Sono tempi, politicamente parlando, assai sconclusionati. La coalizione di centrodestra vince le elezioni, ma nel centrodestra una destra vince davvero, un’altra destra perde, e il centro vivacchia sotto il 10%. Il centrosinistra perde, e quando il centrosinistra perde, perde di brutto, su tutta la linea. Il terzo polo esiste, nessuno lo sopporta ma esiste, anche se praticamente è un terzo polo diviso in due, e i due poli del terzo polo fra loro non si sopportano. Il quarto polo è a cinque stelle, con un 15% di consensi che sono la metà di quelli ottenuti alle precedenti elezioni e il doppio, o il triplo, di quelli accreditati fino a qualche mese fa. Tutto il resto: non pervenuto. E in questi tempi sconclusionati, politicamente parlando, tempi di rotture e parricidi, di prime donne e ultime spiagge, di dio, patria e famiglie, al plurale, verrebbe voglia di cambiare inno nazionale e sostituire il Canto degli Italiani di Mameli con Povera patria di Battiato. Dopodiché, retorica per retorica, scegliersi come nume tutelare chi la patria, povera o no, l’ha messa su. Anche se, ammettiamolo, anche a numi tutelari siamo alquanto scarsi.
«Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato. Queste furono le sue ultime parole. Qualche minuto dopo, giovedì 6 giugno, alle ore sei e tre quarti del mattino, due deboli colpi di rantolo tosto repressi ci fecero conoscere, che senza soffrire, senza agonia aveva reso l’anima a Dio». Chi scrive è Giuseppina Alfieri, che così racconta la morte dello zio in una lettera a William de la Rive. Lo zio è il conte di Cavour, personaggio controverso come tutti i governanti di questo paese, osannato come grande statista o, all’opposto, stroncato come «perfetto e inutile buffone» di Battiato. Nel suo Diario di uno scrittore Dostoevskij annota: «l’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour» anche se, aggiunge, «che cosa ha fatto il conte di Cavour? Un piccolo regno di secondo ordine, che non ha importanza mondiale, senza ambizioni, imborghesito». La povera patria, appunto. E Angelo Brofferio, feroce oppositore al governo del conte, scrive: «Nuocevangli il volume della persona, il volgare aspetto, il gesto ignobile, la voce ingrata» (Storia del parlamento subalpino).
Insomma, per alcuni Cavour è il grande tessitore, il vero artefice dell’unità d’Italia; per altri il diabolico maneggione, la mano fredda e assassina che manda i soldati del regio esercito a sparare contro i volontari di Garibaldi, la faccia tirata che bolla l’unità d’Italia come «una grossa corbelleria», la faccia che sorride mentre rivendica il merito di aver unificato l’Italia, la faccia che resta impassibile di fonte ai peggiori intrallazzi. La faccia come il culo.
In un certo senso le idee di Cavour, la sua vita e anche la sua morte, paiono l’anticipo sul conto, salatissimo, che ci viene presentato in questi tempi. Tempi, politicamente parlando, assai sconclusionati.
E infatti al Quirinale non esiste statua, busto, quadro, di Camillo Paolo Filippo Giulio Benso conte di Cavour. O meglio, non esisteva. Perché poi, nel 2010, e precisamente il 6 giugno, cioè il giorno della morte del conte, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano esprime il desiderio di poter avere al Quirinale una bella statua di Camillo Benso. E così viene commissionata un’opera in marmo di Carrara all’artista torinese Fabio Viale. E siccome non siamo nel Rinascimento – quando i blocchi venivano estratti dalla cava, trasportati fino alla bottega dell’artista e poi lì scolpiti a forza di scalpello, gravina, raspa e lima – siccome siamo nell’era dei social e anche del marketing e della comunicazione, tanto per cominciare viene pubblicizzato sui media un casting per trovare il sosia di Cavour. A venire selezionato è un coltivatore di albicocche di Nîmes, scelta casuale ma incredibilmente azzeccata vista la passione del conte per fertilizzanti e concimi naturali, che poi gli varrà la nomina a Ministro dell’Agricoltura nel governo d’Azeglio. Cioè, per capirsi, è come se fra cent’anni, volendo fare un monumento a Gianni De Michelis, ammesso e non concesso che qualcuno ricordi ancora Gianni De Michelis e sempreché sia ancora concepibile l’idea di fare monumenti, l’artista incaricato scegliesse come modello un disk jockey.
Comunque, dopo il casting si procede alle misurazioni fisiche del coltivatore di albicocche così da raccogliere i dati da inserire nel programma informatico della macchina che sbozzerà il marmo di Carrara. Per il rilievo del volto, invece, si prende in prestito l’opera di Saverio Pellegrini, artigiano della premiata ditta Paoli & Barsotti, incaricato, nel giugno 1861, di realizzare la maschera mortuaria di Cavour.
Cavour infatti muore il 6 giugno ma la sua agonia inizia già il 29 maggio, un mercoledì. È in quel giorno che comincia a star male. A dire il vero c’è chi retrodata l’inizio dell’agonia al 18 aprile dello stesso anno. Quel giorno si tiene una burrascosa seduta nell’aula del parlamento a Palazzo Carignano. A un certo punto, fra i ministri in elegante abito nero e i militari in alta uniforme, compare Garibaldi, che non veste di nero e nemmeno indossa l’alta uniforme ma sfoggia, fra lo scandalo generale, la camicia rossa e il celebre poncio grigio, e si potrebbe anche dire che è quella la sua alta uniforme.
Comunque, durante la seduta si doveva parlare della sorte dei volontari reclutati dal generale e dei 7000 graduati che non sono stati integrati nell’esercito regolare. Ovvio che Garibaldi prenderà la parola. Quando tocca a lui, nel silenzio generale, si rivolge direttamente al conte, l’altro padre della patria: «Dovrei narrare fatti gloriosi, che vennero offuscati quando questo ministero fece sentire i suoi malefici effetti, quando l’orrore di una guerra fratricida provocata da questo stesso ministero…» Non può continuare. L’aula esplode, Cavour salta in piedi, paonazzo, le vene gonfie sul collo, e comincia a gridare parole che, per fortuna, nessuno capisce.
Ecco, sono in molti a pensare che questo accesso di rabbia incontrollata abbia minato in modo irreversibile la salute di Cavour. Dopo un mese o poco più, infatti, lo statista rientra a casa stremato: «Non ne posso più» dice al domestico, «ma bisogna lavorare egualmente, il paese ha bisogno di me; forse questa estate potrò andare a riposarmi in Isvizzera presso dei miei amici». Anche questo dialogo è riportato nella lettera della nipote. E ciò che colpisce non è tanto la dedizione al lavoro e la convinzione che l’Italia abbia bisogno di lui (tutte da dimostrare), quanto il desiderio di passare le vacanze estive in Svizzera, come un borghese qualunque. E Cavour non è un borghese qualunque. Intanto è nobile, è un conte, appunto, di Cavour, di Cellarengo e di Isolabella. In quel momento, poi, è anche presidente del consiglio. Eppure la sua vacanza ideale è in Svizzera. Chissà, gli orologi, l’aria buona, il cioccolato… in effetti è un appassionato del bicerin, bevanda torinese a base di cioccolato, servito nell’omonimo locale dove ha un tavolo sempre pronto. Un altro tavolo è riservato al Ristorante del Cambio, vicino alla parete a specchi, lo stesso da tredici anni. Il ristorante è di fronte a palazzo Carignano. Se c’è una questione urgente, un commesso si avvicina alla finestra, fa un cenno e il conte abbandona finanziera, agnolotti, scaloppine e carciofo in salsa, tutti piatti rigorosamente tramandati «alla Cavour», e rientra in parlamento. Il suo appetito è notorio. «Nostro figlio è un ben curioso tipo» scrive in una lettera il padre Michele alla moglie, «anzitutto ha onorato così la mensa: grossa scodella di zuppa, due belle cotolette, un piatto lesso, un beccaccino, riso, patate, fagioli, uova e caffè. Non c’è stato modo di fargli mangiare altro!». Una descrizione che si accompagna perfettamente ai ritratti che gli vengono dedicati: occhialino tondo, barba a collana, giornale sottobraccio e pancia prominente. Un’icona per tutte le stagioni, adatta ai musei del risorgimento, alle piazze delle città, alle monete da due euro, ai blocchi di marmo di Carrara. Soprattutto, l’archetipo da cui sembrano discendere tutti i «forchettoni» della Prima Repubblica.
E infatti il nome di Cavour non è l’unico ad accompagnare piatti della cucina tradizionale italiana. Un’intera classe dirigente è finita nei menu della ristorazione. Le ricette «Prima Repubblica», per dire, sono numerose. In onore di Vittorio Sbardella – romanissimo democristiano di rito andreottiano – gli spaghetti aglio, olio e peperoncino vengono rivisitati in ajo, ojo e Campidojo. Più a nord, alle feste dell’Unità, si spadella la trippa alla Bettino, a cottura lenta e con abbondanza di lamelle. I bucatini all’amatriciana si affermano come piatto prediletto di Andreotti, il Divo Giulio, e condividono il premio della giuria a Cannes con le altre sequenze del film di Sorrentino. Demitiano è qualunque piatto a base di caciocavallo podolico dei monti irpini, immancabile souvenir offerto in dono ai visitatori della dimora di Nusco. La zuppa di cozze alla napoletana è anche nota come zuppa alla Gava, sotto la cui dinastia Napoli deve fronteggiare un’epidemia di colera causata, appunto, dal consumo di cozze. In quel momento Silvio Gava è ministro e il figlio Antonio deputato. Quando l’epidemia finisce, il primo è ancora ministro e l’altro sempre deputato. Tanto da commentare: «Il colera passa, i Gava restano». Gli risponde Enzo Biagi: «Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno». E si potrebbe continuare a lungo col menu «Prima Repubblica», fino ad arrivare alla meravigliosa inversione semantica della ricetta Pomicino, padre orgoglioso dell’emendamento vol-au-vent, farcito – in tempi di finanziaria – con ingredienti a piacimento: sovvenzioni per sagre di paese, sussidi all’ente locale, stanziamenti per il cimitero, aiuti al santo patrono.
Tornando al 29 maggio 1861: il conte si sente male, malissimo e bisogna chiamare immediatamente un medico. Il rimedio, com’è tipico per quei tempi, è un salasso. All’apparenza sembra anche funzionare, tant’è che il malato si rimette a lavoro. Alla nipote, che lo rimprovera e cerca di tenerlo a riposo, ripete: «Il Parlamento e l’Italia hanno bisogno di me». E probabilmente le parole sono autentiche, nonostante da giovane non lasciasse ben sperare. «Lo studio m’annoia, che ci posso fare?» si lamenta. Di fronte alla prospettiva di mettersi seduto a fare i compiti protesta: «M’ammazzo col coltello e mi butto dalla finestra». Ai rimproveri di chi lo invita a farsi un bell’esame di coscienza reagisce seccato: «Questa dannata coscienza che non ha niente da rimproverarsi».
Nel 2003 Fabio Viale, futuro autore della statua di Cavour destinata al Quirinale, vara una piccola barca lunga due metri e mezzo e larga poco più di un metro. Nulla di eccezionale, non fosse che è realizzata in marmo e pesa 250 chili. Titolo dell’opera: Ahgalla. Cinque mesi, racconta l’artista, per trasformare il marmo, carico di preconcetti sulla pesantezza, in un materiale così leggero da galleggiare. In generale è questa la cifra di Viale: lavorare il marmo per renderlo qualcos’altro, una sostanza soffice, malleabile, la gomma di uno pneumatico, la carta di un sacchetto o di un rotolo, il tessuto di un burqa, il polistirolo di un imballaggio, la plastica di un tassello per viti a pressione, la pelle tatuata di una Venere.
E la statua di Cavour? La statua di Cavour, a grandezza naturale, è anch’essa leggera, per nulla massiccia, forse perché non è destinata al catafalco monumentale di una piazza e poggia i piedi a terra senza basamento, o forse perché ostenta un sorriso serafico, il sorriso di un uomo alleggerito della propria coscienza, «questa dannata coscienza che non ha niente da rimproverarsi». Forse perché, ma qui è pura supposizione, a dispetto della committenza presidenziale, la retorica della statua viene usata in chiave anti-retorica e un po’ dadaista: non per celebrare il grande politico ma, al contrario, il perfetto e inutile buffone.
Sabato 1° giugno 1861, visto che la febbre è tornata, si ricorre a due nuovi salassi, ma le condizioni del presidente del consiglio continuano a peggiorare. «È strano» dice in un momento di lucidità, «non so più leggere, non posso più leggere.» E il 3 giugno, rivolgendosi al medico: «La mia testa si confonde ed ho bisogno di tutto le mie facoltà per trattare dei gravi affari; fatemi salassare; solo un salasso può salvarmi». Poi: «Ho sofferto assai negli scorsi giorni, ora non soffro più, ma non posso lavorare, né porre insieme due idee; credo che la sede del male sia la mia povera testa». A detta del senatore liberale Michelangelo Castelli: «Egli morì vittima della concentrazione continua delle idee e della costruzione del suo enorme cervello». Per il medico Alessandro Riberi la morte è arrivata per via di «afflussi di sangue alla testa, conseguenza delle troppe fatiche mentali».
Cavour, lo sanno tutti, combatte da tempo con la malaria, che ha contratto nelle risaie di famiglia a Leri. Da questi resoconti, però, sembra sia morto di mal di testa, per il troppo lavoro. Sul quotidiano torinese L’Opinione, nell’edizione del 7 giugno 1861, si legge: «Una malattia misteriosa, che non è stata definita, e che ora era detta infiammazione intestinale, ora congestione cerebrale, ora febbre intermittente o tifoidea, ora accesso di podagra, l’ha rapito all’Italia, al Re, agli amici ed ai parenti…». Una malattia misteriosa. Pare di leggere un copione: il potente che muore, la nazione che si dispera perché lo considera un benefattore, poi qualcuno allude a circostanze poco chiare, crescono i sospetti, cominciano le dietrologie e il basamento su cui è stato collocato il nume tutelare comincia a sgretolarsi. Qualcuno ha anche il coraggio di scriverlo: il conte sarebbe stato avvelenato e l’assassino potrebbe essere una donna, la signora R.
La signora R è la signora Ronzani, Bianca Ronzani, ballerina magiara dall’oscuro passato, moglie di Domenico Ronzani, impresario teatrale dalle fortune alterne, fuggito in Sud America quando gli affari colano a picco. Già amante di Vittorio Emanuele II, Bianca ha tutto quello che piace a Cavour: è giovane, brillante, estroversa, ha capelli nerissimi, naso greco, denti bianchi. E, soprattutto, è sposata. Condizione per lui imprescindibile. Non lo si direbbe, ma il nume tutelare è un seduttore seriale. Clementina Guasco di Castelletto, Emilia Gazzelli di Rossana, Melanie Waldor, Anna Giustiniani, tutte rigorosamente sposate. E così pure Bianca Ronzani, alla quale fa visita la sera del 29 maggio 1861. Assetato, le chiede un rinfresco, poi torna a casa e si sente subito male. Il rinfresco era avvelenato? E perché?
Martedì 4 giugno l’intera città di Torino è ormai al corrente della malattia di Cavour. Il mattino dopo padre Giacomo Poirino, parroco di Santa Maria degli Angeli, la parrocchia della famiglia Cavour, lo confessa e lo assolve dai suoi peccati. Verso le nove arriva il re e il conte fa un discorso tutto sgangherato in cui parla dei napoletani, dell’Istria e del Tirolo, della Germania e dei prussiani, dell’America e della guerra civile. Poco dopo comincia ad agonizzare. Padre Giacomo gli dà l’estrema unzione e lui, in uno sprazzo di lucidità sibila: «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato».
Questa storia, in perfetta coerenza con il Paese in cui è andata in scena, ha un epilogo grottesco. Il povero Padre Giacomo viene convocato in Vaticano. Il 24 luglio deve presentarsi al cospetto del papa. Quel giorno Pio IX gli ricorda che Cavour era stato scomunicato e perciò, per essere confessato, comunicato, assolto e per ricevere l’estrema unzione avrebbe dovuto ritrattare e chiedere perdono per aver messo in discussione il potere temporale della Chiesa. «Noi, custodi della santa disciplina della Chiesa vogliamo udire da voi medesimo la relazione» dice Pio IX (La Civiltà Cattolica, 1° settembre 1861). La risposta ci arriva dal racconto autobiografico del diretto interessato: «Santità, mi perdoni, a fare tale dichiarazione non posso senza tradir la mia coscienza ed infamar me stesso, epperciò sono pronto a soffrir ogni cosa, anche la morte, piuttosto che cedere».
Padre Giacomo viene sospeso a divinis e immediatamente privato della carica di parroco di Santa Maria degli Angeli. Muore il 30 settembre 1885. Il potere temporale della Chiesa è crollato da 15 anni, assieme alle mura di Porta Pia. Libera Chiesa in libero Stato. Uno stato che avrebbe dovuto affondare da tempo e invece, a dispetto dei tempi sconclusionati, politicamente parlando, galleggia. Come una barca di marmo. O peggio.