Com’è andata la visita?
La domanda mi disarmò per l’impossibilità di definirmi in essa.
Quel pomeriggio di giugno avevamo inforcato le bici. Gelato generalista e ritorno lungo il consueto sterrato di sotto-statale. Magari, una fermata al grande parco sulla strada. Alle 15 il quartiere sornacchia, sbocco di periferia dabbene tra giardini sul retro e piste ciclabili. Qualche nonno passa scalcagnando sul suo bolide duepedali. Perlopiù però è silenzio e sparso frinire, rispettosa veglia postmeridie. La merenda cremosa corre liscia per l’esofago. Ai tavoli con noi, solo le tate e i pargoli del dopoasilo. Vuota anticipazione d’estate. Ciondoliamo un po’. Discorsi sul partire. Sull’orario a cui essere a casa. Sui flirt estivi al campo scuola. Sulla spiaggia di Bibione e gli amici al miniclub. Io come al solito andrò lontano, solitari posti esotici. Non ho molto da dire.
Ma facciamo che andiamo in piscina!
Dopo l’ultimo morso di cono, il parco in questione sa di vero, non come quegli spiazzi erbosi rionali con due scivoli, le altalene, e la gomma per le ginocchia. Nonna dice che in questi posti non bisogna stare la sera, perché arrivano i drogati e gli zingari fregapinetti. Qui però è pieno pomeriggio, e girano solo ingobbiti padroni di cani al passeggio. L’aria è tiepida, pizzica di polline e di polvere. Si sbracano su una panchina, tirano fuori gli arnesi: Pokémon, TikTok, Animal Crossing. Io sbircio dalla spalla di qualcuno: con mamma abbiamo litigato, e mi ha ficcato la Nintendo in cassaforte per una settimana. Anche per questo sono fuori con i figli dei vicini, che altrimenti mi impegnerei a evitare. Non abbiamo molto in comune. Scuole diverse, giri diversi, sport diversi, passatempi diversi. Con loro parlo sempre poco. A catechismo sono l’unica che ascolta. Anche perché non mi sembra che nessuno sia mai interessato a quello che potrei dire. Sono un accessorio, una suppellettile. Quel cane trascinato in vacanza per penuria di rimpiazzi. Ci metto poco a distrarmi. Mi lascio scivolare addosso botta e risposta fastidiosi. Che idea di merda uscire, oggi.
Considero lo spazio intorno. Questo posto è grande. Huge. C’è una villa in mezzo, sede di un circolo di pretenziosi freak della ceramica. A volte tra i viali e le aiuole sbucano gruppetti di bambini in azione. Nascondino, un tiro a pallone. Passeggini vengono spinti. Escrementi animali, raccolti.
La mia bici è a terra lì, a un palmo da me. Basterebbe allungare la mano per porre fine al supplizio. Per qualche motivo, decido di rimanere. Recentemente mi hanno detto che non volevo infrangere le regole. Che il tabù della solitudine non era ancora maturo. Quando quel giorno non me ne andai, fu forse perché percepii uno strano formicolio sul retro della gola. Come se un paio di pupille molto taglienti stessero cercando di ispezionarmi le tonsille dopo quella dose di gelato.
Quando la noia balza all’occhio di tutti si rientra. I passi ripercorsi sono un trascinato navighìo nel burro. Il sole non cola più a picco, ma spara quanto basta per sudare un leggero velo d’acqua, quanto basta per ufficializzare la fine delle lezioni. Lo zucchero comincia a premere pesante sulla lingua. Non passa un refolo perché ora conduciamo le ferraglie a mano, satolli di vita, rinfrancati dalla ritrovata libertà estiva. L’anno dopo, le medie. Ma oggi non ci si pensa. Oggi ci sentiamo un po’ più grandi. Oggi lasciamo che l’indolenza della vecchia luce primaverile appesantisca la nostra falcata giovane, irrequieta. Per il sogno che abbiamo intessuto, basta un orizzonte limitato, piccola quotidiana rottura di routine. Per me, funzionerebbe anche un libro nuovo da leggere. E in quell’angolo di città lontano dai banchi portiamo grandi specchi davanti agli occhi, ci salutiamo riflessi. Svelti, acneici; ognora diversi.
L’asfalto intorno, invece, rimane sempre lo stesso. Le case, sempre le stesse. La sufficienza con cui si accolgono le mie osservazioni, medesima e uguale. Torna in mente la parola della nonna: angòta. Niente. L’associo volentieri all’encefalogramma del momento.
Ma eccolo di nuovo, il formicolio alla gola. Intorno, perdura il vuoto. Vorrei chiedere se sono l’unica a non sentirmi bene. Forse c’era qualcosa di avariato nel gelato. Eppure taccio. Taccio e osservo il formichìo farsi strada, prendere possesso delle mie viscere. È caldo, morbido e rigor mortis allo stesso tempo. Stimolazione sconosciuta.
Ma ci segue qualcuno?
Come prevedibile, risero. Ma il pizzicore non mi mollava. Ricercavo dentro di me i contorni di quegli occhi che così distintamente percepivo. Era iniziato proprio al parco o magari un po’ prima, in fila alla gelateria? Dov’era l’ombra che non avevo notato?
La marcia intanto procede, taglia questa pianura d’uguaglianza. Appena chiuso l’ultimo cancello del parco, c’è un ponte, divisoria tra civile e selvaggio. Riporta sulla strada residenziale, al regno degli Attenti al Cane e delle eleganti persiane di legno. Appena fuori dalle mura, uno spiazzo ocra e brullo. Scoperto, rumoroso di sassi e fosse. A fermarcisi, in questa banlieue, ci si primitivizza.
Attentiamo la salita del ponte. In quel momento, lo sento. Si distingue per un volto particolarmente fisso e immutabile, qualche metro dietro alla nostra comitiva. Solca lo sterrato in grandi cerchi, temporeggia. Siede su una buffa canna blu e sottile, picchettato su un sedile troppo sminuito per essere intenzionalmente mal misurato. Le ginocchia schizzano a destra e a sinistra, bucano la razionalità esigua della struttura. Forse dei sandali. Camicia da lavoro arrotolata fino al gomito. Faccia scura. Non fattualmente scura. Luminosamente cupa, acuta eppure profonda, archetipica, già vista. È la perfetta forma di un ghigno. Debitamente stirato e presago.
Cadenza il ritmo di rotazione, pendolo in moto inerziale. Forse fanno bene a ridermi dietro. Forse è solo un casuale squilibrato di passaggio. Davanti a me, procede il chiacchiericcio di circostanza. Forse sto strapensando.
Gli altri sono già tramezzo il ponte quando il fregare diventa un bruciore insopportabile, e interrompo il moto rettilineo della catena per incontrare quegli occhi. Sono ancora davanti a me. Pozzi bui di rabbia e violenza. Invito suadente e capriccioso ad accogliere. A lasciare andare. Il fuoco è mutato in adrenalina. Torno a guardare la lenta processione di ruote a mano, code di capelli ben sollevate e calzoncini già corti. So qual è il suo obiettivo.
–
Run for cover. Imperativo buffamente categorico della specie. Intimazione a scacciare l’ignoto, a riequilibrare il pericolo con un rifugio ben rodato. Correre al riparo.
E io corsi. Menzionai frettolosamente una visita medica dimenticata, e l’impossibilità a farvi ritardo. Elettrizzai i pedali. Mi lasciai alle spalle il gruppo e frustai quanto più potei le ginocchia, ordinando di ruotare sempre più forte, sempre più furiosamente sul proprio asse. Ogni cento metri, sguardo oltre la spalla. Nessuno nella mia scia. Solo il ticchettio frigolante della catena a confermare la mia foga sgangherata. La promessa scura di quegli occhi ancora addosso. Parlavano un linguaggio che comprendevo senza sforzo.
Ficco la bici nella rimessa il più in fretta possibile. Nella mia speculazione febbrile, gli arti di quell’uomo sulla canna blu tentacolano attorno ai compagni, li annichiliscono in un amaro senso di vittoria. Su tutto, occhi che precipitano nel buio. E io sono in quel fiotto di cecità allucinata e onnipotente. Vi partecipo, lo aizzo, traggo godimento dall’affermazione fagocitante che lo guida. E quel caldo, inebriante strizzarsi dell’apparato digerente. C’intendiamo senza sforzo. Costruiamo insieme un epilogo di lacrime e di dolore.
È stata l’esaltazione del perpetratore a farmi abbandonare il gruppo, quel giorno. Non la salvezza, ma la preservazione. La paura di scoperchiare un vaso di innominabili pensieri.
Quando corro in casa, bici accuratamente riposta, mamma faccenda come solito. Passa decisa la mano sui vestiti da stirare. Manipola ogni camicia, segna precisamente ogni mutanda. Chiara, lenta, rassicurante. Scopro un naturale contrappunto allo scuro oltrecolore in cui mi sono riflessa per accidente dopo un cono fragola e gianduia. Sta in quella mano che si adopera per vestire di morbido; nella chiazza umidiccia sotto le ascelle per il vapore sbuffato dalla macchina; nella piega mai stanca delle labbra che accolgono il mio incedere perplesso sulla discesa della prepubertà. Porto di calma e franchezza.
Com’è andata la merenda?
Sono scappata. C’era un tizio che ci seguiva, ci guardava come un pedofilo. Mi sono inventata una scusa. Non so dove siano gli altri ora.
Il mento mi trema. Mamma butta giù tutto e mi tira su di sé. Il suo odore trascendente è un atto di perdono.
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Tutto bene. Niente di che. Era solo il dentista.
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Una risposta laconica mi rassicurò.
Ripongo per bene il quadernetto portappunti e mi dirigo verso la seduta prepagata con il mio strizzacervelli.
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↔ In alto: foto Candy Zimmermann / Unsplash.
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