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«All’improvviso Hammoudi vede una sagoma vestita di scuro dall’altra parte della strada. Prima che riesca a rendersi conto di cosa sta succedendo, una piccola bomba artigianale di limitata potenza vola nella stanza. Non ha neppure il tempo di sentire il botto. I vetri delle finestre vanno in frantumi mentre gli ospiti della residenza si svegliano di soprassalto. Il giornale locale in seguito riporta che c’è stata una sola vittima. Accanto all’articolo compare una vecchia foto in bianco e nero di Hammoudi non vengono a sapere altro sul suo conto oltre all’età e alla nazionalità».
Tenendo conto del grave momento storico che stiamo vivendo oggi, non ci potrebbe essere libro più adatto da leggere in questo periodo così buio per la nostra civiltà e per il nostro tempo. Detto ciò, non si tratta di certo dell’unico libro che affronta tematiche come la guerra e le sue conseguenze o i pregiudizi e le ingiustizie che alcuni popoli sono costretti a subire, ma sicuramente la scrittura di Olga Grjasnowa è un faro di luce, a tratti difficile da sostenere, nell’oscurità che stiamo attraversando, una voce nitida e forte nel monotono chiacchiericcio popolare.
Il passaggio qui sopra riportato riassume alla perfezione cosa rimane di una vita in fuga da una guerra politica, economica, religiosa, di qualsiasi natura essa sia: una foto, se va bene, a testimonianza di un’esistenza spezzata troppo in fretta e brutalmente per volere altrui.
Dio non è timido di Olga Grjasnowa, tradotto da Fabio Cremonesi, edito da Keller nel 2020, è un libro-testimone, forte, d’impatto, che da un lato non permette di staccarsi dalle pagine che si stanno leggendo mentre dall’altro si vorrebbe centellinare fino all’ultima parola.
Le vite sono quelle di Amal e Hammoudi, due giovani ragazzi, nel pieno della loro affermazione sociale; la prima studia arte drammatica all’Accademia di Damasco, mentre il secondo è appena diventato medico dopo un percorso di studi condotto all’estero, a Parigi. Entrambi sono pieni di talento, ma soprattutto di voglia di vivere, di affermarsi e di guadagnare il loro posto nel mondo, ovunque esso sia: a casa propria, in Siria, o in paese straniero, in Francia, diventato casa per altri motivi al di fuori dell’origine geografica. Nonostante scelte e percorsi di vita differenti, i due protagonisti sono uniti da un destino pressoché identico: perdono tutto, dalla ricchezza e la sicurezza di una famiglia benestante e altolocata, al loro lavoro, alle loro aspirazioni fino ad arrivare alle cose che normalmente si danno per scontate come le abitudini, gli amici, l’amore, fino a quando non arriva qualcosa di enorme e spaventoso a sottrarcele: la guerra.
Siamo nel 2011, agli albori di ciò che viene definita la Primavera araba, nome alquanto ossimorico date le conseguenze di questa rivoluzione. Le speranze di ottenere dei cambiamenti, delle aperture, delle libertà si sfracellano contro il muro di repressione, terrore e assolutismo che Baššār al-Asad mette in pratica. E così Hammoudi e Amal si ritrovano non solo senza speranze di vivere nel loro paese, ma anche con la paura di morire pur essendo nel giusto: perché in fondo cosa ci potrebbe essere di sbagliato nel volere vivere liberi?
Da qui inizia l’odissea dei due personaggi, che solo all’inizio e alla fine del libro si incontrano per una pura casualità: un mazzo di chiavi li fa incontrare, una pasticceria siriana a Berlino li farà ritrovare e un’esperienza di vita li legherà per sempre a doppia mandata. Amal con il suo temperamento ribelle, tenta a tutti i costi di rimanere in Siria, anche dopo aver avuto un assaggio, alquanto cruento, di cosa significhi finire nelle mani dei servizi segreti di Asad, ma alla fine non ci sono più opzioni, nessuna strada percorribile, se non quella della fuga oltremare. Lo stesso accade per Hammoudi, rimasto bloccato a Deir el-Zor, per motivi burocratico-amministrativi mai specificati, che decide di offrire le sue capacità mediche ai suoi concittadini e ai soldati dell’Esercito Siriano Libero fino a quando gli sarà possibile farlo. E così, prima una e poi l’altro, costretti a malincuore − constatazione da tenere a mente −, sono obbligati a mettersi nelle mani di coloro che organizzano, dalla Turchia, dal Libano, dall’Iraq, dall’Africa, i famosi viaggi clandestini per giungere finalmente in Europa e riconquistare la tanto agognata libertà che gli era stata finora sottratta. «Che ingenuità» direbbe Olga!
Amal insieme a Youssef, suo compagno e di lì a poco marito, si avviano dal Libano per compiere la famigerata traversata in mezzo al mare che li condurrà, per miracolo e non senza rischiare la vita fino in Italia. Anche Hammoudi alla fine cede, abbandona la sua terra e i suoi pazienti per mettersi in salvo e attraversare in barca e a piedi diversi Stati fino a essere messo in uno di quei famosi centri di accoglienza per profughi. Ecco i famosi profughi che vengono in Italia, poveri, delinquenti, furbi, a rubarci il lavoro, l’identità, la casa, la famiglia addirittura. Ecco i nostri profughi, persone vere, vive, con aspettative grandi, carriere avviate, uomini e donne della medio-borghesia siriana che si ritrovano a essere i protagonisti di un libro letto da un lettore del loro stesso strato sociale, con le stesse aspirazioni, sogni e basi di partenza.
Diventa immediatamente evidente il potere della scrittura della Grjasnowa, che con la sua lama affilata, imprime parole prive di giudizio e sentimentalismi, ma che hanno al loro interno un enorme potenziale di verità. La narratrice osserva, di lato, all’ombra della sua penna, l’andamento di queste due vite, lo stravolgimento dei destini dei suoi due protagonisti, le loro reazioni (dall’incredulità, alla paralisi fino ad arrivare alla presa di coscienza) e le conseguenze imprevedibili e, talvolta atroci, che sono costretti ad affrontare per salvarsi (la paura, il rischio di morire, il pregiudizio razziale che devono subire, arrivati alle loro nuove destinazioni) e tornare, se niente di troppo grave accade, a tentare di ricostruirsi una normalità e vivere di nuovo, se gli viene concesso.
«Il mondo ha inventato una nuova razza, quella dei profughi, refugees, musulmani o ultimi arrivati. L’atteggiamento di sufficienza è percepibile a ogni passo.»
Si tratta di una lunga apnea quella a cui sono costretti sia i protagonisti sia i lettori che decidono di imbarcarsi letteralmente e metaforicamente in questo viaggio di parole. In questo romanzo-testimonianza le tematiche affrontate sono molteplici: la Primavera araba del 2011, le speranze di una rivoluzione, la repressione di uno stato assolutista, la guerra civile, l’avvento dello Stato Islamico, la fuga e con essa i barconi, l’augurio di non morire che si tramuta in fretta nella speranza di morire con i familiari o di non sopravvivere ai propri figli, le trafile burocratiche, le richieste di asilo e infine di nuovo la lotta, la non-accettazione (“questi vanno aiutati a casa loro”), la paura.
A livello stilistico Grjasnowa mette a segno un bel colpo, che riapre e sottolinea l’urgenza di conoscere e raccontare le vicende, che sembrano fin troppo conosciute qui in Europa, ma che a quanto pare, vengono sottovalutate e dimenticate con troppa rapidità. La potenza di questo libro risiede nella sua scrittura, asciutta, che alterna frasi poetiche a momenti di estrema durezza. Si passa dalla gioia per la nascita di un bambino nell’ospedale da campo avvenuta tra i bombardamenti, alla tragedia di scegliere di operare chi ha maggiori possibilità di sopravvivenza. Da una giornata ideale, a livello climatico, per le bombe ai dolci ricordi di una colazione nel tepore di una casa parigina. Tra i sapori e gli odori di una cultura fin troppo bistrattata quella siriana, fatta di piatti succulenti, dolci sheibiat e bicchieri di arak si giunge alle atroci illusioni del governo di Dio (Asad), che inganna, picchia, uccide e nega una qualsiasi possibilità di vita ai suoi abitanti.
Dio non è timido ha in seno diversi punti di forza: si tratta di un racconto coinvolgente, necessario, dovuto. Se si dovesse cercare di inquadrarlo in un genere potremmo parlare di letteratura della trascrizione. Già nel XX secolo si fa avanti una necessità impellente di cambiare modo di fare letteratura, di narrare il passato, di lasciare una traccia per il presente e un monito per il futuro. Si fa strada il desiderio di riempire un vuoto, una mancanza, di mettere nero su bianco la storia che è fatta dagli uomini e dalle loro vicende.

Vi è dunque un intento chiaro, che sembra esserci anche nel libro edito da Keller, quello di scrivere la storia del passato per il presente. Non si tratta di un passato qualsiasi, ma di un’esperienza storica, di un passato rimasto nel silenzio e ancora troppo vicino all’oscurità. Ecco, dunque, l’obiettivo principale dell’opera dell’autrice: condurre un lavoro archeologico, reperire le tracce di questi eventi non troppo lontani dal nostro presente, decifrarle e creare una memoria collettiva, nella speranza di rendere letteratura e di conseguenza vita, emozione, sensazione ciò che a noi arriva solo tramite reportage giornalistici, numeri, fredde statistiche e pareri politici.
La letteratura si nutre di esperienze dirette e indirette e le rende testo scritto, smuovendo il lettore a formulare un pensiero e a provare una sensazione. Questo libro deve essere letto con il cuore, la testa, il corpo, bisogna farsi pervadere dalla forza generata dalla scrittura dell’autrice, averne paura, rispetto, ma soprattutto rifletterci su, perché l’urgenza della letteratura oggi è quella di rendere il lettore consapevole e capace di esprimersi riguardo a ciò che legge.

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