Irune dalle 5 alle 7. Durante la lettura del Gli Ultimi romantici – romanzo di Txani Rodríguez che le è valso il Premio Euskadi de Literatura 2021 (sezione in castigliano), ora abilmente tradotto da Alessandro Gianetti per la collana Xaimaca di Arkadia – mi ha accompagnato, per lunghi tratti, l’eco del film Cléo dalle 5 alle 7 (1962) di Agnés Varda. Sia su Irune che su Cléo, infatti, pende la spada di Damocle di un responso medico; inoltre, le loro vicende personali si intrecciano, in modo più o meno evidente, con alcuni fatti storici di più ampia portata: la guerra d’Algeria nel film di Varda, la delocalizzazione di uno stabilimento industriale per la produzione della carta nel romanzo di Rodríguez. Dove lo stile di Varda – all’epoca esponente di spicco della Nouvelle Vague, per quanto spesso ricordata in second’ordine rispetto ad altri cineasti – è giocoso, imprevedibile e spesso mette a nudo i limiti del personaggio borghese di Cléo, la scrittura di Rodríguez è più cupa e malinconica, inserendosi in un contesto proletario che appare per lungo tempo senza possibili sbocchi.
A ragione di questo, si potrebbero allora evocare I lunedì al telefono, perché, in effetti, il romanzo di Rodríguez potrebbe ricordare più da vicino I lunedì al sole, pluripremiato film del 2002 di Fernando León de Aranoa con la partecipazione di Javier Bardem. Nei Lunedì al sole si ripercorre, con un’atmosfera di fondo paragonabile a quella di Rodríguez, la disfatta e il trauma della deindustrializzazione nei cantieri navali di Vigo, quasi a precorrere – non solo storicamente, ma anche dal punto di vista delle logiche economiche dominanti, nel capitalismo del ventunesimo secolo – la delocalizzazione priva di ragioni economiche fondate che colpisce la fabbrica basca dove lavora Irune (così come molte altre realtà, al di fuori della narrazione cinematografica o letteraria).
E altri ancora potrebbero essere gli echi attivati da questa scrittura, dove, ad esempio, una classica fantasia letteraria e cinematografica come quella del viaggio in treno ha un ruolo preponderante. Allo stesso tempo, però, sembra opportuno sottolineare come la scrittura di Txani Rodríguez rimanga assai cruda e asciutta in ogni suo momento, anche quando ci fa entrare nel disastrato mondo interiore di Irune. D’altronde, questo è uno dei grandi meriti della “scrittura (della) working class”, ossia la sua adesione diretta a una certa struttura e, al tempo stesso, a vari fenomeni che, in un’altra epoca, si sarebbero più comodamente definiti come “sovrastrutturali”.
Così, ad esempio, il lavoro di Irune in una fabbrica di carta porta l’attenzione su una produzione i cui costi sono oggi saliti alle stelle, affliggendo tanto la produzione di carta igienica raccontata nel romanzo (come corrispettivo diretto e brutale di un “lavoro di m.”, e cioè largamente sfruttato e vilipeso), quanto quella editoriale. Per restare aderenti alla lettura dell’opera, poi, la descrizione più realistica e ridotta all’osso di una vita di condominio in un quartiere operaio, o ex-operaio, quando viene condotta con la maestria stilistica di un’autrice come Txani Rodríguez, può senz’altro suscitare fecondi legami e connessioni con altre opere che, magari, con le categorie della narrativa working class hanno superficialmente poco, o pochissimo, a che fare.
In fondo, è il titolo stesso del romanzo che inneggia agli “ultimi romantici”: sottintende, cioè, un legame con il passato (della protagonista, così come delle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori) che oggi potrebbe anche essere idealizzato – cosa che, naturalmente, Rodríguez si guarda bene dal fare – mentre la sua realtà viene costantemente attaccata e annichilita. Una dialettica che permette, alla fine, di trovare un’esile, ambigua, eppure fortissima ragione residuale di sintesi e di speranza nelle ultime righe del romanzo.
C’è un momento del libro che si può forse considerare esemplare per questa che, più che una dialettica del tutto formata – Gli ultimi romantici, del resto, non è un romanzo a tesi – è una Stimmung, e cioè quando Irune ricorda i momenti trascorsi, in gioventù, in un locale che era al tempo stesso luogo di ozio e grandi aspirazioni giovanili e primo segno di quella gentrificazione che avrebbe sostituito il tessuto economico precedente: «Su quelle terrazze si parlava molto della coscienza di classe, poi restavamo come sospesi a fissare l’orizzonte. Disorientati, vagavamo avanti e indietro citando Marx e Adorno, colpiti ed esaltati in egual misura».
Il romanzo di Txani Rodríguez ci spinge a guardare ancora verso quell’orizzonte, e magari con più forza di prima.