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Con l’uscita del suo ultimo romanzo, vorrei soffermarmi sul precedente testo prodotto da Francesco Pecoraro, Lo stradone, che pone il problema della storia personale di un individuo come parabola distonica rispetto alla storia generale della collettività. Una storia soggettiva che entra in un contrasto irrisolto con gli eventi nei quali è costretto, suo malgrado, a vivere. Questa forma di prosa, definizione sulla quale tornerò in seguito per tentarne una classificazione, intende contestare il malinteso interpretativo sulla presunta fine della storia ma, al tempo stesso, vuole affermare la sconfitta del tentativo di modificazione del reale perché la soggettività, illudendosi di partecipare ad una collettività, non è stata in grado di contenere il conflitto.
Questo testo, pur apparentemente iscrivendosi ad una nuova tendenza che vede l’io narrante sempre più strabordante, si pone in contrasto con ogni altro romanzo assolutorio e giustificatorio del fallimento nel presente. La questione del soggettivismo dilagante è stata posta in maniera lucida da alcuni studiosi che hanno identificato nel nodo io-storia o sintetizzabile schematicamente nella sequenza soggettivismo-passato-oggettività, come la forma di una nuova tendenza di una narrativa sempre più tesa al mescolamento postmodernista di generi, istanze letterarie, estetismi autoreferenziali e tracotanza dell’io di carta, come felicemente è stato definito da Tinelli nel saggio omonimo. La (in)correggibile sentenza di Fukuyama sulla fine della storia ha costituito per molti narratori l’avvallo alla composizione di opere narrative dove:

L’io narrante e omonimo dell’autore sviluppa un campo di autobiografia spuria, sfumata dalla finzione, e su fatti reali innesta episodi inventati, prequel, sequel o spin-off, confondendo realtà e fantasia, mescolando simbolico e immaginario 1 Giacomo Tinelli, “L’io di carta” il verri edizioni, Milano, 2022.

Questa tensione alla conoscenza attraverso la prosa costituisce un vulnus in un panorama letterario nel quale si moltiplicano romanzi, questa volta dobbiamo definirli tali, che usano l’artificio del verosimile storico o, addirittura, teorizzano la radicale invenzione di fatti, per proporre una idea di conoscenza storica. Alcuni tra gli storici più pronti a cogliere la novità di questo nodo critico, si concentrano sulla tendenza a identificare un nuovo ibrido genere letterario-storico dividendosi sulla sua efficacia.
Adriano Prosperi ha scritto un saggio il cui titolo è un atto di accusa verso la realtà culturale italiana, Un tempo senza storia. La distruzione del passato e nelle sue lucide pagine critica fortemente la prassi sterile di scrittura narrativa:

La storia allarga l’esperienza oltre i confini del presente e vale tanto più quanto meno si affida all’invenzione del romanzo e si basa sull’esame critico dei fatti indagati. È lei che resta a garantire la conoscenza e a tutelarci del pericolo del dimenticare 2 Adriano Prosperi, “Un tempo senza storia. La distruzione del passato” pag 57, Torino, Einaudi, 2021.

È un atto di accusa rivolto verso la commistione tra verità e falsità che si fa sistemica attraverso lo stratagemma della fiction, e ancor più nella forma rituale dell’autofiction. A questa decisa posizione che nega qualsiasi valenza della forma romanzo, si accosta una posizione sempre critica ma che sembra lasciare spazio alla possibilità che la forma romanzo possegga una propria funzione conoscitiva:

I romanzi inventano personaggi e situazioni, ma se è vero che si svincolano dal reale con cui stabiliscono relazioni molto più complesse di una semplice riproduzione mimetica, ciò non significa che mentano. Procedono invece con mezzi propri alla ricerca di una comprensione più profonda e più sfumata della realtà. Non formulano ipotesi ma costruiscono intrecci, sviluppano situazioni immaginarie, scrutano la psicologia dei personaggi ed esplorano il loro paesaggio mentale, le loro ragioni e le loro emozioni 3 Enzo Traverso, “La tirannide dell’io. Scrivere il passato in prima persona”, pag.138, Bari, Laterza, 2020 .

Non è certamente un caso, quindi, che pensando ai libri di Pecoraro, i testi che ad esso si approssimano sono testi di filosofia della storia, filosofia del linguaggio o di filosofia politica. Ed è solo in una precisa opera di disvelamento di ciò che Pecoraro non teorizza che si può parlare di una prosa-romanzo. Se lo si costringe nel perimetro delle riflessioni filosofiche si dimostra essere un romanzo, e se vincolato nel recinto del romanzo si deve pensare ad un testo filosofico. È così definibile in quanto si oppone a ciò per il quale viene accostato, trovandosi in una condizione di alterità rispetto al resto. Per estensione, Pecoraro deve definirsi “narratore” altro dal canone degli scrittori a lui contemporanei. Questa separazione dal resto lo rende originale e antitetico; la sua autofiction smette gli abiti della grossolanità per operare un’azione di critica spietata al circostante letterario.

Non romanzo

Che cosa è dunque Lo stradone? È composto secondo una falsa prosa autobiografica, una scrittura che si traveste da autobiografica e nella quale immaginiamo l’evoluzione del soggetto protagonista come una sorta di bildungsroman capovolto. È un romanzo di non-formazione, di una formazione mal riuscita, incomposta ed informe, dove gli eventi fluiscono senza una propria specifica affermazione organica erodendo e, di fatto, sterilizzando ogni possibilità di cambiamento.

Si tratta di prosa che invade il sentiero interrotto del romanzo, si tratta di prosa che corre a volte parallela a istanze pseudo-liriche, di prosa saggistica che si avventura nei vicoli della scienza applicata, della antropologia, della sociologia materialistica e che ha come scopo restituire attraverso la lingua ciò che percepisce con lo sguardo riluttante dello sconfitto, sul piano storico e ideologico. Ne deriva una compulsione affabulatoria che si compie in continui slanci verso un tempo passato che deve sottomettersi alla ragione della storia, ma che la propria vicenda personale tenta di tenere ancora in vita. 
Da questo conflitto nasce l’elemento ironico e sarcastico del testo in una scrittura che si fa atto letterario dopo l’introiezione del dato reale, dando origine ad un nuovo linguaggio. 
Pecoraro assorbe, metabolizza, ingoia immagini, visioni, personaggi osservati nel suo peregrinare quotidiano, nel suo pellegrinaggio su di una laica via francigena immaginaria. E mangia, divora, inghiottisce ogni genere di evento-forma per poi, successivamente, in una modalità strutturata e ricca di forma espressiva, restituirlo come uno scarto, un rifiuto. È il senso della liberazione corporale, di quello che definisco il “monologo delle interiora”. Un insano trasferimento dell’organo metaforico: dal lirico cuore al lurido ventre. 
La sua è una scrittura che si compie in una volontà di eviscerazione, come decisione di uno svuotamento strutturato delle interiora della lingua, impregnando il testo di rassegnazione e frustrazione e presentando al lettore uno spargimento di ciò che resta della lingua usata nella quotidianità e che da questo uso quotidiano ha perso la sua incisività ed efficacia. 
In questo suo esporsi sul piano ideologico si coglie costantemente il rendiconto degli insuccessi, le istanze mai soddisfatte, le frustrazioni giustificatorie che permettono, a chi decide di estromettersi dalla storia, di aver perso le numerose occasioni emerse. Questo pessimismo analitico non si traduce mai nella esibizione di una ideologia che spinge alla rassegnazione, né induce ad una visione giustificatoria dei fatti del passato né, ancor meno, alla glorificazione di questi.
Si coglie anche la rendicontazione finale unitamente anche alla sconfitta meditata, la rielaborazione di un lutto mai rielaborato (o forse, finalmente, conquistato in questo atto estremo di consapevolezza scrittoria). 
La cruda riproposizione di immagini che rimandano all’universo corporale dell’essere vivente animale, meglio carne che uomo, ci fornisce la fine della storia collettiva e personale di un’epoca al quale ci rivolgiamo voltando la testa.

La lingua

Questa composizione del tessuto narrativo è sistemazione delle parole, come sostiene l’autore, e serve a restituire in un’altra forma ciò che evidentemente è impossibile percepire.

La letteratura propriamente detta [è] l’Arte della parola, arte di dire a parole, di usare le parole in questo o in un altro modo per comunicare dei contenuti che riguardano il nostro stare sulla terra, il nostro stare nella storia, il nostro stare nella tecnologia, il nostro stare in questo caos confusionale creando quelli che poi, nei casi migliori, sono piccole bolle di razionalità, piccoli o grandi momenti di ricomposizione, in certi casi, davvero luminosa dell’esperienza umana 4 Francesco Pecoraro e Guido Mazzoni, 1 Aprile 2020, DFCLAM Università di Siena .

C’è una cifra stilistica insita nella lingua di Pecoraro il cui studio, la cui analisi non dovrà limitarsi a elencare scarni riferimenti calligrafici, ma dovrà porsi come obiettivo quello di identificare vari percorsi di matrice linguistica. A me pare che intanto si possano distinguere tre diversi strati che concorrono alla sistemazione del corpo narrativo.

  • Il primo fa riferimento al linguaggio della sua specificità professionale; una categoria del linguaggio che risale a quello della sua formazione teorica dominante, accanto alla quale si vanno a collocare elementi provenienti da altri ambiti semantici da lui prescelti come orizzonti con i quali decifrare il reale. Pecoraro dissemina pervicacemente elementi specifici dei ruoli che intende ricoprire: a volte tecnico, altre ingegnere o architetto, spesso urbanista, raramente storico nel senso tradizionale del termine. 

Verso il Secondo Ponte, il più recente, all’impalcato del quale architetti senza un’idea precisa di cosa sia l’architettura hanno aggrappato la stazione della Ferrovia Metropolitana, a fare sistema con la fermata metro e con uno spiazzo, che pare senza storia, destinato a parcheggio 5Lo stradone”, Ponte alle grazie, 2019, pag. 14.

Un po’ più giù, oltre il Primo e il Secondo e il Terzo ponte, cioè al di là di quello che l’Urbanista (quando stavo al ministero ne ho conosciuti parecchi) chiama un “fascio infrastrutturale” dove insiste quello che l’Urbanista chiama un “nodo di scambio”, se ci si inoltra per qualche isolato lungo il marciapiedi […]6Lo stradone”, Ponte alle grazie, 2019, pag. 253.

Fu così che la valle si riempì di una sequenza disordinata e grezza di templi peripteri sormontati da un altissimo camino conico, con un colonnato tutt’intorno a una cella dove veniva continuamente rinnovato e mantenuto il mistero del fuoco 7 “Lo stradone”, Ponte alle grazie, 2019, pag. 75 

  • Il secondo è quello del vernacolo esperito nel parlato quotidiano, distinguibile anche peraltro graficamente, elemento visuale al quale l’autore non rinuncia grazie ai suoi innumerevoli inserimenti di disegni e schizzi funzionali al testo, usati però non solo come didascalie esplicative, ma quasi come completamento semantico per via di un linguaggio altro rispetto a quello narrativo.

-Mo’ c’ho ggente. Te richiamo… Se ‘ho detto che te richiamo, te richiamo! 8Lo stradone”, Ponte alle grazie, 2019, pag. 307

  • Per ultimo parlerei del linguaggio che compone la prosa del testo, spesso innervato da termini desueti, alcuni neologismi, non sempre adeguati nell’ambito di riferimento, spesso non pertinenti al loro tradizionale contesto e che costituiscono pillole di riflessione estetico-filosofico. 

…importa il nostro fallimento politico, importa la nostra sconfitta storica, importa il nostro, di uomini e donne del Ventesimo secolo, non saper più raccontare ai perdenti il loro stato di dominati e non saper più indicare loro il nemico politico da combattere…9Lo stradone”, Ponte alle grazie, 2019, pag. 345

Immagino che le donne guardino cose diverse da quelle che ho scrutato per tutta la mia misera vita di flaneur, doo Stradone, di osservatore indiscreto di femmine, di molestatore visivo.10“Lo stradone”, Ponte alle grazie, 2019, pag. 355

Una lingua artificiosa che è rovinata da una incapacità, da una incompetenza del parlante-personaggio privo di conoscenze adeguate. Una lingua che vuole contrapporsi a quella deformata di oggi dovuta a quell’eccesso esibizionistico di intervento sulla sintassi dato dal voler “dire ad ogni costo”. Evidentemente a Pecoraro non interessa nessuna riproduzione naturalistica del fatto in sé quanto invece mostrarla come “signal” di uno spostamento verso la decadenza, verso la perduta aura, verso la perdita di innocenza, verso il fondo di una sconfitta storica definitiva.

È come se Pecoraro sospendesse quella sensazione di distrazione dalla tristezza esistenziale che artificiosamente quell’uomo costruisce ogni mattina, quando la coscienza di essere sconfitti dalla vita viene rimossa momentaneamente. Questa ipotesi si trasforma in comportamento strutturale così da concedere la possibilità di sopravvivenza all’intera giornata e continuare a sedersi al bar “Porcacci” paradigma del non luogo di un altro secolo.

Questo esperimento di inserzione di un linguaggio discorsivo, sublimazione parodica di un parlato, all’interno di un testo in prosa è già presente fin dalla sua prima raccolta di racconti apparsi nel 2007 per Mondadori 11 Francesco Pecoraro, “Dove credi di andare”, Mondadori, 2007 .

Jeans consunti artificialmente… Ecco: giubbotti consumati a cazzo, un po’ qui e un po’ lì… Manco la fatica di portarli, vogliono fare… vivere almeno per consumarsi addosso un paio di jeans 12 “Dove credi di andare”, Mondadori, 2007, pag. 30 .

Ecco… mi sento male… vado a terra… Non conosco nessuno qui, sono a casa mia e non conosco nessuno13 “Dove credi di andare”, Mondadori, 2007, pag. 37 .

-Mo’ c’ho ggente. Te richiamo… Se ‘ho detto che te richiamo, te richiamo!14 “Dove credi di andare”, Mondadori, 2007, pag. 307 .

NEGAZIONE DI SÉ (un prosatore e un filosofo): Pecoraro e Paolo Virno

Dopo aver accennato – e solo accennato, poiché l’analisi della lingua di Pecoraro necessita di attenzioni ben più ampie di queste appena elencate – mi interessa proporre un possibile accostamento teorico e ideale tra alcune riflessioni che il filosofo del linguaggio Paolo Virno propone sulla lingua, e le immagini narrative suggerite da Pecoraro – che sembrano essere le uniche possibilità di un reale empiricamente constatabile.

Nel suo Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica – il filosofo identifica nella grammatica del non l’atto di declinazione possibile di una molteplice varietà di tratti caratterizzanti la nostra cultura.

Si potrebbe anche dire che la lingua è la dimora del non-essere, il solo ambito di esperienza in cui quest’ultimo consegua una realtà empirica. Le nostre enunciazioni, comprese ovviamente quelle affermative o monosillabiche, sono la dimostrazione che il non-essere, a suo modo, è: costituiscono dunque una prova ontologica dell’esistenza del nulla 15 Paolo Virno, Saggio sulla negazione, per una antropologia linguistica, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, pag. 27 .

Questa ipotesi di formulare e fabbricare una lingua come sede della sola possibilità di esperire il reale attraverso la semplice negazione, mi induce a formulare un’ipotesi critica rispetto al romanzo di Pecoraro leggendolo come atto di negazione.

Il prodotto di questa nuova dimensione si colora progressivamente di rassegnazione, si ha rassegnazione, non si è rassegnati. Essere rassegnati diventa espressione priva di valore semantico in quanto non si può essere ciò che si può solo avere.

“Abbiamo la nostra biografia non siamo la nostra biografia.”

Avere negazione è la sola idea di sopravvivenza seppur insignificante, ma forse dovremmo dire non significata, che è concessa al personaggio.

Il linguaggio verbale intrattiene intimi rapporti con il non essere, e si giova regolarmente della negazione, proprio perché non si lascia mai ridurre alla dimensione iconica 16 Paolo Virno, Saggio sulla negazione, per una antropologia linguistica, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, pag. 27 .

E se fosse questo il senso dell’abbandono da parte di Pecoraro della forma iconica, peraltro suggerita di sguincio nelle copertine dei suoi testi – di cui lui stesso è autore?
La scelta della forma testuale scritta si è a lui rivelata come veramente funzionale al suo progetto?

Progetto che si può considerare come un enorme afflato negativo per ridefinire il proprio stare al mondo.

Ai primordi della mia non-storia, nonostante mi giungessero segnali molto chiari del contrario, pensavo: basta meritare per ottenere 17 Francesco Pecoraro, Lo stradone, Ponte alle grazie, Milano, 2019, pag. 17.

Questa misura della negazione appare esplicita nella sua rinuncia a qualsiasi ipotesi di cambiamento del reale avverso.

Il grottesco e l’ironia che possono nascere divengono strumento di allontanamento dal pericolo di pose (e prose) estetizzanti. Il linguaggio si fa rozzo e volgare come fosse una forma di difesa dal calco emotivo che viene visto come pericolo nella formazione del testo.

Si può parlare, a buon diritto, di una inter-fonia come una sorta di presa diretta del parlato, ma non come registrazione neutrale di stampo naturalistico, evidentemente, quanto di diffusione del linguaggio in sfere che non appartengono più al solo testo narrato ma a quello irrimediabilmente perso di un soggetto che non è più in grado di intervenire sulla realtà; una lingua che opera come torsione del reale, proprietà di un materiale che viene sottoposto coscientemente ad una modificazione delle sue caratteristiche. Ad una richiesta di rendere chiaro il pensiero della propria narrazione, Pecoraro proponeva questa riflessione:

La narrazione diventa più analitica, indugia, tuttavia anche questo capitolo non è un totale monologo interiore interrotto da maldestri dialoghi ma i dialoghi poi proseguono ci sono altri dialoghi ci sono delle vicende e alla fine c’è una sorta di agnizione quindi questa è una parte di una vicenda la parte iniziale di una vicenda che si svolge in una notte. Quindi diciamo che l’atmosfera che si crea nella mente dell’io narrante viene spezzata dalla realtà delle persone che gli sono intorno più volte più volte si rompe quello che avevo costruito perché più volte si rompe questo dialogo nella mente di colui che vive questa vicenda 18 RicercaBO 2012 39min 32” LABORATORIO DI NUOVE SCRITTURE 23 24 25 NOVEMBRE 2012 .

Altre sollecitazioni scaturiscono dalle pagine dello scrittore, anche se quale direzione possano prendere sarà possibile definirlo scrutando tra le pagine del prossimo libro, ma certo il percorso di ricerca e sperimentazione sulla lingua sembra appartenere, ormai, a pochi interpreti. 

Note[+]

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