Pubblicato nel 2015 e vincitore di numerosi premi, Questi capelli è il romanzo d’esordio di Djamilia Pereira de Almeida, edito in Italia da La Nuova Frontiera nella traduzione di Giorgio de Marchis e Marta Silvetti.
Dall’Angola, Luanda, Mila arriva in Portogallo a tre anni con una maglia gialla e una confezione di biscotti. È il 1985: sua madre è africana, suo padre europeo. In un succedersi di reminiscenze, case e paesaggi, Mila racconta la sua infanzia in Portogallo e ripercorre la storia della sua famiglia attraverso quattro generazioni. Ciò che sa delle sue origini lo ha appreso dal racconto dei nonni e dalle fotografie ed è da qui, tra ricordi, diapositive scolorite e collezioni di svariati oggetti, che muove la ricerca della sua identità, imprescindibilmente connessa al racconto dei suoi capelli. Quando la madre le taglia per la prima volta i capelli, Mila ha appena sei mesi. A questo primo taglio ne seguirà un numero incalcolabile: passando in rassegna l’evoluzione delle sue acconciature, dalle frange ai caschetti alle zazzere grunge, Mila parla di sé.
È fin da subito evidente che la storia dei capelli affianca un altro tipo di racconto, più profondo e antico, che condensa un attraversamento di corpi, confini, continenti e periodi storici. Quella dei capelli è una metafora, ma soprattutto un pretesto per dire altro e, per la protagonista, per imparare a dire io.
In bilico tra la sua origine africana e l’acquisita identità portoghese, per Mila i capelli riassumono un senso di non appartenenza e di estraneità tanto dal Portogallo quanto dall’Angola, dunque la complessità di un processo di accettazione che passa (anche) per quello esteriore. Parlare dei capelli e della difficoltà di domarli – il lungo elenco di trattamenti stiranti, capogiri da ammoniaca, acqua bollente, districanti, caschi asciugacapelli e lavandini riadattati – equivale a parlare dell’accettazione di sé. E poiché la particolarità esteriore, in questo caso i capelli, assurge a emblema di un’identità, quello di Mila a un certo punto cessa di essere il racconto del singolo: alla sua storia compartecipano la stessa Pereira de Almeida e tutti i figli della diaspora africana.
Quando nell’84 nonno Castro arriva in Portogallo dall’Angola per curare un figlio nato con una gamba più corta dell’altra, il suo è un volto in un mare di volti. «Non è venuto quindi da immigrato, per lavorare, ma da padre, finendo per rimanerci più del previsto», eppure la sua storia non è dissimile da quelle degli altri malati che arrivano dall’Africa lusofona e vivono dapprima nella pensione Covilhã, accanto all’osteria in cui i vecchi fanno scoprire il ketchup ai bambini, e poi nella periferia urbana. Spesso qui i malati trascorrono anni accarezzando l’idea di una città che non hanno mai visto, «destinati a conoscere del Portogallo solo il mondo da dove sono venuti».
Maria da Luz, la nonna angolana di Mila, da anni paralitica a causa di una trombosi, guarda scorrere la sua vecchiaia da una finestra dietro una collina poco fuori Lisbona, questa città che conosce solo per sentito dire «e che potrebbe essere anche Mosca». Per scongiurare lo stesso esito, d’estate Mila aspetta un bus per allontanarsi da São Gens, una baraccopoli nei dintorni della capitale, e insieme ai cugini ripercorre «quell’itinerario turistico e parziale che allora Lisbona era per noi», un luogo di cui si ha una percezione amputata, un centro che tra gli anni Novanta e Duemila non è che un cantiere di una città non ancora gentrificata nell’accozzaglia di vicoli sporchi, aghi, preservativi e bicchieri di plastica vuoti.
«E che la vita degli abitanti di Lisbona ci fosse vietata, come la nostra lo era per loro, e fossero loro gli invisibili?»
La ricostruzione geografica sorregge quella interiore. La disamina dei luoghi – le gite tra i saloni di Almirante Reis, Sapadores, Oeiras, Senhour Roubado, Odivelas – ricongiunti dal filo immaginario dei capelli è un modo per evocare altri volti, altre storie. Mila ricostruisce l’immagine di un Portogallo, ancora vivida per una certa memoria collettiva e non solo grazie alla vicinanza cronologica, che oltre ai corpi ha marginalizzato anche i luoghi, installando confini tanto tra centri e periferie, tanto tra portoghesi e immigrati. Quella di Mila è una storia che si frammenta in tanti io perché accoglie le storie di altri corpi e altre donne, altre voci e tracce, parrucchiere ed estetiste che condividono le stesse solitudini, aspettative tradite, attività chiuse o trasferite – «le africane si guardano l’un l’altra quando si incontrano nelle strade di Lisbona, scrutandosi a vicenda le acconciature, i vestiti, i fidanzati – e a volte sorridendo».
Da qui un testo d’esordio ibrido, quasi scritto di getto, segnato da più registri narrativi: proprio come i capelli, crespi, ricci e da addomesticare, subiscono i trattamenti più disparati, così nella narrazione si sovrappongono autobiografia, fiction e saggistica – quest’ultima in particolar modo ben visibile nella costruzione sintattica e nella lunghezza dei periodi.
Infine, la lunga riflessione su memoria, origine e luoghi, su come il sé possa districarsi e collocarsi – sotto quale spettro, quale caricatura, quale finzione? – tra mappe topografiche di cui si ha una conoscenza fumosa, imprecisa. Raccogliendosi tra geografie perdute o mai davvero incontrate, ora in Angola, ora in Mozambico, ora in Portogallo, l’incontro con sé stessa avviene gradualmente, man mano che il processo di comprensione e catalogazione viene articolandosi. Al bambino che le chiede come mai le persone attacchino le coperte alla finestra, la protagonista risponde che si tratta di una tradizione; quando il bambino la incalza, chiedendole «e che cos’è?», per Mila scappare da sé non è più possibile.
«Non ho capito che non posso sfuggire al confronto su ciò che sono – anche se ciò che sono è qualcosa che riesco a vedere da una distanza lunga e ingannevole. Ripeto “Io”, “Me stessa” cercandomi in tutta casa in una notte buia. […] Ciò che siamo stati un giorno non sempre ci chiama con grande convinzione ma ha, a volte, la timidezza di una strana parente che sorveglia le nostre conversazioni. […] “Dove ho lasciato Mila?” mi chiedo, come se cercassi le chiavi di casa. “Dove ho lasciato Mila?” Il tempo della ricerca coincide con il tempo della scoperta».
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