stanno insieme da soli dodici anni, è ora di pensare al futuro.

Ma come se non bastasse, Luca, che fino ad allora ha lavorato in pescheria, ispirato dal di lei cursus studiorum e attratto dalla “bella vita, quella riservata a chi ha soldi e gusto”, decide di laurearsi pure lui in architettura. Non solo ci riesce senza difficoltà alcuna, avendo compreso che “fare l’università era possibile, niente rispetto all’Everest che si immagina sia stando dietro un bancone del pesce a friggere”, ma – rullo di tamburi – prende addirittura il posto di Maria allo studio bolognese, mentre lei accetta (anzi, propone) di diventarne semplice collaboratrice, in un momento di tafazzismo mica da ridere. Non sorprende che quando lui le dirà di amare un’altra e la mollerà in mezzo a un parcheggio, Maria avrà un bel domandarsi: “Perché gli ho dato il mio lavoro, la mia vita?”.

A quel punto lo strazio è totale. Maria è un corpo vuoto, sporco, impasticcato, tagliuzzato. Si sente come uno di quei siluri catturati dai pescatori di frodo con gli elettrostorditori. “Li tengono in vita finché non decidono di averne presi a sufficienza”, aveva spiegato Luca. “A quel punto li portano a riva per caricarli sui camioncini o macellarli sul posto.”

Su questo, naturalmente, occorre spendere due parole. Un’escalation del genere nella vita di Luca a prima vista può suonare inverosimile, tanto più che l’autrice non ce lo ha fatto passare esattamente per un Martin Eden, fin qui. Non è facile figurarsi quest’uomo di quarant’anni e poche parole che passa dal banco del pesce allo studio bolognese iniziando a snocciolare citazioni di Le Corbusier. La verità, però, è che non importa, e tutto sommato cediamo volentieri un po’ di sospensione dell’incredulità in cambio della spinta più forte che qui vuol darci il romanzo. Ricostruendo infatti il mosaico del rapporto tra Maria e Luca tramite i flashback che alternano gli episodi d’amore al dramma della rottura, scopriamo il segreto di Luca. Narcisista, manipolatore, crudelmente bambino, Luca è vittima di una vanità che rimarrà frustrata malgrado le conquiste, nonché di un desiderio triangolare che lo spinge a desiderare prima ciò che Maria ha, e poi, finalmente, ciò che Maria è. Questo perché, come dice Girard, “alla fonte stessa della soggettività, si trova sempre l’altro, insediato vittoriosamente, 1René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, 2021, pp. 56-57. l’altro che possiede oggetti, esperienze e successi che assumono tanto più valore quanto più l’altro li ha desiderati, gonfiati di significato.

Luca si insinua nella mente di Maria e ne prende possesso palmo a palmo, come un parassita. Ogni volta che lei rinuncia a qualcosa il suo ego esulta, e la sua voce diventa tanto più autorevole quanto più Maria cede il passo alla sua azione di controllo. Ciò nonostante, ecco che questa cannibalizzazione della vita della protagonista mette in luce, più che la sua debolezza di donna infranta, la solidità di Maria come individuo che sa abitare la vita che ha costruito e scelto, la sua propria, per quanto in certe fasi percepita come luogo di dolore. Maria, di fatto, è cresciuta. Si è sottratta a un destino scritto da generazioni per fare il suo lungo viaggio lontano da casa, è arrivata dove voleva, ha scattato foto e sognato di costruire boschi verticali. Ora ha perso l’amore che credeva il perno della sua esistenza, un uomo che comunque ha desiderato in senso assoluto e che, nella sua percezione, l’ha amata come nessuno aveva fatto prima, “né un uomo né mia madre”. Si è disperata, certo, ma via via realizza che ciò di cui Luca si è nutrito è un organismo – il suo – costituito dalle sue proprie ambizioni e fatiche, qualcosa che, di fatto, si può “abitare” per un po’, ma che non si può in alcun modo strappare dal corpo a cui appartiene.   

Questa riflessione ci riporta all’inizio, all’audacia. Maria, di fatto, incarnerebbe l’oggetto perfetto del victim blaming cui siamo tristemente avvezzi. Sarebbe una, insomma, che se lo cerca, tutto quel dolore. Luca esige, lei dà. Luca comanda, lei obbedisce. Luca se ne va senza alcuna tenerezza, lei vuol morire. A poco servono le parole dello psichiatra cui si rivolge o dell’amica Giulia – l’unica persona da cui Maria si lascia davvero avvicinare – che le dice che ha vissuto una storia malsana o che lui è un pessimo essere umano. Il libro, peraltro, è costellato di episodi agghiaccianti: il sesso rapsodico e brutale, il “cimitero” delle ex fidanzate di Luca che tiene religiosamente tutte le foto delle sue donne appese in camera, un dialogo in cui si dice esplicitamente che denunciare una violenza “umilia le donne” e, ciliegina sulla torta, l’infelice affondo lei fa sesso meglio di te. Ma allora perché Maria resta? Perché si annulla in questa relazione palesemente asimmetrica? Imponendoci questa domanda, Urbani ci mette di fronte all’impossibilità di una risposta semplice, quella che ci verrebbe da dare se potessimo ridurre i personaggi alle comode etichette di vittima e carnefice. La Maria che ci viene presentata non è una donna spaesata che vuole rinunciare a tutto per amore, anzi, quel che ha conquistato vuole condividerlo perché ne conosce il valore. Il suo errore, se così si può chiamare una pulsione tanto spontanea, consiste nel trasferire il significato della sua vita in un significante che sta fuori da sé, Luca, che andandosene lascia un lacerante vuoto di senso. A quel punto, il suo curriculum di donna indipendente e capace è carta straccia di fronte alla perdita della sua identità e al dolore dell’abbandono.

L’audacia sta qui, nella volontà di creare un personaggio che rovescia lo stereotipo dell’eroina moderna e incrina l’idea che la violenza di genere sia perlopiù rivolta a individui senza risorse (il che sottende l’idea che avendo quelle risorse sarebbe facile sottrarvisi). La struttura del romanzo, con l’alternanza di passato e presente, consente di scorgere tutti i piccoli segnali di un’azione corrosiva nella personalità di Maria che richiede a Luca tempo, astuzia e volontà, e che dà luogo a una dinamica di dipendenza complessa e pervasiva non risolvibile con la semplice polarizzare del giudizio su due schieramenti contrapposti.

“È qui la fine”, dice Maria al Delta che se l’è ripresa. “Qui ti porta il dedalo liquido delle acque del fiume. Qui dove i cieli si spalancano come da nessun’altra parte. […] Qui è il confine. Qui dove è più facile che da altre parti avere la febbre per il volo, desiderare le ali”. Maria ha spiccato il volo una volta, quand’era ragazza, e forse, dopo aver rimesso insieme le forze, la memoria di quella liberazione la aiuterà a spiccarlo di nuovo.

Note[+]

18 Comments

Leave a Reply