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Cos’hai nel sangue di Gaia Giovagnoli, esordio con cui nottetempo inaugura la narrativa del 2022, si apre con un sogno. Nel sogno «la madre» (non una, non sua: la) è «distesa», «aperta», ha «la carne spalancata come quella di un coniglio». Poi, un salto indietro: c’è la terra, la polvere, ci sono i piedi nudi di una bambina sporchi di terra e di polvere, le tende spesse di velluto, il sesso come uno squarcio – è lui il coniglio scuoiato. La bambina ha chiamato «mamma» nel vuoto: l’ha trovata riversa sul divano, a gambe aperte, che ride di lei. Ricorda le madri di Louise Bourgeois, a volte case, altre nodi, altre ragni. A sognare è Caterina, la protagonista del romanzo. Si scoprirà più avanti che la bambina del sogno è Cariclò, sua mamma, e che «la madre» è sua nonna Fara. Fino a quel momento, Caterina non sapeva nemmeno di avere una nonna – al di là dell’ovvia deduzione che ci vede tutti figli di qualcuno più in alto di noi nella catena del sangue; di sua madre non sa molto di più.

Caterina: il corpo e il nome

Il rapporto tra Caterina e sua madre è un rapporto violento. Nonostante questo, la trama di Cos’hai nel sangue inizia con un tentativo, più o meno imposto, di riavvicinamento: in quanto figlia, la protagonista deve accudire la donna malata, «piena di ombre e di spigoli», a cui deve la vita. Ben presto, però, il suo sforzo si infrange contro la consapevolezza di non saper sopravvivere l’una all’altra. Non c’è posto in casa per i loro corpi: tornano a galla spintoni e capelli strappati, il rifiuto e la vergogna di ri-conoscersi attraverso la carne (è Caterina a spiegare alla madre «che no, la pipì esce dal suo buchino», e per farsi capire fa «con le mani un disegno in aria»); riemergono i disturbi alimentari, le dita a pinzare la carne sempre di troppo sulla pancia, i sotterfugi per saltare i pasti, i pasti che saltano giù nel cesso.

«Chi non mangia o è una santa o è una strega».

Dal corpo al nome: Caterina, nella tradizione popolare, è una strega e una santa. È la strega che vola sul Casentino, che si dissolve nel nulla a tredici anni dopo essere stata nutrita a ostie perché troppo magra e dunque «colpevole di non avere più un’anima»; ed è la santa morta di fame – anche lei, tra l’altro, si nutre di ostie. E un’ostia è niente, è il corpo di Cristo, è una pancia vuota. Così, ancora, dal nome al corpo: Caterina è il suo corpo ed è il suo nome più di quanto non sospetti. O è una santa o è una strega.

Un figlio è un grumo di sangue

Quando fa la sua comparsa Alessandro Spina, antropologo che sta indagando sul borgo di nascita della madre, Coragrotta, per Caterina si apre una nuova possibilità di fuga. La protagonista abbandona casa sua e si mette in viaggio, guidata più da un impulso viscerale che dalla scelta di indagare sul passato della sua famiglia e fare luce sugli interrogativi di Spina. Una volta arrivata, quello che sembrava il rapporto di una madre specifica con una figlia specifica appare come unica possibile manifestazione del rapporto madre-figlia, le due cornette insensate agli estremi di una comunicazione vuota, la risposta impossibile a una domanda mai formulata. Di generazione in generazione, in eterno; nonostante tutto (l’odio e l’amore). Anche a Coragrotta il cordone ombelicale è un intreccio di misteri e violenza. Le donne non riescono ad avere figli e manifestano per i loro «morticini» (i bambini abortiti, nati morti, morti a poco dal parto) un attaccamento speculare alla loro condanna: «Qui funziona così, purtroppo: i figli non ti restano attaccati alla pancia».

«Sì, sì. Non è strano. È una cosa che qua è sempre stata così. Noi donne abbiamo questa maledizione qui che ci fa ingrassare le pance, le gonfia per due, tre, quattro mesi, diventano vive, ma poi i bambini cadono, li sanguiniamo via. Io ne ho fatti ventisette, in tutta la vita, più o meno formati».

La disperazione porta le donne del borgo a non arrendersi, anche se «vecchie e cadenti». Hanno rapporti sessuali con ragazzi spesso più giovani, i pochi esemplari rimasti di sesso maschile: sono gli «svardùni, quelle povere bestie», non troppo brillanti, «così vuoti che non sono più uomini». Sono animali da monta dichiarati, ma la logica a cui obbediscono non è diversa da quella che guida gli uteri delle paesane: le bambine si consumano nel tentativo di procreare, diventano adulte, riescono o falliscono, a volte scappano, ancora si prosciugano, provano fino alla morte e fino alla morte piangono i propri morti. Se non riescono ad avere nemmeno un figlio non sono «vere donne» – perché tutti i corpi sono fatti di carne, ma un corpo di madre lo è un po’ di più.

La carne dei sogni

A Coragrotta Caterina mangia, fa il bis, guarda la forma che disegnano le cosce sulla sedia. Ma più il suo corpo torna sano più perde consistenza; è la corporeità dei sogni, di contro, a farsi sempre più ingombrante. E la narrazione, fino a questo momento aperta a squarci onirici, diventa a tutti gli effetti fantastica.

Dai corpi dei morticini, seppelliti a Monte Sospiro, nascono piante di carne graveolenti, di cui si nutrono i «lupi nudi». Le bestie rosa, senza pelo, usano per ripararsi dal freddo le ciocche di capelli che le madri portano in dono sulle tombe dei propri figli; con le loro zampe rachitiche arrivano a essere esse stesse (lo sono da sempre?) i morticini – «Cate, è così. Io so solo che è così. I lupi sono i morticini».

Mentre segue le orme di Spina, a Caterina vengono rivelati i misteri del borgo materno. I paesani non sono restii ad aprirsi: il segreto di Coragrotta le si schiude davanti come un fiore. La ragazza scopre chi è sua nonna e ne abbraccia l’eredità, impara chi è sua madre, comprende per quale motivo in quel borgo cupo la vita scorre e si arena e sceglie di chiamarlo casa; impara che «la vera forma del sangue è una catena e il suo peso è insostenibile». Alle scoperte non trema, quasi non reagisce: le intuisce, le ascolta come un richiamo amplificato dalla gabbia toracica.

A guidarla è il moto che con una locuzione un po’ stantia avremmo chiamato andare incontro al proprio destino, urgenza a cui tutto si adegua – compresi alcuni ricordi e dialoghi che potrebbero apparire forzatamente funzionali, così come appaiono fin troppo uniformi nel tono e nel lessico gli inserti che dovrebbero avere voce e caratteristiche proprie. Ma queste imprecisioni, più che perdonabili in un romanzo d’esordio, sono riscattate da una lingua impeccabile precisa acuminata, capace di gestire il ritmo, il fluire della sintassi, la punteggiatura, il bianco tipografico. Una lingua, in sintesi, non solo buonaperessereunesordio, ma a cui molti autori italiani contemporanei ben più maturi dovrebbero aspirare, che fa di Giovagnoli una delle voci più interessanti di oggi, e probabilmente delle migliori di domani.

«Ora conosco cos’ho nel sangue e so che non posso lavarlo».

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