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Ho incontrato l’autrice un mese dopo la nostra corrispondenza.

Il tuo libro non mi è piaciuto, le ho detto.

Grazie. A me non piace quello che fai tu, ha detto lei.

Così ho capito che avremmo lavorato bene insieme. Volevo che mi parlasse, volevo che mi toccasse. Volevo sentire il corpo di chi scrive le parole e annusare la mente che le produce. Gliel’ho detto e mi ha risposto che era una cosa strana da dire. Tu sei una cosa strana, ha detto. 

La stanza era buia e puzzava di vegetali. Fusti di lucky bamboo sorgevano da bottiglie tagliate in due e riempite a metà. 

Non avevo voluto io quel compito. Me l’avevano dato dalla rivista mesi prima. Mi era arrivato a casa il libro, che allora era un esordio. C’era un post it sulla prima pagina che diceva, spero tu capisca. Sottinteso: l’importanza della cosa che mi avevano affidato. Non era il mio primo incarico e mi consideravo immune. Alla compiacenza dei critici e alla timidezza degli autori. 

Voglio sedermi, ho detto.

Fa’ quello che ti pare. 

Hai la frangetta tutta storta.

Lo so. Me la taglio da sola, ha detto lei. Puoi passarmi il tabacco?

Gliel’ho lanciato e ho preso posto sul bracciolo del divano. 

Il suo libro l’avevo cominciato la sera del giorno in cui l’avevo ricevuto. Volevo togliermi le prime quattrocento pagine in tre giorni, e abbozzare la recensione; poi avrei letto le ultime cinquanta, ma era importante che non conoscessi il finale prima di iniziare a scrivere. I finali di solito rovinano i libri, ed è inutile cercare lì la spiegazione di cui sentiamo bisogno. Le prime pagine erano pesanti e mi sono difesa. Ne ho lette tre e mi sono ricordata di dover buttare la spazzatura. Il giorno dopo non ho avuto tempo. Il giorno dopo ancora l’ho ripreso in mano, al contrario, e l’ho annusato. Poi ho letto duecento pagine. Poi ho chiamato al lavoro e ho detto che non sarei andata l’indomani. La mia casa era una stanza e io ci stavo sprofondando dentro. Nel libro, una donna belga perdeva un figlio che aveva amato soltanto per otto giorni, dopodiché perdeva la ragione. Vedeva proiezioni luminose sul soffitto della sua casa e sapeva che gli oggetti l’ascoltavano quando urlava. 

Dalla rivista hanno provato a contattarmi per un paio di settimane, da quando ho smesso di rispondere, poi hanno perso il gioco. Mi mancavano trentanove pagine quando ho scritto all’autrice. Non mi sono presentata e ho detto che avevo bisogno di parlarle. Ho mandato l’email. Mi ha risposto subito chiedendo se fossi un fan o un pazzo. Le ho detto che ero al femminile, e che credevo mi conoscesse molto bene. Ah certo, ha scritto. Ho insistito chiedendo dove ci saremmo viste, ma lei non ha risposto per tre settimane. In quel periodo la mia rabbia è cresciuta. Il libro lo rileggevo di tanto in tanto, ma mi concentravo solo sulle espressioni retoriche, quelle messe lì per decorare, quelle che non aggiungevano niente. Mi ero convinta che il buono fosse lì. Il resto, il contenuto, lo conoscevo anche troppo bene. Avevo sentito il sangue tra le mie gambe durante il parto e avevo provato dolore. Avevo portato a casa il bambino e l’avevo sistemato nell’angolo meno umido del monolocale. Forse non era abbastanza asciutto per lui, o forse quello era il suo destino fin dall’inizio. Lei scriveva che la notte in cui era successo mi ero svegliata sentendo che qualcosa non andava. Ma non era vero. Mi ero svegliata per uccidere una zanzara e una volta fatto mi ero riaddormentata pensando di aver risolto ogni mio problema. 

Alcune delle cose che aveva scritto non avevano senso. Non le avrei mai potute pronunciare, ed era per questo che la dovevo incontrare. Per chiedere una rettifica. Un giorno mi sono sentita più metodica. Ho preso una matita verde e l’ho passata sopra le frasi sbagliate. Ho calcato e in alcuni punti il foglio si è lacerato. Sopra, ho riscritto le parole giuste, come me le ricordavo.

A un certo punto mi hanno tolto incarico e compenso. Era logico aspettarselo: non avrei consegnato quella recensione, né nessun’altra da allora in avanti, perché la cosa aveva perso di senso. Mi sono ritrovata con trentasette euro nel conto e ho dovuto fare economia. Ho mangiato per un po’ di sere sgombro sott’olio. Poi ho capito che una sigaretta bastava a saziarmi, soprattutto se mescolavo il tabacco a del rosmarino secco. Quando lei mi ha risposto ero nella vasca da bagno accanto ai fornelli. Tenevo le ginocchia raccolte e il libro poggiato sopra, gli angoli bassi a bordo acqua. Era strappato e consunto, nonostante ce l’avessi da qualche settimana appena. Ho sentito il cellulare emettere un suono debole, come un fischio. Sono uscita e ho sgocciolato nuda fino all’armadio, poi mi sono asciugata con dei jeans vecchi e ne ho indossato un altro paio. Il messaggio diceva, vediamoci pomeriggio a casa mia; seguiva l’indirizzo, scritto alla maniera estera, col numero che precede la via. Quando sono uscita dal portone mi è girata la testa, per qualche minuto. Non uscivo dalla stanza-casa da giorni. Avevo messo il libro in una borsa di tela, accanto a una borraccia che speravo non si aprisse. Altrimenti che avrei fatto. Altrimenti che le avrei mostrato. 

Il palazzo era un comunissimo palazzo color albicocca, e l’appartamento stonava tanto che sembrava non appartenergli. Anche la sua casa era una stanza. Ho pensato che potessimo essere altrove, in un mondo di fiabe oscure: ho visto i muri luccicare. 

Il tuo libro non mi è piaciuto, le ho detto, perché non è sincero.

È un esordio, ha detto lei. È per forza sincero.

Non hai raccontato bene la storia.

Scusa? 

Si è raddrizzata, anche nel groviglio di gambe e braccia in cui si trovava avvolta. 

La storia è sbagliata.

Avevo paura che mi deludesse. Avevo paura che rispondesse che la storia era inventata. In quel caso sarei uscita senza più pensare al libro, o forse l’avrei aggredita. Non so cos’avrei fatto perché per fortuna non ha detto così.

Quante volte l’hai letto?

Ventisei. Per intero. Alcuni pezzi di più.

Non sembrava stupita. Mi ha sorriso e ha sbuffato del fumo verso l’alto.

Più di me. Più del mio editore di sicuro. 

Non la guardavo, ora. Ora guardavo il tavolo, e il grosso gatto scuro che ci stava seduto sopra. L’ho guardato nelle iridi verdi e ci sono come caduta dentro, ho fatto un giro attorno alla pupilla e sono uscita. 

Quindi mi devo fidare, ha detto.

Sì.

Che la storia è sbagliata.

Ho tirato fuori il libro, ha voluto toccarlo. Mi ha ringraziata per averlo ridotto così. La copertina si era quasi del tutto staccata e penzolava, insieme ai due fogli di guardia. Il dorso era rotto in più punti, segnato da rughe violente; le pagine erano in uno stato assurdo, una paradossale compresenza di biancore e sporcizia, novità e segni del tempo, con tutte quelle pieghe, quegli strappi, quelle scritte che non riuscivo più a leggere. 

Vieni più vicina, ha detto. 

Profumava di bosco e di spezie, le ho toccato i capelli rossi con le dita. 

La storia è la mia.

Sì, ha detto. 

Io posso dirti com’è andata. Tu hai tirato a indovinare.

Ti piace come scrivo?

Ho aperto una pagina che avevo tanto evidenziato da diventare interamente fucsia. Ne ho strappato le prime cinque righe e mi sono portata al cuore quel pezzo di carta. Diceva così: «L’orrore la mattina di trovare una culla sorda. Sentivo nella stanza odore di bambino e mi rassicurava. Quell’odore mi ha guidato nei giorni dopo, quando ero rimasta sola nella stanza e danzavo insieme alle ombre e alle luci sul parquet e sull’intonaco bianco dei muri». 

Qui, proprio così, ho detto.

Qui è giusto?

Ho annuito. Qui è perfetto, volevo dire. Sei arrivata così vicina. 

Fammi vedere, ha detto.

Quel giorno ha voluto vedere i passi giusti. La capivo, aveva bisogno di ancorarsi a quanto di buono aveva scritto. Ma non bastava. Abbiamo letto ad alta voce ogni passo e sono arrivate le due di notte, e mi ha detto che potevo restare e ho dormito su quel divano mentre lei è andata sulla poltrona, e volevo chiederle che mi lasciasse il gatto ma se l’è portato via. I giorni dopo abbiamo rivisto le parti sbagliate. Le ho detto di inserire sonnolenza dove lei aveva scritto dolore. Le ho detto che le luci mi ascoltavano ma non parlavano mai, e questo era frustrante. Le ho detto che il primo istinto non è stato di soffocarmi col gas, come ha scritto lei, ma di buttare il bambino nell’indifferenziata. Era nato da così pochi giorni che nessuno l’avrebbe cercato. Lei mi accarezzava mentre parlavo. Lei mi capiva. Quando abbiamo finito i fogli abbiamo cominciato a scrivere sulle pareti, negli spazi bianchi tra i mobili. Non scrivevo mai senza la sua approvazione. Il libro è venuto una meraviglia. È così bello che vogliamo viverci dentro, e forse ci siamo riuscite. Io volevo che lei ci vivesse con me e a lei è piaciuto. Ha chiesto all’editore che la versione pubblicata fosse ritirata dal commercio e l’ha ottenuto, il che vuol dire niente più entrate. Non faremo pubblicare il nuovo libro. Lo culleremo come un bambino e apriremo ogni giorno gli occhi sulle sue frasi. Nessuna di noi porta a casa soldi, e il cibo sta diventando un problema. Ho chiesto se potessimo mangiarci il gatto, ma lei ha detto di no.


In alto: foto di Photos_frompasttofuture / Unsplash.

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