Una questione di prospettive
Stefano Bonazzi ha già all’attivo due romanzi con Fernandel (L’abbandonatrice, 2017, e A bocca chiusa, 2019), un graphic novel insieme a Vittorio Santi (La strage dell’Italicus, Becco Giallo 2019) e ha illustrato diversi testi di autori italiani e stranieri. Con Titanio, pubblicato quest’anno per Alessandro Polidoro, Bonazzi torna a parlare dei temi che già abitavano le sue prime opere: le periferie disagiate, la famiglia disfunzionale e, in generale, gli elementi che vanno a comporre la cornice nella quale emerge il male. Francesco – da tutti conosciuto come Fran – è un ragazzino cresciuto in una famiglia che nulla ha di normale, all’interno di un complesso di edifici periferici denominato la Ciambella che, se nella teoria doveva consentire al quartiere l’autosufficienza, nella realtà si è trasformato in un incubo a cielo aperto, crogiolo di povertà, delinquenza e spaccio.
Da lettori affianchiamo Alan, l’educatore a cui il ragazzo è stato assegnato, che racconta in prima persona il susseguirsi delle sedute. Insieme a lui cerchiamo di scoprire la storia di Fran, dall’infanzia fino alla prima adolescenza. Nel fare ciò, seguiamo anche i ragionamenti di Alan, le sue analisi, le sue deduzioni, attraverso una scrittura lineare ma totalmente soggettiva. I capitoli dedicati a Fran sono affiancati ad altri nei quali un uomo, appena ripresosi da un incidente mortale, si ritrova paralizzato in un letto e viene medicato da una misteriosa infermiera dai tratti confusi. Questa parte – che potrebbe apparire una sottotrama ma è invece strettamente connessa con la prima – è scritta invece in terza persona, con uno stile paratattico composto da frasi brevi e un’aggettivazione leggera («L’uomo si sente esausto, di uno sfinimento che pare il respiro ultimo del mondo. Ha aperto gli occhi. Non ha fatto altro»). Le due vicende si alternano per tutto il romanzo e, come ci si aspetta, solo nel finale trovano il proprio punto di intersezione.
Ma andiamo con ordine. Dalla prima vicenda, quella legata a Fran, sappiamo che qualcosa di terribile è accaduto e che il resoconto del ragazzo aiuterà le forze dell’ordine a fare chiarezza sui fatti. Sappiamo anche che Fran è un narratore inaffidabile, propenso alla menzogna o alla ricostruzione falsata degli eventi: insieme ad Alan il nostro compito è quello di discernere la verità dalla falsità e attribuire, laddove possibile, le colpe e i meriti della sua educazione disastrata. E anche sapendo questo, quelli che leggiamo sono i pensieri e le supposizioni di Alan, quindi la storia arriva al lettore attraverso due strati di soggettività: prima la narrazione parziale e inaffidabile di Fran, poi l’interpretazione che ne dà Alan, altrettanto parziale («Fran era intelligente, più di qualsiasi altro ragazzo lì dentro. Da prassi, le mie interviste si sarebbero dovute limitare a un giorno al mese, una cosa impossibile per la situazione in cui ci trovavamo. Ne fui felice. Quel ragazzo mi affascinava. All’inizio era solo quello»).
Fran infatti si presenta subito come una vittima. Figlio di un padre criminale e di una madre anaffettiva, costretto sin dalla tenera età a spacciare l’erba coltivata dai genitori per rifornire i tossici locali, per il ragazzo tutto questo è la normalità: riferendosi ai giorni trascorsi insieme all’amica Stella, Fran dice «Può sembrare assurdo, lo so. Due ragazzini che passano le giornate a spacciare, cosa ne sanno dell’amicizia. Ma noi ci stavamo solo divertendo. Non era così strano, era la nostra realtà, la nostra vita, con le nostre regole». Cosa è la normalità, dopotutto, se non ciò che ci accade ogni giorno?
Spacciare, sopportare le sparatorie che avvengono fra bande rivali: questa è la normalità di Fran. Il male diviene consuetudine, una consuetudine in cui rientrano anche gli abusi e gli insegnamenti familiari, pur percepiti come qualcosa di non piacevole. Come Fran si ritrova a dire al suo educatore, «I mostri li avete inventati voi. Siete voi che avete bisogno di una spiegazione. Vi servono dei cattivi che siano solo cattivi. Bianco o nero. Così è più facile». Fran comprende che non tutto è bianco e non tutto è nero, vale a dire che c’è del bene anche laddove il male alberga. L’affetto per Stella, ad esempio: una ragazzina anch’essa vittima di violenze, con la quale Fran si ritrova a vivere il primo amore. Ma anche l’affetto per lo zio Pietro, fratello del padre, che mostra al giovane nuove prospettive di vita non solo inesplorate ma persino inconcepibili, come l’idea di indossare una camicia («Neanche l’avevo mai toccata una camicia») o delle scarpe nuove («come non avessero mai messo piede oltre il bordo di un marciapiede»).
Accanto alla narrazione relativa a Fran troviamo la seconda, quella relativa alla guarigione dell’uomo paralizzato. Se la storia di Fran ha trovato ampio spazio in questo articolo, quella dell’uomo misterioso è stata sottaciuta. I motivi sono due. Il primo, più semplice, è che questa parte di trama trova meno spazio nel libro. Le pagine dedicate a Fran stanno a queste altre in un rapporto di circa 8 a 1, senza contare che, mentre da un lato abbiamo una storia ricca di dettagli e a noi lettori sta l’arduo compito di discernere la verità dalla menzogna (o dall’omissione), dall’altro lato ciò che troviamo è un percorso ricorrente se non ridondante: all’uomo misterioso non accade quasi nulla nelle due o tre pagine a lui dedicate, e noi stessi siamo spettatori passivi della sua frustrazione, che condividiamo soltanto nel tentativo di capire cosa di fatto stia accadendo e come questo tratto di narrazione si legherà, prima o poi, a quello che sin dall’inizio è percepito come conflitto principale.
Il secondo motivo, più complesso, è legato proprio al finale. Quando le due strade si congiungono e arriviamo a scoprire cosa lega Fran all’uomo paralizzato, l’effetto è calmierato dal fatto che la storia è già conclusa e tutto ha già perfettamente senso così com’è. In altre parole: la trama dell’uomo paralizzato non aggiunge nulla, o quasi, alla storia del protagonista, e la sensazione che si ha è che quel poco che aggiunge avrebbe potuto essere affrontato diversamente.
Un dilemma millenario
Nell’esergo scelto da Stefano Bonazzi per Titanio, lo sceneggiatore e regista norvegese Eskil Vogt afferma: «Puoi dire che un bambino fa una cosa cattiva, ma puoi dire che un bambino è cattivo? Si sta ancora sviluppando, sta raccogliendo empatia, compassione e morale. Almeno si spera». È un’introduzione perfetta per il romanzo che andremo a leggere, perché ne racchiude esattamente il tema: la speranza che il male non intacchi il bambino che è ancora nella fase dello sviluppo, così che questo possa crescere come un adulto, se non buono, quantomeno responsabile delle proprie scelte. Per essere ancora più brevi, però, potremmo dire che il romanzo di Bonazzi si concentra su un tema ancora più annoso (e spinoso): il male.
Il tema del male è onnipresente nella storia umana e guadagna ancora più importanza con la nascita del cristianesimo, nel quale diviene indispensabile far convivere due elementi per loro natura antitetici: da una parte un Dio onnipotente e perfetto, causa prima del mondo, creatore increato e padre di tutto ciò che è buono (nel proto-cristianesimo troviamo tanta cultura greca: il Dio cristiano ha elementi ricorrenti che vanno da Platone a Plotino, passando per il motore immobile di Aristotele); dall’altra abbiamo l’inequivocabile segno del male nelle azioni umane. La domanda è lecita: se l’uomo è creatura di Dio (anzi, è stato creato proprio a sua immagine e somiglianza, secondo il famoso passo della Genesi: 1, 26-27) allora anche Dio è malvagio? Ovviamente no, risponde il principale padre della Chiesa, Agostino d’Ippona: il male non deriva da Dio, anzi in verità non esiste proprio, non ha una sua natura ontologica; l’uomo, dotato di libero arbitrio, sceglie volontariamente di operare il male quando sceglie di non dirigersi verso il bene di Dio, ossia di allontanarsi dal proprio creatore.
Il male sarebbe insomma una scelta: scegliere di non seguire il bene di Dio. È una risposta confortante, a ben pensarci, perché vuol dire avere una bussola morale, un luogo (fisico e spirituale) verso cui dirigersi sempre, soprattutto quando si è persi.
Uno sguardo più laico e contemporaneo fornisce invece un quadro meno rassicurante. Senza addentrarci troppo in labirinti che ci porterebbero lontani, possiamo vedere che molte delle nostre scelte e molto di quel che siamo lo dobbiamo all’ambiente in cui siamo cresciuti e a quel che ci circonda. Non si tratta di un determinismo tout court ma è inevitabile pensare che il contesto in cui si nasce e cresce influenzi il percorso di ognuno di noi, aprendo alcune porte e chiudendone molte altre sia in termini di possibilità per il futuro (consideriamo le difficoltà che incontra chi vuole proseguire negli studi senza avere una famiglia supportiva alle spalle) sia in termini di esperienze quotidiane.
In questa commistione di buono e di malvagio, perdere la bussola morale è un attimo. Fran sembra intuirlo appena, mentre Alan, l’educatore esperto in ragazzi problematici, ne ha piena consapevolezza. Che Fran sia un narratore inaffidabile si è detto ma non è chiaro se, come anticipato, le sue siano menzogne, ricostruzioni falsate o tentativi di autoinganno. Quel che noi lettori possiamo fare è seguire le vicende nel gioco perverso costruito da Bonazzi. Seguiamo l’evolvere delle vicende di Fran, fra giornate al mare con Stella e un viaggio inaspettato con lo zio Pietro. Tutto sembra quasi idilliaco, ma le premesse non mentono; anzi, persino i personaggi che paiono positivi si rivelano – soprattutto nel finale spiazzante – corrotti e decisamente anomali.
Leggendo l’ultima pagina di Titanio non ci si può non soffermare con amarezza sul dubbio posto in esergo da Eskil Vogt: puoi dire che un bambino è cattivo? Proprio qui dove la storia di Bonazzi termina, inizia lo spazio della riflessione. L’autore non dà alcuna risposta, né sembra essere intenzionato a fornirla. Quella che appare come «L’ennesima storia di ragazzini traumatizzati e genitori malati», come afferma lo stesso Fran, diviene per tutti – per Alan l’educatore ma anche per noi lettori – uno spunto per indagare i limiti della moralità.