«Aveva appreso da un pezzo la legge ingiusta e crudele secondo la quale sono sempre gli animali con due zampe a uccidere quelli con quattro e sapeva che sono le loro regole e i loro interessi a regolare il mondo». Se è certo che a vigere nel mondo sono regole e interessi degli “animali a due zampe” ‒ ed è talmente chiaro che a pensarlo è Diavolo zoppo, lupo della tundra ‒ non si può stabilire con altrettanta sicurezza quali siano invece i confini e i propositi che definiscono tali precetti. In altre parole, nel tentativo di regolare il mondo, come riusciamo a regolare le nostre vite? Quanto di ciò che viviamo è il risultato delle nostre scelte? E soprattutto, a quale legge interiore decidiamo di obbedire per vivere nel mondo, nel nostro mondo? L’impressione che si ha dopo aver letto Aniko (traduzione di Nadia Cicognini; Utopia Editore, 2022) è che Anna Nerkagi ci esorti, se non a trovare delle risposte, quantomeno a porci queste domande.
Siamo nella penisola di Jamal, nella tundra artica russa, dove la popolazione indigena e nomade dei nenec vive in accampamenti chiamati čum, sfidando ogni giorno le condizioni durissime che la natura impone: il clima estremo, la furia delle tempeste di neve, la fame dei lupi. Allevatori di renne e cacciatori, i nenec collaborano e vivono in armonia gli uni con gli altri, perciò la gioia di uno diventa la gioia dell’intero campo, e lo stesso vale per il dolore. Così, quando il vecchio Seberuj scopre che a causa della ferocia di Diavolo zoppo sua moglie e la sua bambina non faranno più ritorno al čum, il vicino Passa si mette all’opera per cercare la sua primogenita.
Aniko vive in Russia, studia geologia, ha vent’anni e da quando ne aveva sette non vede la sua famiglia.
Un giorno un russo si era presentato al čum di Seberuj e l’aveva portata via con sé per farle frequentare la scuola. Da quel momento la sua famiglia non l’aveva più vista, né avrebbe saputo dire con precisione dove si trovasse. Passa riesce a ottenere l’indirizzo di Aniko e si fa dettare da Seberuj (che non conosce il russo) una lettera con cui le chiede di tornare all’accampamento: è solo e ormai vecchio. Quando Aniko torna nella tundra, la gioia di Seberuj è subito smorzata: sua figlia ‒ ormai ultima erede del clan Nogo ‒ ha dimenticato la lingua nenec, non ricorda le tradizioni del suo popolo, riconosce a stento suo padre.
«Quando il padre le era ormai vicino, fece involontariamente un passo indietro: emanava un puzzo di alcol, fumo e sporcizia. Seberuj non si era accorto di nulla. Si lisciò per ben due volte la malica sudicia, come se volesse ripulirla e le tese la mano. Ma Aniko non ricambiò il saluto. Guardò sgomenta la manica annerita del padre, i suoi capelli arruffati e unti, il viso rugoso, le sue mani sporche e si sentì afferrare alla gola da un senso di nausea. Seberuj non aveva notato lo stato in cui si trovava la figlia. […] Non restò mortificato perché Aniko non gli strinse la mano, e anzi si adirò con se stesso per aver soltanto teso la mano alla figlia e non averla baciata».
Aniko è una donna colta, raffinata, non si spiega come i nenec possano ancora vivere in quel modo: lottando contro il gelo, senza conoscere la letteratura, senza andare a teatro. Si chiede cosa li spinga a rimanere in quei luoghi. Di certo lei non somiglia alla bambina che un tempo aspettava con ansia il rientro dalla caccia di suo padre e dei vicini per ascoltare i loro racconti tutta la notte. Tuttavia, quando Seberuj la invita a entrare nel čum di famiglia, qualcosa cambia. Di colpo i ricordi si liberano dalla coltre nebbiosa del tempo, riemergono con violenza, si fanno nitidi e fanno male. Sua madre è morta. Aniko sembra prenderne coscienza solo ora. Avrebbe voglia di piangere, abbracciare suo padre e dirgli che d’ora in poi sarà lei a occuparsi del čum, delle sue renne, di tutto. Però non lo fa.
La storia di Aniko calca le orme della vita di Anna Nerkagi: l’appartenenza al popolo nenec, l’allontanamento dalla famiglia d’origine a sei anni, poi la laurea in geologia. Eppure, pensare alla vita dell’autrice e leggerne il racconto autobiografico restituiscono sensazioni assai diverse. Nel 1980, qualche anno dopo la pubblicazione di Aniko, Anna Nerkagi da Tjumen’ fa ritorno al villaggio in cui è cresciuta, nella tundra, e a distanza di anni fonda una scuola per l’istruzione dei giovani nenec. Questa scelta rispecchia a pieno ciò che i vecchi del villaggio si aspettavano dai figli e dai nipoti mandati a studiare in Russia: che tornassero per mettere al servizio dell’intera comunità le competenze acquisite così da migliorare le condizioni di vita degli abitanti del campo. Questo desiderio è ben espresso all’interno del testo e, mentre Anna Nerkagi col tempo lo rappresenta e lo incarna, la sua controparte letteraria tentenna, incespicando tra le aspettative di un padre dimenticato e le speranze di una comunità ormai sconosciuta.
Senza che una delle due venga percepita come “più giusta” dell’altra, l’autrice prospetta due alternative, due scenari, entrambi veri e condivisibili, perché entrambi rispondono a bisogni umani e legittimi. E quindi, quando quelle che sono le tue radici smettono di essere parte della tua identità e diventano pesi che ti inchiodano al suolo, e quando il mondo esterno ‒ che ti emancipa, te lo ha promesso! ‒ vuole spingerti forse troppo lontano da dove sei partita, che fai? Scegli il ritorno o la fuga?
Il cuore di Aniko è attraversato da una crepa che lo divide esattamente a metà, e mentre una parte è già pronta a scattare verso il futuro, l’altra ‒ inaspettatamente ‒ la inchioda al passato. Spostandoci nel tempo e nello spazio, a migliaia di chilometri dalle nevi degli Urali, in un periodo che con approssimazione chiameremo “oggi”, non è difficile intravedere nel dramma di Aniko quello di una generazione dimezzata, che vorrebbe al tempo stesso e in un solo gesto abbracciare il padre e abbracciare i propri sogni, che vorrebbe allo stesso modo salvare e salvarsi. In questo senso, la scelta a cui è chiamata Aniko sembra sia un po’ la scelta di tutti, o per lo meno di tutti quelli che si trovano a procedere lungo un percorso bifido, e (come se non bastasse) con dei bagagli molto pesanti da dover portare: nella mano destra la smania del riscatto, nella sinistra la paura di perdersi.
Dal canto suo, Seberuj non ha altra scelta che affidare le proprie speranze agli idoli, è pronto ad accettare qualunque decisione venga da sua figlia. Ha perso tutto e ha imparato che in una giornata qualunque il manto bianco della neve può tingersi del sangue di chi ama.
Ma la natura aspra e inclemente della tundra non risparmia nessuno dei suoi figli, nemmeno gli animali, tantomeno i lupi. Su questa superficie gelata Nerkagi dispone creature antropomorfe, che temono gli uomini e dagli uomini sono temute, ma con cui condividono affanni e tormenti. Il lupo di Nerkagi, che conserva la ferocia connaturata alla sua condizione, si presenta tuttavia distante dall’immagine della belva astuta e cattiva delle fiabe di Jacob e Wilhelm Grimm, e nemmeno ha una condotta così mediata dall’intelletto e dalla sensibilità come gli umanissimi animali de I miei stupidi intenti (Sellerio, 2021) di Bernardo Zanoni, ostacolati o guidati ‒ a seconda dei casi ‒ dal filtro della ragione. Qui, oltre agli istinti primordiali, ciò che li anima sono i sentimenti veri: l’amore, la solitudine, la nostalgia implacabile. È attraverso gli occhi bestiali di Diavolo zoppo che capiamo quanto sia duro sopravvivere soli in un ambiente che, al contrario, spinge a creare un gruppo coeso in grado di proteggerti e che sia al contempo da proteggere. E proprio lui, che uno di questi nuclei ha sfasciato per fame, si ritrova a desiderare il calore di una tana affollata di cuccioli, la compagnia di un amico da istruire. Ciò che questo lupo avvizzito sente non è molto distante da ciò che prova il vecchio nenec. Diavolo zoppo si appropria di un cucciolo non suo, soddisfacendo il desiderio egoista di ricevere l’amore filiale di cui sente di aver bisogno. Forse è proprio al lupo che Nerkagi affida la scelta più coraggiosa di tutte, certamente meno leale e altruista, ma coerente con ciò che il sangue suggerisce. Seberuj invece, pur nutrendo lo stesso desiderio, attende scorato la scelta di Aniko. La sua felicità si è dissolta nel giorno in cui aspettava invano il ritorno di sua moglie, e sa bene che non potrà più tornare. È una lezione molto dura e i nenec la conoscono da sempre:
«Severa è la legge della tundra, impone a coloro che lasciano questa vita di portare con sé tutto ciò che apparteneva loro».
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