«Ma tu sei un antropologo? No. Un giornalista? Nemmeno. Uno scrittore? Sono sceso perché m’interessano le maschere». Secondo titolo de L’invisibile, la collana di narrativa breve di Industria & Letteratura curata da Martino Baldi, Una storia vera di Nicola Feninno condivide con il volume d’esordio Cittadino Cane di Giordano Meacci la capacità di formulare una rigorosa riflessione, intranarrativa, sulle strutture e le forme della narrazione stessa.
A Castelnuovo al Volturno, frazione del comune molisano di Rocchetta, arriva uno scrittore senza nome interessato ad assistere al rito annuale dell’Uomo Cervo. Visitando un museo locale, lo scrittore scopre per caso che Castelnuovo era stata quasi interamente distrutta dall’esercito statunitense, nel 1944, al mero scopo di realizzare un combat film di propaganda: con la scusa di una disinfestazione, le truppe americane avevano sgomberato il paese per poi farlo saltare in aria. I tedeschi se n’erano andati prima del loro arrivo, ma dovendo comunque documentare un eroico combattimento architettare una messa in scena era parsa la via più veloce; altre spiegazioni gli abitanti del paese non le avevano sapute trovare.
Ipnotico e febbrile nella scelta di non inserire mai virgolette per introdurre i dialoghi, creando così sin dalle prime pagine perturbanti sovrapposizioni tra la voce dell’io narrante e quella degli altri testimoni, Una storia vera è un reportage, sì, ma à rebours: sul fronte etnografico, le poche cose che l’io narrante ha a disposizione sono quelli che in gergo tecnico si denotano come sparagmi – i «frammenti di un rito andato perduto ovvero le lacerazioni di una performance non ricomponibile», per dirla con Piergiorgio Giacché. Quello dell’Uomo Cervo è un rito che è stato deliberatamente ripristinato dagli abitanti di Castelnuovo dopo alcuni anni di sparizione, di silenzio delle maschere. E sul tema della riscoperta dei riti, lampante cala una digressione che, nell’accennare a un «mito infestante dell’autenticità» nei paesini dell’Italia rurale, sembra condannare tutto quel vezzo contemporaneo alle messe in scena folkloristiche che nella Notte della Taranta ha trovato la sua incarnazione più nazionalpopolare.
Sul fronte storico si fa ancora più forte la percezione che Una storia vera tenti l’impresa di un reportage “all’indietro”, impresa impossibile anche quando nel finale l’io narrante, finalmente designato come «Nicò» da una battuta di un altro personaggio, si intrattiene a parlare con due testimoni ancora in vita dei tempi di guerra. Ma il passato rimane inattingibile; la guerra resta, per stessa ammissione di chi l’ha vissuta, incomprensibile; il fantasma dell’origine continua a intorbidire le acque. «Sono trascorsi diciotto anni ma il mistero, almeno ufficialmente, continua: gli abitanti di Castelnuovo al Volturno ancora aspettano di sapere perché mai il loro paese fu distrutto, dai cannoncini dei tanks inglesi e americani, il 17 giugno 1944», esordiva un articolo della Domenica del Corriere datato 1961, recuperato dichiaratamente su eBay dal narratore verso la fine del racconto.
Inevitabile è a questo punto l’approdo di Una storia vera a uno status di vero e proprio metareportage, come capita sempre più spesso nella letteratura contemporanea sia a livello internazionale – Mark O’Connell è un maestro in questo, per fare un nome tra i tanti – sia nel panorama editoriale nostrano – e qui Nicola Lagioia con il suo La città dei vivi ha raggiunto un apex di forma e di stile difficile da ignorare, almeno nell’immediato. Questo carattere metaletterario arriva anche a sconfinare in una vera e propria prolessi di ciò che il protagonista dovrà fare, ultimata la ricerca sul campo, per arrivare al libro finito – «la prima cosa che farò, una volta tornato da Castelnuovo a Milano, sarà sgomberare il tavolo del mio appartamento», elenca pedissequamente l’inizio del quarto capitolo, «ci appoggerò il computer, lo collegherò al cellulare e scaricherò le note di testo, le fotografie, i video, i file audio».
Una storia vera lascia poi spiazzati per il suo tessuto narrativo originalissimo e per la commistione tra linguaggi differenti: discorsi indiretti, monologhi interiori, descrizioni fedeli di ciò che il testimone vede, descrizioni ipotetiche di ciò che l’io narrante sente, impossibili catabasi in un passato al tempo stesso storico ma rituale – questi diversi piani si sovrappongono senza pietà nella narrazione calibratissima di Feninno; l’unica certezza raggelante è che «l’infanzia è sempre un miraggio». La stessa maschera del Cervo riaffiora dagli abissi della memoria con un fare atroce e quasi strafottente – «statti attento, la maschera è tiranna, comanda lei» / «ma la puoi deporre» è il dialogo che a un certo punto l’io narrante si immagina con un abitante del posto, dinnanzi al quale in realtà resta muto.
Nel collocare Una storia vera all’interno della tradizione letteraria italiana su questi temi, una trinità benedetta sembra fare da sfondo al microlibro di Feninno: Vittorini, de Martino e, in misura maggiore, Cesare Pavese. La sofferta risorgenza del rito dell’Uomo Cervo nella prima parte del libro avvicina Una storia vera ai momenti migliori de La luna e i falò, laddove il rito dei fuochi, perennemente mancato dal protagonista, fa da cronotopo, da simbolo cangiante della progressiva decadenza di un uomo, di un paese e di una nazione. Gli «astratti furori» autobiograficamente dichiarati dall’io narrante, fino al recupero di un ricordo d’infanzia dell’estate del 1989, sembrano trovare paradossale requie nel duplice ritorno di un rimosso collettivo, che da un lato coincide con il reenactment del rito del Cervo voluto dagli abitanti di Castelnuovo, dall’altro lato viene espiato dall’indagine sull’enigmatico destino post-bellico del paese portata avanti dall’autore stesso. «Il viaggio etnografico si colloca nel quadro dell’Umanesimo moderno come il rovesciamento totale del viaggio mitico nell’aldilà», scriveva Ernesto de Martino nelle prime pagine de La terra del rimorso, gettandosi definitivamente alle spalle la sua precedente esperienza di etnografo da biblioteca. «Non si tratta di abbandonare il mondo dal quale ci sentiamo respinti, ma di una presa di coscienza di certi limiti umanistici della propria civiltà». Eppure la Castelnuovo ritratta da Feninno sembra essere divorata dal suo interno da un inesauribile mistero: senza fondo e senza confini, almeno senza quelli che separano il bene dal male, il presente del passato, Castelnuovo incarna i limiti del reportage come medium, la fatale incomunicabilità di ogni esperienza fatta, l’inevitabile ritrovo dell’io in ogni alterità sfiorata. Chissà perché ritorna alla mente anche il Professione: Reporter di Michelangelo Antonioni, quella storia di un reporter in fuga da sé stesso, dopo che in uno dei suoi ultimi servizi si era visto puntare in faccia dall’intervistato la sua stessa macchina da presa.
«Quasi sempre, quando sei sulle tracce di una storia, fosse pure la tua propria che hai alle spalle, incappi in una voragine, un baratro, qualcosa che non torna», si legge in uno dei passaggi più densi di Una storia vera. «È un vuoto ma vi è ancorato il senso di quello che vuoi raccontare o raccontarti; serve un metodo, una strategia, per non farsi risucchiare». In questa cinosi, in questo abisso della percezione, trova spazio il paradossale equilibrio su cui si muove l’intero romanzo, e si profila un nuovo, inaspettato ritratto della provincia italiana, proteso su un abisso di incomprensibilità radicale – pur sempre un passo in avanti rispetto all’incomprensione in cui l’hanno relegata la letteratura e ancor di più il cinema italiani da non pochi anni a questa parte.
«L’unico modo di sfuggire all’abisso è di guardarlo e misurarlo e sondarlo e discendervi»: è una riflessione vagamente nietzschiana, che si incontra abbastanza presto nel pavesiano Il mestiere di vivere. In un tempo di crisi dei riti, la febbrile introspezione di Una storia vera mette in opera quest’esorcismo.