Everything Everywhere All at Once è un simpatico mashup – di ragguardevole/eccessiva lunghezza – che prende elementi da vari cult fantascientifici anni 2000 e li mischia senza pensare troppo alle conseguenze. C’è tutto: nostalgia pop, mondi paralleli, drammi famigliari, drammi sociali, combattimenti kung-fu, potere dell’amore, citazioni disneyane, sassi con gli occhietti di plastica, bagel-buchi neri, e altre gustose assurdità.
C’è dentro Matrix, Guida galattica per autostoppisti, si fa l’occhiolino a Cloud Atlas senza dimenticare Interstellar.
Una signora di mezza età cinese immigrata negli Stati Uniti si trova in difficoltà finanziarie con la sua lavanderia; il marito sta pensando di chiedere il divorzio, il padre è in arrivo dalla Cina per il suo compleanno, la figlia vuole farle accettare la sua relazione con una ragazza. Mentre sta andando negli uffici governativi per controllare la contabilità ed evitare l’esproprio della lavanderia, il marito improvvisamente cambia personalità e le rivela che lei è la persona prescelta per riportare la pace e l’equilibrio in tutti i mondi, messi in subbuglio dalla creazione di un bagel-buco nero creato dalla villain di turno: una ragazza (la figlia) che per qualche ragione ha lasciato che il proprio io si ricongiungesse a tutti gli io di tutti i mondi possibili, rendendole possibile fare praticamente qualunque cosa.
Nonostante si provi a strutturare il film in tre capitoli, l’impressione è che non ci sia una forte narrazione di base; ci si lascia attrarre dall’esplosione di idee, e a un certo punto il racconto sembra sfilacciarsi; è lasciato come moncone fino quasi alla fine, in uno stato di sospensione della narrazione che lascia il posto al turbinio di idee e possibilità.
Ma se in Guida Galattica questa stessa impressione acquista valore di realtà effettiva, rendendo la narrazione una consapevole maschera atta a nascondere il dio della non-causalità, qui la ricerca di una morale stride con il caos di immagini e universi possibili. Si tratta, in fondo, del dramma di una madre che non riesce a capire la figlia, e il finale emotivo e pacificante raccoglie in sé tutto questo stridore. Un finale che chiede una struttura narrativa a sorreggerlo, struttura però negata nelle due ore precedenti. Alla fin fine, questa esplosione di colori e idee dà l’impressione di un tutto che nasconde il niente.
A ben vedere, nella problematica sembra annidarsi qualcosa di più profondo. Non è chiaro quale teoria del multiverso sia qui rappresentata – se quella quantistica o quella cosmologica – ma da alcuni indizi (ad esempio la vita da star della protagonista nell’universo in cui avrebbe scelto di non emigrare dalla Cina), il film sembra riferirsi alla pseudo-teoria degli infiniti universi generati dalle nostre scelte, versione fraintesa e popolarizzata della soluzione trovata da Hugh Everett III al problema del collasso della funzione d’onda. Senza entrare nel dettaglio, per sfuggire al problema di una particella che normalmente ha gli infiniti valori possibili che può avere ma dopo essere stata misurata ne ha uno e uno soltanto, Everett teorizzò che nel momento della misura, si generavano infiniti universi paralleli con tutti i valori possibili che la particella avrebbe potuto avere. Nella sua popolarizzazione ha trovato però spazio con il concetto di “scelta” che non ha nulla di deterministico, ma che anzi pone al centro il soggetto e il libero arbitrio – concetti più filosofici che scientifici (anzi: una scienza intesa come ontologia assoluta, dovrebbe logicamente riconoscere il libero arbitrio come non esistente).
Certamente il film non ha pretese scientifiche ma usa il multiverso con intenti ludici, morali e narrativi. Però, la facilità con cui si sacrifica la narrazione al caos degli universi, e l’altrettanta facilità con cui si ricorre a una morale pacificante, pone l’attenzione sull’utilizzo maldestro della scienza; non tanto all’interno del film, quanto nel nostro immaginario collettivo, nei nostri tentativi di ordinare del mondo.
Quello che sembra nascondere quest’idea è un’intima necessità di dare un sostrato scientifico, e quindi obiettivo, alla propria morale poetica, e quindi soggettività, racchiudendoli entrambi in un’unica visione. Ma questi entrano giocoforza in conflitto, e ne fuoriescono soltanto quando uno arriva a fagocitare l’altro. Nascono così una poetica pervertita o una scienza allucinata, che sfuggono entrambe al loro senso e scopo.
È lo stesso principio che porta branche del New Age a voler ricercare una prova scientifica dell’aura, o a integrare le teorie quantistiche in visioni mistiche e/o alchemiche. O è motore similare a chi cerca una prova scientifica di Dio o del libero arbitrio.
Matrix, da questo punto di vista, ignora il problema: rende palese sin da subito il suo impianto filosofico; nel seguire la triade nietzschiana – Morte di Dio / Eterno Ritorno / Superuomo come colui che, unico, accetta i primi due – la macchina e la sua scienza assumono una parte subalterna, simbolica, che non necessita di veridicità o di verosimiglianza proprio perché è chiamata a rappresentare, non a essere in sé.
Anche Guida Galattica, come detto, sfugge al problema proclamando una poetica di totale obiettività. Il soggetto viene privato di spessore, diventa riproducibile, irrilevante (spassosamente interessante, a questo proposito, è la parte del libro in cui si descrive la pena di morte inflitta a Zaphod: entrare in una macchina che mostra il tuo reale posto nell’universo, un nulla che non può fare altro che distruggere il soggetto). È una poetica del comico annullamento, che nel finale del film si fa pure beffe di una morale pseudo-disneyana.
Chi cade invece nella stessa trappola – e in modo, se vogliamo, ancora più clamoroso – è Nolan con il suo Interstellar. La sottesa morale dell’amore, come forza ultima che muove le cose, unita alla maniacale ricerca scientifica, crea un universo dogmatizzato dall’io, antropocentrico, dove tutto – incluso il mondo esterno, al di là della nostra percezione – è sottomesso al soggetto.
Ma che soggetto è quello che esce da questa ossessiva lotta contro l’obiettività? Cosa guadagna – se guadagna qualcosa? Cosa perde?
Il problema di queste visioni è che devono passare da una sovrapposizione ontologica tra soggetto e oggetto. C’è un momento in cui le due istanze sembrano avere la stessa forza, la stessa capacità di dire: io sono. Se l’obiettività scientifica ha un peso sul soggetto, ma questo dallo scontro ne esce infine vincitore, deve inevitabilmente subire un mutamento. Elaborando il concetto di nuda vita, Agamben sottolinea la tendenza della cultura contemporanea a dare valore solo all’aspetto fisiologico, misurabile, che spoglia la vita dalle qualità soggettive e “umanistiche” che pure le appartengono. Ecco quindi che il soggetto, nel confronto paritetico con l’obiettività, ne esce allo stesso modo: nudo.
Il nudo soggetto è il soggetto che fagocita l’obiettività esterna, pur avendo necessità delle sue regole per poter dire: “io sono individuo”. È una morale intimista incastonata in una dimensione esterna, oggettiva, che per poter sopravvivere crede – a torto – di doverla piegare alla sua volontà.
Ma se la vita, svelata in tutto, ridotta al puro dato, ha ancora un suo distorto senso, il soggetto no. Nel momento in cui il soggetto si denuda è ridotto a dato, ed essendo il dato pura obiettività non lascia spazio al soggetto. Nella sua ricerca di esistenza, il nudo soggetto finisce per scomparire. Per evitare ciò deve cessare di pensare, di sentire, e deve aggrapparsi con tutto se stesso al dogma. La verità data, immutabile, intoccabile, è l’unica cosa che permette al nudo soggetto di essere.
Il nudo soggetto è l’ossessivo e puerile mantra che ripete instancabile: io voglio essere il mondo, il mondo devo essere io.
In questa prospettiva, scienza e poetica diventano due entità compatte, assolute, anti-organiche. Hanno l’aspetto e la materia di verità assolute, senza alcuna appartenenza se non a se stesse; diventano quindi dei dogmi a cui si può – e deve – sottostare, scegliendone uno. Ma se invece li provassimo a osservare nella loro natura relativa, cioè come enti creati e appartenenti all’uomo, ecco che qualcosa cambierebbe. L’apparenza granitica si sgretola: le due entità sono comprese all’interno di un organismo più complesso: diventano quindi organi. Seguendo la traccia heideggeriana dall’etimo di οργανον, sono dunque strumenti incorporati nell’organismo che ne fa uso, senza pretese di assoluto ma mettendosi al servizio dello scopo loro prescritto.
Ecco che, da questa premessa, non c’è più necessità che le due istanze poetica/scienza si sovrappongano, non c’è più necessità che una si pieghi o fagociti l’altra.
È quello che rappresentano il fisico e il poeta che accompagnano lo stalker nel film di Tarkovskij: due strumenti in perenne conflitto che si trovano infine d’accordo solo sul mettere fine al luogo che rappresenta lo scopo della vita del protagonista.
La scienza, in questa visione, ha quindi lo scopo di guidarci verso una realtà obiettiva, sensibile, mentre la poetica – e, per estensione, l’arte – ha quello di guidarci verso la realtà soggettiva, invisibile.
Quello che provano film come Interstellar o Everything Everywhere All at Once è creare uno strumento ibrido che sappia guidarci in due direzioni opposte, ma che non può far altro che lasciarci lacerati. Non che non possa esistere uno strumento che unisca le due realtà – invisibile e sensibile –, ma poetica e scienza sono state create con altri scopi. Ogni strumento ha in sé solo gli scopi per il quale è stato creato. Come le strane invenzioni dell’inserviente di Scrubs (lo smokaccino o il coltellochiave): cercando di unire più strumenti in un’unica chimera allo scopo di sfruttarne ogni aspetto, si crea un qualcosa di perfettamente inutile, quando non dannoso.
Malgrado la possibile soluzione, questi film fanno riflettere. Sono sintomo del bisogno di convalidare la poetica impiantandola in un apparato scientifico; come se, da sola, un’idea poetica non fosse abbastanza per sopravvivere. Ed è da questi presupposti che il soggetto viene denudato.
Viviamo nel mito dell’identificazione della verità scientifica con la verità, visione che sottrae valore tanto alla poesia quanto alla scienza. In fondo è come se ci fosse da una parte un’incapacità di staccarsi da un mondo che impone lo spettro positivista della razionalità, dall’altra il bisogno semplicistico di trovare una formula universale della vita senza per questo sacrificarsi sull’altare del dato. Sembra quasi manchi l’accettazione della perpetua esistenza – dal momento in cui nasciamo – di due istanze separate e opposte che dialogano incessantemente tra loro: io e il mondo. Soggetto e oggetto sono due necessità antitetiche ma coesistenti, e ciascuna richiede i suoi propri strumenti per essere compresa. Laddove queste due necessità sono confuse, una delle due istanze è destinata a soccombere.
Il nudo soggetto, quindi, non è altro che lotta infinita e disperata tra il terrore di sparire e quello di ritrovarsi estranei a se stessi.