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La sera, il giorno e la notte è una raccolta di sette racconti di Octavia E. Butler che, grazie alla casa editrice SUR, è arrivata sugli scaffali delle librerie italiane a ottobre 2021. Ciò che la rende peculiare è la presenza di due brevi saggi – intitolati rispettivamente Ossessione Positiva e Furor scribendi – che concedono al lettore una pausa, immersiva e di riflessione, sulla scrittura così come intesa dalla stessa autrice.
Procedendo per piccoli frammenti del suo passato, Butler ci mostra il suo processo di avvicinamento alla scrittura, divenuto poi personale cruccio, ossessione positiva appunto, nonché maniera grazie alla quale affrontare la propria timidezza e quelle che percepiva come storture della realtà. Tale pausa, inoltre, separa i primi cinque racconti 1Nell’ordine abbiamo: Figlio di sangue, La sera, il giorno e la notte – apparso nella raccolta Le visionarie (Nero) –, Una specie di famiglia, Fonemi e Deviazioni già comparsi altrove dagli ultimi due2Amnistia e Il libro di Martha., inediti, tutti tradotti da Veronica Raimo a cui era già stata affidata la traduzione del romanzo sci-fi Legami di sangue (SUR, 2020).

Prima di approfondire il discorso scaturito da questa lettura, sarebbe bene precisare che non si proseguirà qui nell’analisi dei singoli racconti ma ci si soffermerà piuttosto nella valutazione di alcune ricorrenze tematiche ritenute di particolare interesse in quanto costitutive dell’approccio narrativo della brillante scrittrice statunitense; peraltro, così facendo, non si priverà il lettore della scoperta delle sette tappe del viaggio letterario che affronterà.

L’atto di creazione di questo universo popolato dalle più disparate creature – squisitamente umane e non – risiede in una vera e propria ammissione che possiamo leggere nella prefazione: «La verità è che odio scrivere racconti. Provarci mi ha insegnato più cose di quante volessi saperne sul senso di frustrazione e disperazione». Tenendo a mente queste ultime due parole – anzi aggiungendone una soltanto, perseveranza – si potrebbe non solo arrivare al cuore della visione della scrittura di Butler, ma rintracciare una sorta di filo conduttore, poiché frustrazione e disperazione sono anche i sentimenti scatenati dall’incapacità di comunicare e dai limiti della parola che sono anche quelli del mondo così come lo conosciamo. Non a caso, nel corso della lettura ci si ritrova spesso nella condizione in cui la comunicazione è ostacolata dalla profonda e, per certi versi, inconciliabile diversità fra le parti comunicanti. Per entrare più nello specifico e dare un piccolo assaggio di ciò a cui si fa riferimento basta accennare alla presenza, nel racconto intitolato Amnistia delle «comunità», agglomerati senzienti dall’aspetto di cespugli che si compongono di diversi organismi, alcuni preposti alla mobilità, altri alla vista, ma privi di udito i quali, arrivati sulla Terra da un altro sistema stellare, interagiranno con gli esseri umani sviluppando un sistema fatto di luci e di impulsi elettrici per consentire appunto una forma di comprensione. In questo racconto dall’impronta fortemente distopica, «assemblare un linguaggio» comune risulta un atto di estrema intelligenza e finanche di compassione, perché spesso il pericolo per l’uomo sta nell’uomo stesso, nella sua ignoranza e nella cieca voglia di vendetta.

Se dal distopico ci si sposta verso il post-apocalittico è possibile addentrarci con ancora più chiarezza nella questione – che stiamo qui usando come linea guida – e guardare al linguaggio come facoltà perduta a seguito di un evento scatenante, una non ben precisata malattia che ha gettato l’umanità nel più profondo dei caos. Vediamo come in Fonemi questa malattia

«[…] aveva caratteristiche specifiche. L’uso del linguaggio, se non veniva del tutto perso, era seriamente danneggiato, e non c’erano possibilità di recupero. Spesso sopraggiungevano anche la paralisi, danni a livello intellettivo e la morte».

In un contesto così straniante, all’interno di questo mondo in cui «La perdita del linguaggio verbale aveva generato tutto un nuovo campionario di gesti osceni», sembra quasi di riconoscere – compiendo un doppio salto, temporale e di forma narrativa – le rovine in cui sopravvivono i personaggi de La terra dei figli di Gipi (Coconino, 2016) dove tutto viene inghiottito da un silenzioso bianco e dell’umanità rimangono solo dei tremanti tratti. All’interno di una società violenta e tribale, poco o niente rimane di ciò che si credeva di conoscere, e per non perdersi ulteriormente ci si può solo rivolgere alla speranza quasi come fosse un ultimo e disperato atto di fede.

È a questo punto che sarebbe interessante volgere il nostro sguardo verso l’utopia. Butler ci racconta così di un incontro di Dio – che può avere le fattezze di Mosè o di una donna nera – con Martha alla quale chiederà di svolgere un compito o meglio: «un lavoro che si sarebbe rivelato importantissimo sia per lei che per l’intera umanità». A partire da questa incredibile rivelazione le due interlocutrici si troveranno a parlare di libero arbitrio, della noia che l’onniscienza può provocare, il tutto sospeso in un’atmosfera onirica che potrebbe rivelarsi più utile di quanto non possa sembrare in prima battuta, perché se c’è una verità – incontrovertibile, che ironicamente emerge proprio in una storia in cui uno dei due comprimari è Dio – è che «Non va mai niente liscio quando si tratta dell’umanità». Andando oltre la tematica del linguaggio e guardando ad alcune caratteristiche comuni a tutti i racconti, si può evidenziare come i topoi propri della fantascienza vengano spesso filtrati e stravolti in modi inediti. Per avere un esempio basta osservare che dell’invasione aliena non viene messa in risalto tanto la prevaricazione della specie forte – dotata di sofisticate tecnologie o di caratteristiche biologiche superiori – su quella umana, quanto la questione dell’accettazione da parte di un adolescente della vita di coppia a cui è stato predestinato e della scelta che decide di compiere. Questo stimolante capovolgimento di prospettiva si può individuare anche nel fatto che di tutte le premesse narrative dalle quali partire per raccontare la disumanizzazione Butler scelga quanto di più umano ci sia, vale a dire «impieghi idioti e massacranti» o malattie che, al pari di tali lavori, possono condurre alla follia. Qui si potrebbe considerare un ulteriore rovesciamento, questa volta intorno al concetto di gabbia che troviamo più specificatamente nei racconti Figlio di sangue e La sera, il giorno e la notte. Nel primo racconto T’Gatoi alieno e ufficiale della Riserva – utilizza la sua grande stazza e le zampe simili a quelle di un grosso ragno per proteggere Gan, il bambino che è suo prescelto, posizionando le zampe a formare una specie di nicchia che ingabbia, sì, ma spesso lo difende. In La sera, il giorno e la notte i due protagonisti, invece, sono affetti da un disturbo genetico ereditario che, nel decorso della malattia, porta chi ne è affetto a uno sconvolgimento della percezione di sé tale da portare i malati a sentire la propria stessa pelle come una gabbia da cui scappare, causando loro, il più delle volte delle vere e proprie automutilazioni.

Che sia dunque partendo dai propri interessi che spaziano dalla biologia, dalla medicina, alle scelte individuali o dalla sua educazione di bambina cresciuta in una famiglia di fede battista, Octavia E. Butler spinta dal suo personalissimo furor scribendi ci lascia esplorare, attraverso una lingua limpida, a tratti sagace ma mai priva di compassionevole lucidità, universi nei quali al di là di ciò che accade, l’essere umano riesce a scoprire sempre qualcosa in più su di sé e sulla realtà che lo circonda per quanto questa spesso ci si presenti in tutta la sua assurda e umanissima crudeltà. Perché sia nella scrittura che nella vita:

«Siamo tutti quanti in grado di arrivare molto più in alto di quanto normalmente ci concediamo di immaginare. Ecco di nuovo la parola: Perseverate!».

Note[+]

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