Materiale naturale allo stato fuso.
Si trova all’interno della crosta terrestre
e contiene diverse fasi cristalline e componenti volatili.
L’estate degli incendi, che fu anche l’estate della varicella e quella del bradisismo, quando le scosse di terremoto ci svegliavano nel cuore della notte, Alessio e io rimanevamo spesso a casa da soli. Papà era un pompiere e combatteva le fiamme dagli elicotteri per tutto il giorno, la mamma invece lavorava in un panificio e tornava solo a ora di pranzo per portarci dei cornetti. Avevano deciso che ormai ero grande abbastanza per stare dietro a mio fratello, e d’altronde non c’erano tante altre soluzioni.
Non stavamo mica male noi due da soli. Avevamo a disposizione un giardino sterminato dove rincorrerci e fare delle guerre d’acqua all’ultimo sangue. Ogni tanto un rombo squarciava il silenzio del pomeriggio, e il frinire delle cicale si zittiva per un attimo. Allora io e Alessio dichiaravamo una tregua e ci guardavamo, temendo che il boato venisse dalla pancia terrestre. Oppure, alzando gli occhi al cielo, nell’aria bollente e densa di fumo cercavamo di scorgere il volo degli elicotteri dei Vigili del Fuoco che si calavano verso il mare del golfo per rifornirsi di acqua. Immaginandoci papà ai comandi che riconosceva il nostro giardino, ci sbracciavamo per salutarlo.
Vivevamo di fronte alla Solfatara, un vulcano che si vede a stento. Dalla strada che la costeggia sembra soltanto una distesa di terra arida. Ma non fatevi ingannare dalla forma del cratere e delle pendici. Questa è la prima cosa che insegno ai miei studenti del corso di vulcanologia: per comprendere l’umore di un vulcano dovete osservare il chimismo del magma, la quantità e il tipo di gas. Siamo abituati a pensare alla loro potenza come a qualcosa che ci sovrasta, un cataclisma che incombe dall’alto. Non è sempre così.
Noi che vivevamo nella caldera dei Campi Flegrei non davamo un’importanza particolare alla Solfatara. C’erano altri trenta coni vulcanici simili sparsi lì attorno, tutti nati all’interno dei resti di un antico, gigantesco vulcano, distrutto da una sua stessa eruzione spaventosa. I miei genitori non ne parlavano. A scuola non si nominava neppure. La Solfatara era una cosa di poco conto, come tutto ciò che abbiamo davanti agli occhi da sempre. Io per esempio non ci ero mai stato e in realtà non ci si poteva nemmeno più entrare a causa di una storia che
ormai nessuno ricordava più. Forse fu guardandola dall’esterno, dalla recinzione in ferro, che dentro di me era nato un classico meccanismo infantile: il divieto che genera curiosità, la curiosità che diventa ossessione.
Percepivo la presenza ignea della Solfatara, specialmente quando c’era Scirocco e la puzza di anidride solforosa faceva capolino insieme ai getti gassosi delle fumarole. Per anni ho associato il vento caldo allo zolfo, e ancora oggi, ovunque mi trovi, quando spira da sud-est mi aspetto di sentire quell’odore demoniaco, che per me è un po’ odore di casa e un po’ presagio di sciagure.
Il liquido solforoso e tiepido con cui riempivamo le pistole dalla pompa aveva lo stesso odore delle emissioni gassose delle fumarole. I miei ricordi di quell’estate però sono nebbiosi, confusi dal velo di cenere che al mattino ricopriva il terrazzo. Bruciavano le colline intorno a noi, e gli odori, i fumi e i calori si confondevano nell’aria rovente di luglio; il vento afoso alimentava il fuoco degli incendi, il cui fumo si fondeva con quello delle effusioni vulcaniche ingrigendo e infuocando il cielo e la terra e i colori estivi.
La notte sentivo mamma e papà che parlavano in camera da letto. Lui era stanco e si lamentava dello Scirocco. Se avesse continuato a soffiare, non sarebbero mai riusciti a domare gli incendi. Dalla finestra di camera mia s’intravedeva il bagliore violaceo delle fiamme nel cielo della notte, e la mattina avevo il compito di spazzare via la cenere dal terrazzo.
Un giorno Alessio si svegliò con delle crosticine e ben presto i nostri corpi si ricoprirono di piccole pustole.
Non era più tempo di lotte acquatiche. Dopopranzo, quando la mamma ci lasciava nuovamente, sfiancati dal caldo e dalla varicella, ci chiudevamo in casa, abbassavamo le persiane e ci dedicavamo ad attività interne. Ad Alessio piaceva stendersi a pancia sotto a disegnare squali e fondali marini, mentre io preferivo esplorare lo studio di papà: era una vera miniera, pieno di oggetti strani ed enciclopedie. In un libro trovai l’immagine di una montagna con la pancia infuocata. Scoprii allora che a volte i vulcani sono porte per accedere agli inferi, e anche il perché a scuola ci prendevano in giro che puzzavamo di uova marce. E questo non era niente. Il più delle volte, un’eruzione è anticipata da uno sciame sismico. Questo significava che la caldera che ci ospitava non era affatto morta e che avrebbe potuto riattivarsi da un momento all’altro?
La notte raccontavo tutto questo ad Alessio, sotto le coperte, come se fossero storie di fantasmi. Gli raccontai del Krakatoa, che nel 1883, per la quantità di ceneri che emise nell’atmosfera, cancellò l’estate per un anno; del Vesuvio, che con una valanga incandescente seppellì un’intera città di pomici.
«Anche la Solfatara è pericolosa?» mi chiese Alessio. Non riuscivo a vedere il suo volto ma sapevo che era spaventato.
«Può diventarlo, penso».
«E se tipo erutta di notte mentre dormiamo e domani mattina siamo circondati dalla lava?».
Ci pensai su per un po’, mentre lui già progettava una via di fuga con l’elicottero di papà.
«Le eruzioni non sono così frequenti» gli dissi. «Adesso si trova in uno stato di quiescenza». Mi chiese cosa significasse. «Significa che sta dormendo, come dovresti fare anche tu».
Ma io non riuscii a dormire. Non ho mai creduto in Dio. I miei pensieri di quella notte, però, non sono mai stati più simili a delle preghiere. Pregavo che il vento si calmasse, che gli incendi si placassero e che la caldera continuasse il suo riposo.
Glielo avevo proposto una sera, prima di addormentarci. L’unica soluzione era controllare da vicino.
Il momento migliore, in cui avremmo trovato meno traffico e non ci avrebbe visto nessuno, era dopo pranzo. Aspettammo la controra con ansia, grattandoci le croste e dicendoci a vicenda di non farlo. Il pomeriggio era bollente. L’aria era immobile e grigia e la cenere ci imbiancava i capelli. Attraversammo la strada e l’asfalto rovente ci squagliò le suole delle scarpe. La recinzione non era alta. Ci intrufolammo all’interno della Solfatara senza nessun problema. Ci eravamo portati dietro dell’acqua e qualche merendina. Uno zaino grande per me e un marsupio per lui.
Appena scavalcammo la recinzione ci ritrovammo davanti una landa giallastra e fumante. Sembrava di essere sulla luna. Ricordo l’assenza di piante e di uccelli, il silenzio solenne che ci circondava e il caldo, che non veniva dall’alto, non era il sole che pure batteva sui nostri corpi pieni di croste.
Alessio indicò il bordo della distesa di polvere bianca, dove le nubi di gas si innalzavano dalla Terra in getti densi e acuti, finché il vento le disperdeva. Ci incamminammo sul terriccio argilloso lungo un sentiero segnalato a stento. I nostri passi erano sordi, sotto di noi sembrava esserci il vuoto. L’afa e la puzza di zolfo diventarono quasi insopportabili. Eravamo nel bel mezzo di un cratere, ma questo, nonostante le mie letture, non potevo ancora saperlo. Dovevo aver già capito però come funzionano i vulcani, e che le esalazioni solforose sono acide e a temperature elevatissime.
Ai nostri fianchi, delle piscine di fango ribollivano ammalianti e minacciose come un fungo colorato. Nei pressi delle fumarole, costellazioni di minerali di ogni tonalità brillavano nell’umidità delle brine sulfuree. Sembravano fragili e bellissimi. Veniva voglia di toccarli, ma dalle fessure nella roccia il vapore che ne usciva era bollente.
E poi ho un vuoto, un minuto opaco in cui m’incantai a guardare i cristalli verdi di dimorfina, così simmetrici nelle loro forme prismatiche, un solo minuto, prima di accorgermi che attorno a me non c’era nessuno. Mi guardai attorno, provando a fendere la nebbia di gas con il mio sguardo. Alessio non era più lì.
Lo chiamai una prima volta, ma la mia voce sembrava perdersi. Le mie urla venivano catturate dagli sbuffi del vulcano, finché restai senza voce e un tramonto invisibile, mascherato dall’aria sporca, incombeva sulla caldera in fiamme.
Dissero che mio fratello doveva essere stato risucchiato da una buca vulcanica, una cavità in cui deve essere caduto allontanandosi dal sentiero. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Se non hai sentito le sue urla non ha sofferto, mi ripetevano i miei genitori, come se potesse consolarmi. Come se potesse impedirmi di grattarmi le croste. Mi ripeto il mantra di continuo, come se possa cancellare le cicatrici della varicella con cui convivo da sempre.
Per anni ho pensato che mio fratello potesse essere ancora da qualche parte, finanche a nuotare nella camera magmatica dei Campi Flegrei. Adesso che conosco le viscere della Terra so che non è mai stato possibile.
Anche nei racconti le apparenze ingannano. Se è vero che ogni storia è al tempo stesso una realtà e una finzione, la forma ci serve solo a camuffarne il confine. Del resto, se non si potesse mentire, a cosa servirebbe raccontare?
Pensandoci un attimo, è piuttosto facile smascherare le mie menzogne. Per prima cosa, con mio fratello inghiottito dalla Terra in un cratere, come avrei potuto fare dei vulcani la mia vita?
Questa non è l’unica bugia. Ce ne sono tante altre, ma andiamo per gradi: innanzitutto non ho mai avuto la varicella. Mi sono venuti gli orecchioni qualche settimana fa, mentre scrivevo queste righe e capivo che ormai di mio fratello non mi resta altro che una manciata di ricordi mescolati. I miei linfonodi sono ancora ingrossati.
La Solfatara esiste davvero, naturalmente, ma da bambino vivevo in un appartamento al quarto piano e gli unici odori che arrivavano fin lì erano i cornetti sfornati dal panificio al piano terra. La casa dal grande giardino era la casa di mia nonna. L’odore di zolfo lo associo a lei, e ancora oggi ha il potere di tranquillizzarmi.
Le storie che raccontavo ad Alessio la notte parlavano di dinosauri. E se un Velociraptor entra in casa mentre dormiamo e ci mangia nel sonno? Lui aveva davvero paura, così presto la smisi e gli chiarii cosa voglia dire estinguersi.
Mio fratello, che non si chiamava Alessio, non è mai caduto in quella buca vulcanica. Abbiamo visitato la Solfatara guidati da nostro padre – era lui, non io, che insegnava vulcanologia – mentre ci spiegava il significato della parola quiescente.
La biblioteca di mio padre era piena di libri scientifici di geologia su terremoti e tettonica a zolle. Non li ho mai letti, ma ho ascoltato i suoi racconti tante volte, per cui tutte le informazioni sui vulcani che troverete dovrebbero essere corrette. Almeno in parte. La crisi bradisismica di cui parlo in effetti c’è stata davvero, ma era il 1982, quando io non ero ancora nato. Ho inserito i terremoti per rendere l’atmosfera più inquietante. Forse non ce n’era alcun bisogno. L’ultima cosa che volevo era rinforzare le immagini con un ulteriore artificio. No, non ce n’era affatto bisogno.
Oggi la Solfatara non si può visitare. È sotto sequestro da anni, da quando un bambino è stato risucchiato da una cavità che si è aperta improvvisamente nel sottosuolo. Nel tentativo di salvarlo, sotto gli occhi del fratello più grande, sono morti anche i suoi genitori. Il fratello rimasto orfano si chiama Alessio. Loro quattro erano entrati pagando il regolare biglietto d’ingresso.
Da bambini, mio fratello mi ha sempre seguito in qualunque sciocchezza gli proponessi, ma non ho mai messo a repentaglio la sua vita. Tranne una volta, quando siamo rimasti da soli a casa della nonna e ci siamo arrampicati sul tetto per vedere le fumarole della Solfatara. Mio fratello si sporse oltre il parapetto e rischiò di cadere giù. La paura la ricordo ancora oggi. Anche quel giorno c’era Scirocco.
Fin da piccoli, entrambi siamo sempre stati attratti dalla dimensione verticale del mondo. E anni dopo l’abbiamo riscoperta in direzioni opposte. La nostra vita è piena di tacche altimetriche e batimetriche: a separarci un divario che aumentava sempre di più. Io mi arrampicavo per la sensazione di libertà, lui si tuffava trattenendo il fiato per i misteri degli abissi.
Non li ha mai scoperti del tutto. Mio fratello è annegato lungo le pendici di un’isola vulcanica mentre pescava in apnea. Il vulcano si chiama Stromboli e ha un carattere per lo più pacato ed effusivo – nonostante la sua forma aguzza di lava nera. Come continuo a ripetere, l’apparenza delle forme è ingannevole. In vulcanologia, i colori tipici dell’esplosività sono il bianco, il giallo, l’arancione e al limite il verde, che caratterizzano gli ambienti acidi. La presenza di lava, di per sé, è la componente meno rischiosa. Le eruzioni dello Stromboli sono frequenti e si può andare a osservarle da vicino senza particolari pericoli. I suoi fondali sono molto pescosi ma anche ripidi, costituiscono le pendici del vulcano che proseguono sottacqua quasi a strapiombo.
Mentre era disperso in mare, mi sono immaginato i piloti degli elicotteri della Guardia Costiera che avvistavano mio fratello in acqua. Lui che si sbracciava dalla superficie per farsi vedere. È un’immagine che non si è mai avverata, per quanto io avessi cominciato a pregare.
Negli afosi giorni di luglio che hanno seguito la sua morte, lo Scirocco ha spazzato la città per giorni e gli incendi hanno bruciato quasi 2000 ettari di bosco e macchia mediterranea. La notte sentivo i pianti di mia madre dalla mia camera da letto. Mio padre provava a consolarla. Le diceva che un giorno sarebbe riuscita a domare il dolore. Uscivo sul balcone a prendere aria e il fumo mi bruciava la gola. Si dice che la vegetazione impiegherà almeno trent’anni per riprendersi. Il tappeto di fuliggine che si formava per terra, sotto i miei piedi scalzi, era tiepido. La cenere si è accumulata sul nostro balcone per giorni prima che mi decidessi a spazzarla via. Le ceneri e i lapilli di un’eruzione vulcanica esplosiva invece possono creare uno strato spesso decine di centimetri, in grado di far collassare i solai degli edifici.
Sott’acqua, arrivati a cinquanta metri, le lunghezze d’onda ultraviolette non riescono a penetrare oltre. A quelle profondità vengono assorbite solo alcune frequenze luminose. Già dai quaranta metri si comincia a vedere tutto verde, mi raccontava mio fratello. Il suo corpo è stato recuperato sui fondali marini intorno allo Stromboli a una profondità di circa cinquantacinque metri. Questo significa che mentre gli mancava l’aria e perdeva i sensi vedeva tutto verde.
Quando si muore sott’acqua non si soffre, mi hanno detto fino a convincermene. E io continuavo a ripetermelo, ma non bastava a togliermi dalla testa tutto quel verde.
Lo Stromboli è una sorta di iceberg. La sua sommità arriva a novecentoventisei metri di altitudine, ma il suo edificio vulcanico continua fino a due chilometri sotto il livello del mare. L’anno scorso, in un tramonto d’estate, l’ho scalato per la prima volta. Di norma bisognerebbe salirci con una guida, ma io ho scavalcato le transenne e mi sono inerpicato da solo sul sentiero. In cima, invece di affrettarmi verso la vetta in attesa dell’eruzione e dello spettacolo di zampilli di lava, mi sono fermato alcuni metri più in basso a guardare verso ovest, verso il mare aperto. Ho tirato fuori il thermos e ho bevuto un sorso di tè, dopo averne offerto anche alla lava nera.
Aspettavo il momento esatto in cui il sole si sarebbe tuffato oltre l’orizzonte. Intanto, sopra di me, il magma raggiungeva le bocche sommitali dello Stromboli, fuoriusciva nell’atmosfera trasformandosi in lava. Non mi sono girato, sono rimasto concentrato sul piano orizzontale, e per un attimo l’ho visto. Un raggio verde che colorava il confine del mare, al limite estremo del mio sguardo.
In alto: foto di Alex Rose / Unsplash.
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