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Quella mattina del tre agosto mi ricordai della prima volta che la Giacinta mi aveva irradiato nel cielo buio di Tovalino, e poi tornai assai più indietro, all’esplosione primordiale che generò il cosmo, alla mia nascita e a quella della materia, al caotico mulinello di gluoni, protoni e atomi che divenne la trama di ogni cosa e che ancora quel giorno, dopo miliardi di anni, costituiva ogni lampione del lungomare, e le panchine, le macchine, la Chiesa di Santa Cunegonda e ogni uomo in essa presente.
Come di consueto, anch’io quella domenica esistevo. I lampadari in ottone mi diffondevano in globi dorati assieme alle fiammelle dei lumini elettrici, e i miei raggi dal rosone maggiore attraversavano l’intera navata per riverberarsi sulle canne del Vegezzi-Bossi. Un mio riflesso riluceva anche sul cranio lustro di Igino Farinozzi – seduto dietro l’ambone in una tunica più piccola di lui – e sulle sue dita, che puerilmente riemergevano dai pugni nel conteggio delle entrate settimanali del panificio Farinati Farinozzi, di cui Igino era titolare. Un luccichio rianimava al contempo lo sguardo occhialuto di don Turibio, suo prozio. Il prete ottuagenario era impegnato a manovrare il suo mignolo mucofago affamato di prodotti rinorrei, e intanto proclamava:
«Fratelli e sorelle. Nel giorno ventisei la reliquia del nostro protettore Oronzo attraverserà le piaghe profonde e sofferenti della nostra città e tornerà qui, nella Chiesa Madre. È da tutti noto che la serata conclusiva sia eh… eh… etcì!» starnutì don Turibio, depositando un liquame giallastro in un fazzoletto sudicio, mentre il sindaco Baldassarre Guastallo, adagiato sul primo banco accanto alla moglie Irminia e alla figlia Amalia, cominciava tronfiamente ad annuire.
«… scusate. Dicevo? Ah, sì: niente fuochi, niente fuochi… ehm, no, aspettate, cioè!, dicevo: era usanza, la notte del ventisei…»
Un cicalio pettegolante si diffuse in piccoli focolai a partire dall’ultima fila, afferrando i due “niente” e i due “fuochi” dalle labbra del vecchio e moltiplicandoli come i pani e i pesci, infarcendoli di “Te l’avevo detto!”, speziandoli con “È colpa di Evaristo!”, addentandoli con ammicchi o gomitate d’intesa, deglutendoli con sbuffi di sdegno, finché ognuno non ne fu sazio e il silenzio nuovamente ristabilito.
«Quest’anno la Diocesi e il Comune hanno concordato, su ammirevole appello del nostro sindaco – e lo indicò, e quello annuì – di concentrare ogni sforzo sulle povertà della nostra Tovalino. Pertanto lo spettacolo pirotecnico tradizionale sarà onorevolmente rimpiazzato dalla proiezione dei fuochi di Lecce su un maxi schermo allo Stadio Comunale».
«Nooo!» urlò tappandosi poi la bocca Noè Picciafoco. Era un dodicenne dall’apparecchio lercio e lo sguardo vispo, seduto pure lui in tonaca accanto a Igino. Assieme al suo, tanti altri “no” furono sbraitati nel silenzio delle coscienze.
«Lo sapevo» bisbigliò in seconda fila la vicesagrista Orsola Suffritti alla semisorda Secondina Bellocchio. «Dopo che Evaristo ha smesso hanno provato a chiedere a un’altra ditta, ma costa uno sproposito: cinquantamila euro, una ditta di Fonsacco!»
«Una ditta di tabacco?» berciò l’altra.
Dal terzultimo banco s’alzò in piedi Prospero Altomonte, ormai alle soglie della pensione; scagliò a terra il basco di stoffa che era appartenuto a suo padre, ci sputò sonoramente dentro e uscì dalla chiesa facendo echeggiare i tacchi.
«Preghiamo, fratelli e sorelle, per non entrare in tentazione!» riprese don Turibio. «Per non sentirci Iddio! Vero, signor sindaco? In ogni povero di Tovalino c’è Gesù Cristo in persona, e un giorno lo vedremo in faccia, lo vedremo bene e ce ne chiederà conto. Ora alziamoci. Credo in un solo Iddio…»
Igino Farinozzi alla notizia si pietrificò, le formule della liturgia gli entravano da un orecchio e uscivano dall’altro. Si scordò perfino delle ampolline all’offertorio e di genuflettersi alla consacrazione. A destarlo dal torpore fu il suo vecchio zio prete che gli intimò di seguirlo col piattino per la comunione, mentre il piccolo Noè accompagnava l’altissimo Maffeo Tubini, l’accolito. Sulle note di Gesù di sacro amore acceso frotte di tovalinesi presero a ingurgitare particole dell’ostificio Fratelli Azzimi, e Igino scorse il suo cieco cugino Evaristo nella fila opposta alla sua, accompagnato dalla badante e dal bracco ungherese Predone.
Dannato Evaristo!, pensò il panettiere mordendosi la lingua, sperando che Gesù da lassù non sentisse. Se quell’anno la Giacinta non sarebbe apparsa nel cielo di Tovalino la colpa era proprio di quello scellerato di suo cugino. Per anni era stato lui il titolare della ditta FAF (Fuochi Artigianali Farinozzi), che si era occupata dello spettacolo pirotecnico dacché esisteva il mondo. All’ultimo Sant’Oronzo però Evaristo si era scordato accesa una pupatella ed era rimasto cieco. La FAF così aveva chiuso, e da Fonsacco la LAL (Luci Artistiche Lionetti) aveva tentato slealmente di prenderne il posto, senza però considerare le tasche vuote dei tovalinesi e il loro cuore restio a fidarsi dei forestieri.
Igino notò che il cieco Evaristo, dopo aver ricevuto l’eucaristia, aveva afferrato il braccio intunicato di Noè – da tempo suo fedele aiutante nella notte dei fuochi – ed evitando di un soffio il cero pasquale lo aveva trascinato all’ombra di San Radolfo per bisbigliargli cose oscure.
In quello stesso istante Igino fu come abbacinato. Gli apparì da lontano il medico generale Fulvia Contini Mastaldi, luminosa come Santa Cunegonda, le cui guance immaginava morbide come panetti all’olio e le cui labbra croccanti come una sfogliatella riccia. Lo spaesamento di qualche minuto prima aveva lasciato il posto a una nuova, concentratissima felicità, mentre adesso ammirava l’amata incedere solennemente all’altare per la comunione. E quando fu soltanto a pochi centimetri da lui, non ebbe dubbi: all’amen la dottoressa Mastaldi gli aveva ammiccato con complicità. No, non un tic nervoso o una congiuntivite allergica: gli aveva ammiccato! A lui! Per la seconda volta durante la celebrazione la vista del panettiere si obnubilò, adesso lasciando posto alle immagini del suo ricorrente sogno rosa: notte del ventisei agosto, sul lungomare deserto di Tovalino, lui e Fulvia attendono teneramente avvinghiati l’arrivo della Giacinta, sotto la cui irresistibile luce lui inizia a mordicchiare le sue labbra sfogliatellose. “C’è un tempo per ogni cosa” si ripeteva sempre Igino, ricordando le parole di sua nonna. Era da anni che non assaggiava la bocca di una donna, e il tempo giusto per farlo – ne era certo – sarebbe stato sotto i fuochi di Sant’Oronzo.

Mezz’ora dopo fu Noè in sagrestia a scuoterlo dal sopore. Accanto a lui c’erano anche Orsola, la vicesagrista, e Maffeo, l’accolito.
«Igino!» disse Noè, «svegliati prima che viene don Turibio, presto!»
«Eh? Chi sei?» rispose Farinozzi.
Maffeo lo schiaffeggiò con la sua mano portentosa, e quello subito tornò in sé.
«Prima ho parlato con tuo cugino Evaristo» continuò il ragazzino, «e ti giuro che mi ha giurato su Santa Cunegonda che lui con diecimila euro mette in piedi i fuochi più belli di tutta la storia di Tovalino».
«Ma quello neanche ci vede!» fece Igino strizzando gli occhi un paio di volte per il sonno. 
«Io però sì» continuò Noè, «e tuo cugino ormai mi ha insegnato tutto: gli allacci, gli inneschi, le sequenze. Sono quattro anni che lo tengo d’occhio. Non ti fidi?»
«Igino» intervenne Orsola. «E fidati, no? Un Sant’Oronzo senza fuochi?»
Videro le labbra del panettiere incresparsi, protendersi al cielo in una sorta di bacio disgustato, distendersi in un sorriso e poi, finalmente, schiudersi:
«No! Assolutamente no!»
I tre interlocutori si guardarono ammutoliti.
«I poveri!» ruggì Igino. «E i poveri? Se mio zio Turibio sta con loro, io sto con lui!» concluse, e se ne uscì sdegnato.
«La Giacinta…» singhiozzò Maffeo rincorrendolo fuori, «la Giacinta!» urlò più forte, ma quello ormai era lontano.

Nelle pause dalle delicate mansioni liturgiche, Orsola Suffritti era anche cassiera da Booly’s, multinazionale degli alimentari di proprietà di Mia Booly, la miliardaria che aveva fatto chiudere bottega al vecchio Tesauro Panflani. La notte seguente ai fatti che avevano sconvolto la quiete dei tovalinesi, Orsola decise di rinunciare ai suoi propositi pirotecnici e di prodigarsi interamente per la causa filantropica di don Turibio. O così diceva.
«Ho preso trentadue scatolette di tonno per i poveri!» fece giungendo alla cassa Devota Bellocchio, sorella di Secondina.
«Dio te ne darà merito» rispose solenne Orsola.
«Niente scontrino?»
«Per il banco alimentare? È vietato dal Concilio, non lo sapevi?»
«Ah, certamente!» annuì l’altra. «Allora lascio tutto qui».
«No dammi pure» si offrì la sorridente Orsola con impareggiabile generosità, e la busta finì sotto la cassa, lasciando sempre meno spazio al dondolio delle sue tozze gambette. Ora dopo ora i clienti si susseguivano, e le beneficienze ai piedi della cassiera crescevano e crescevano in volume fin quando, al calar del sole, abbassata la serranda del negozio, ogni mozzarella trasudante, ogni burro cubiforme, ogni serpentello di macinato per i bisognosi ritrovava il suo legittimo posto nei congelatori e negli scaffali, e le tasche di Orsola s’improfumavano di carità.
Anche quel gaglioffo d’un Maffeo Tubini, per catalizzare la presunta raccolta parrocchiale, s’offrì un giorno di scendere in campo con i suoi attrezzi del mestiere. Camminava per strada dall’alto della sua mole, e suonava di porta in porta per sostenere la causa dei cani randagi.
«Ma i soldi non erano per i poveri?» gli chiedevano.
«E i cani? Sono cristiani come noi, no?» rispondeva.
«Creature di Dio!» concordavano, e l’obolo dei tovalinesi cadeva in un cesto con l’immagine di un barboncino maltrattato che sua moglie, Sveva Pietrapirita, aveva ricamato per l’occasione.
«Potrei andare in bagno?» osava poi.
«Come no! Per il nostro accolito!» echeggiavano quelli, e allora con passi ferruginosi giungeva alla toilette. Solo allora, dopo aver controllato dietro la tenda della doccia di non essere in compagnia, estraeva dai calzini chiave inglese e tenaglia e svitava torceva curvava impercettibilmente le tubature sotto il lavello. In un paio d’ore al massimo il sopracitato Maffeo, unico idraulico di Tovalino, sarebbe stato di nuovo a casa di quelli per complicatissimi ed esosissimi lavori antiallagamento.
Igino Farinozzi, dal canto suo, non pensava ad altro che alla Mastaldi e alla Giacinta. Se per la seconda s’era forse messo l’anima in pace, per la prima nutriva ancora una lievitante speranza. Era lì a infornare pucce e rosette rievocando la visita mattutina della Fulvia che gli aveva trambustato l’anima e la mattinata. La sua bella gli aveva rivelato di voler donare al banco alimentare di Orsola tutti gli straordinari da guardia medica di quel mese. E Igino, sempre più rapito dalla bellezza e bontà della donna, e punto sul fianco dalla spina dell’avarizia, decise di non voler essere da meno. In un lampo sfornò l’idea con cui avrebbe conquistato l’amore e salvato i poveri. A coadiuvarlo fu Eusebio Clemente, il farmacista. Insieme sminuzzarono manciate di pasticche lassative Liquidyn nell’impasto di ogni farinaceo del panificio, obbligando nei giorni successivi orde di tovalinesi dal colon ammansito a intasare le linee telefoniche del Centro Salute.
«Euro duemiladuecentocinque» contò Noè il ventiquattro agosto in sagrestia davanti a Maffeo e Orsola. «Con questi neanche gli inneschi compriamo».
Si alzò con la busta dei soldi e sbuffò sonoramente.
«È finita. Vado a dirlo a Evaristo. I botti li spariamo l’anno prossimo».
«E i soldi?» chiese Orsola.
«Li porto al prete. Meglio che buttarli via».
«E la Giacinta?» chiese Maffeo, che non sapeva dire altro. «La Giacinta!»
«Ce la vediamo in tivù» disse Noè. E uscì.

Già dalle ore diciassette del ventisei agosto, giorno di Sant’Oronzo, ognuno dei settecentoventidue tovalinesi – inclusa la novantatreenne Galatea Mastrogallo, trasportata lì su un lettino – occupava uno dei settecentocinquanta posti dello Stadio Comunale Arnoldo Bonichetti. Erano tutti lì per assistere all’afosissima sfida di inizio stagione tra la Tovaliana F.C., in lizza per la vittoria del titolo, e il mediocre Fonsacco, annaspante da anni nelle sabbie mobili della retrocessione. Ma attendevano soprattutto la proiezione dei fuochi che ivi avrebbe avuto luogo alle ore ventuno.
Sugli spalti c’era anche Igino. In vita sua non aveva mai scommesso un soldo, ma quel pomeriggio aveva deciso di affidarsi alla fortuna ed era già con le lacrime agli occhi dal pentimento. Il suo sguardo umido rimbalzava tra l’inconcepibile ricevuta della Metti&Vinci – che dava per vittorioso il Fonsacco – e il piccolo Noè, che sulla tribuna opposta distribuiva pane e salsiccia al prete e al sindaco. Ingannando l’attesa con la disperazione, il panettiere sentì i suoi patemi alleviarsi solo quando gli si manifestò innanzi un limpido segno della volontà divina: Fulvia Contini Mastaldi, con la sua pelle profumata di pane caldo, si sedette accanto a lui.
«Tutto bene Igino?»
«Bene» disse soffiandosi il naso. «Un po’ emo… emozionato per la serata».
«Come sei dolce» rispose lei, e gli parve che ammiccasse. «Per un attimo pensavo stessi male anche tu con lo stomaco. Trentacinque telefonate, questa settimana! Un’epidemia!»
«E Spartaco come sta?» chiese lui.
Spartaco Bonifaci, storico portiere della Tovaliana, era il suo fidanzato.
«Bene! Gli ho dato una montagna di anti-lassativi, oggi sarà una saracinesca vedrai».
E le lacrime di Igino ripresero a scendere più copiose.
Le squadre nel frattempo erano entrate in campo. La Tovaliana, in divisa rossoblù casalinga, allenata dal rodato Ulisse Pierantoni, era schierata col consueto 4-3-3: Bonifaci; Tobercoli, Ramin, Costato, Mastaldi; Pierozzi, Gudende, Zotti; Tonescalchi, Lonelic, Aspartago. Della formazione del Fonsacco invece, in tenuta bianca da trasferta, nessuno conosceva i nomi.
Nel brioso parlottare degli spettatori, l’arbitro emise il fischio d’inizio. Neanche sedici secondi e già Costato aveva lanciato dalla destra un traversone velenoso: spizzata di testa di Lonelic e rete all’angolino basso: 1-0. La platea si scompose in un moderato applauso. Appena due minuti dopo, Aspartago partì in volata da centrocampo: dribbling a un idraulico e a un carpentiere del Fonsacco, conclusione principesca con cucchiaio al portiere: 2-0. Poi fu il turno di Tonescalchi, al 13’: siluro sotto la barriera dai venti metri per il terzo gol.
La gente ormai cianciava distratta dell’inizio dei fuochi di Lecce, quando arrivò anche la sfilata d’onore di Spartaco Bonifaci. Era appena il 26’ e l’audace portiere, salito sfrontatamente dalla sua area su calcio d’angolo, compì una sforbiciata acrobatica imprendibile per il professore di geografia che difendeva la porta avversaria.
Dopo il quarto gol i giocatori della Tovaliana improvvisarono un pigro torello nella loro metà campo, memori delle parole del presidente Suriano Interstizi: «Non ne fate più di dieci».
La prima frazione di gioco era intanto terminata nella sonnolenza generale. Al rientro dagli spogliatoi molti si stupirono di vedere uscire dal campo Tonescalchi e Pierozzi per dare spazio a due giovani esordienti. Si vociferava ci fossero stati problemini fisici di ignota natura, ma nessuno diede rilevanza alla questione. La partita infatti era ripresa con lo stesso imbarazzante squilibrio tecnico che aveva preceduto l’interruzione. Al 10’ del secondo tempo la nebbiolina dell’inquietudine cominciò ad aleggiare tra le maglie rossoblù quando il coach Pierantoni fu costretto a sfruttare anche il terzo e ultimo cambio: Costato, colto da fitte infernali allo stomaco, non poteva continuare.
«Ma che succede?» chiese Fulvia turbata.
Nella confusione del momento, un calzolaio del Fonsacco aveva fatto rimpallare un pallone che, con deviazione e rocambolesco rimbalzo, aveva trovato impreparato Bonifaci violando la rete di casa: 4-1. Non passarono nemmeno cinque minuti e anche Lonelic e Tobercoli uscirono dal campo strisciando: l’inferiorità numerica tovalinese portò un barista fonsacchese, ritrovatosi sbigottito in un quattro contro due, a infilare un piattone in rete e ad accorciare le distanze. Di scarso fair play si trattò anche poco dopo, mentre Ramin a terra ululava di dolore e una nuova palla s’infilava sotto la traversa della Tovaliana: 4-3.
Al gol Fulvia si alzò di colpo:
«È il virus! È il maledetto virus!» cominciò a sbraitare, ma nessuno la ascoltava: tutto lo stadio, eccetto la tribuna d’onore con prete e sindaco, adesso era in piedi in trepidante eccitazione. Anche Igino lasciò il suo posto e ora guardava accorato la ricevuta della Metti&Vinci: duemiladuecentocinque euro scommessi sul Fonsacco, quotato 5:1 per la vittoria. Era stato proprio Noé, mezz’ora prima della partita, a recapitargli i soldi:
«Mi manda tuo zio Turibio» gli aveva detto. «I poveri a Tovalino sono così tanti che il vecchio ha pregato per la grazia. Il Signore gli è apparso in sogno nelle vesti di Giuseppe Merlazza» il famoso calciatore canonizzato «e gli ha detto di costruire per lui una casa a Fonsacco». Don Turibio, facendo due più due, aveva capito di dover scommettere tutto sugli avversari.
«E perché io?» era scoppiato in lacrime Igino, terrorizzato dall’adempimento alla volontà divina.
«Tuo zio è un prete, e io ho solo tredici anni: ti pare che mi fanno scommettere?»
Così aveva accettato, e mai e poi mai avrebbe potuto credere che all’85’, in undici contro sette, il Fonsacco avrebbe trovato il pareggio.
Nei cinque minuti finali l’assalto fu totale: Spartaco Bonifaci, imbottito di farmaci stitici, era l’ultimo spartano a difendere quelle Termopili da torme di neorinvigoriti fonsacchesi con tuffi a destra, sinistra, in alto e in basso, rilanci lunghissimi e temporeggiamenti strategici ai limiti del giallo.
«Non mollare amore!» gridava Fulvia.
E come se la cercasse tra i settecentoventidue volti, Bonifaci prese a scrutare scrupolosamente tra gli spalti e, intercettato lo sguardo di Vittore ‘Bulldozer’ Torristano, capo dell’omonima cosca, comprese ciò che andava fatto. All’89’ Gudende, impaurito dall’assedio, improvvisò un retropassaggio rasoterra. Fu allora che, ammaliato dalla seducente palla rotolante verso di lui sull’erbetta, Bonifaci prese la rincorsa, caricò il destro per il rilancio lungo, chiuse gli occhi e… la lisciò.
Palla in rete. Sorpasso del Fonsacco.
L’intero stadio – eccetto don Turibio, il sindaco e tredici sbalorditi fonsacchesi nel settore ospiti – esplose in latrati di giubilo, strette calorose (qualcuno calpestò felicemente la maglia della Tovaliana) e tutti, o quasi, oltrepassarono le reti divisorie e invasero il terreno di gioco, costringendo il terrorizzato Bonagiunta Scarpelli di Brindisi a emettere il triplice fischio.
Igino, adesso in lacrime di gioia, si voltò da Fulvia. Non ci sarebbero stati i fuochi, pensò, nessuna Giacinta a far brillare il cielo: “È questo il tempo” gli avrebbe detto sua nonna. Intravedendo la sua bella ammiccare di nuovo, infiammato da uno sconosciuto vigore, la prese tra le braccia e la baciò: addentò quelle labbra sfogliatellose, e superandone la resistenza con la lingua cercò la ricotta e l’arancia candita, ma fu fermato da un dolore lancinante ai testicoli.
«Spartaco! Spartaco!» urlò Fulvia dopo il calcio mortale, scappando verso il campo.
Con Igino paralizzato, mentre nella bolgia i tovalinesi avevano preso il corpo inerme di Bonifaci e lo lanciavano in alto come un sacco di tritello, don Turibio corse al microfono e sbraitò:
«Sileeenzio!»
Tutti tacquero, e come l’uomo della Genesi al settimo giorno, cessarono ogni loro attività.
«Il gol non è valido! È una truffa, è tutta una…»
Il consacrato sbiancò di colpo, le sue pupille si dilatarono e la fermezza sul suo volto si tramutò in un ghigno sofferente. Tutta Tovalino lo vide piegarsi in due sulla pancia e poi fuggire ai bagni a braccetto col sindaco.
Così come s’era interrotta, la baldoria riprese: in mezzo al caos il maxischermo cominciò a trasmettere le riprese di Lecce, dove tutto era ormai pronto per dare il via ai fuochi. Dalla distanza Igino scorse Noè stringere la mano di Vittore Torristano e, dopo pochi minuti, arrivare da lui. Il ragazzino gli diede un buffetto sulla guancia e disse:
«Sei buono Igino, sapevo che ci avresti aiutato».
«Che ho fatto?» chiese quello, rintontito.
«Settantatré» sorrise Noé. «Avete scommesso in settantatré sul Fonsacco!».
Udendo quel numero esorbitante, Igino si affrettò per andare a ritirare la vincita, ma Noè lo fermò per un braccio.
«No» gli sorrise. «Aspetta».
Il maxischermo e ogni faro dello stadio si spensero in un buio colossale. Le grida di prima si tramutarono in respiri. Proprio allora, in quel silenzio immotivato che accresceva la paura dei tovalinesi, un botto rimbombò sul mare. Tutti allora capirono, ulularono di stupore e scesero in strada.
E ritornai.
Igino e Noè guardavano il mare dalla gradinata quando abbracciai il cielo vestita di pioggia tremolante, e poi fui salice dorato per Maffeo e Orsola in strada, fui serpenti blu, verdi e gialli negli occhi di Interstizi e del burbero Panflani, fui gigli e peonie lucenti sulle lacrime di Prospero Altomonte, stelle e cascate per mister Pierantoni e Aspartago, iridescenti code di cavallo per la Bellocchio in braccio al farmacista, e poi lance e meteore per la vecchia Mastrogallo sul lettino spinto dall’arbitro Scarpelli.
Fui il buio nello sguardo di Igino su Fulvia e Spartaco, fui il tempo che non fu quando avrebbe dovuto essere.
Fui il buio negli occhi di Evaristo mentre raggiungeva il cugino sugli spalti assieme al furbo Predone.
«Ho una sola domanda, Noè» chiese Igino.
«Dimmi».
«Se voi due siete qui, chi sta badando ai fuochi?»
Ma non ci fu tempo per rispondere, perché accadde.
Con un bagliore primordiale rischiarai i tetti e le strade, e fui regina del cielo. Gli occhi dei tovalinesi tremolarono increduli davanti a quel mezzogiorno serale, e si dischiusero a contemplarmi senza timore, anche quando ogni cosa prese a sussultare come in un terremoto. Era Lei che mi aveva liberato, Lei che a Tovalino i bambini conoscevano fin dalla nascita e che i vecchi, sul letto di morte, ricordavano col sorriso. Lei, che mai nessuno avrebbe potuto fermare.
Poi fu il silenzio, e applausi scroscianti per la fine dei fuochi. Il suono inconfondibile riecheggiava ancora nelle orecchie di Evaristo, che in quel momento sfilò dal portafoglio la foto di una donna che non poteva vedere e la diede al cugino.
«Era lei, vero?» balbettò.
Igino riconobbe sua nonna, Giacinta Bugigassi. Il suo nome era ormai impresso in quel botto che in un ventisei agosto lontano, a ottantatré anni e ottantatré chili, le aveva arrestato il cuore.
«Sì. Era nonna».
Gli occhi velati di Evaristo si inumidirono. E quando tutto sembrava finito, una nuova Giacinta mi sprigionò dalle altezze oscure e Noè urlò:
«Hanno scommesso in tanti…» boom! «… te l’ho detto! Per fortuna…» boboom! «… Bulldozer…» boboboom! «… ha anticipato i soldi!»
Due, tre, poi cinque giacinte fendettero l’aria e la notte, e la gente cominciò a rintanarsi sotto le palme e dietro le macchine, con urla e applausi e inciampi e nuove corse, mentre i pompieri arrivarono e le loro sirene strombazzavano in coro con gli antifurti delle macchine, e qualcuno ululava «Gli elicotteri! Gli elicotteri!», ma mai nessun elicottero avrebbe volato in quel caos di fumo e luce immacolatissima che inghiottiva le tenebre e faceva credere che mai altro buio sarebbe esistito.
E infine un colpo scuro, un secondo, un terzo.
Cessai di brillare in cielo per tornare ai fanali delle camionette dei vigili, alle timide insegne dei bar e delle farmacie, al baluginio dei lampioni, piccoli astri superstiti di quel big bang estivo in cui era riapparsa a tutti la Giacinta.


In alto: foto di Kevin Davison / Unsplash.

One Comment

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