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Non avevo fatto subito caso alla strana abitudine del responsabile del reparto elettrodomestici di portare ogni mattina con sé un bicchiere da casa. Lo scartocciava da una nuvola di carta velina che lisciava col palmo e ripiegava con scrupolo, poi lo piazzava sulla piccola scrivania a lui riservata, tra il bloc-notes con il logo del Grande Magazzino e il portapenne della Ferrari. Da principio avevo notato quell’uomo alto e ossuto per il contegno composto – che i colleghi preferivano chiamare sussiego –, e la capigliatura rosso mogano che con l’avvicinarsi della fine del mese si dissolveva via via nel bianco della ricrescita. Il grado – o degrado – tonale dei suoi capelli restituiva misura al tempo smarrito nella monotonia del lavoro, come il primo di ogni mese, quando la tinta fresca e ravvivata ricordava ai dipendenti che era giorno di paga.

Di lui si sapeva poco o nulla, che non era sposato e che, inchiodato allo stesso reparto fin da ragazzo, aveva accumulato un sapere fuori dal comune sugli apparecchi elettrici ad uso domestico, lavatrici, aspirapolveri, lavastoviglie, di cui ricordava i modelli e i prezzi degli ultimi quarantadue anni. Una competenza da mago del telequiz che risultava inutile e sospetta se non finalizzata a una televincita. La partecipazione a un programma TV avrebbe forse potuto rimescolare con successo la sua fama, ma un’idea simile non avrebbe nemmeno sfiorato un uomo tanto riservato da preferire ai pratici orinatoi dei bagni maschili – così mi era stato riferito – la privacy sudicia e maleodorante delle cabine singole in cui si infilava a testa bassa. Un’altra anomalia bizzarra e malvista. Si diceva che, a memoria di commesso, il responsabile del reparto elettrodomestici non avesse mai dato confidenza a nessuno, né tantomeno fatto amicizia, nonostante fosse l’impiegato con maggiore anzianità. Alla mia domanda, se qualcuno di loro avesse mai provato a fare il primo passo e a vincere la diffidenza, partiva il refrain: io ero troppo nuova lì dentro e non potevo capire. Fatto sta che in quei mesi di condivisione del tempo e dello spazio non avevo mai visto un collega avvicinarlo se non per chiedergli qualche dritta professionale, che lui elargiva senza risparmiarsi; ne vedevo parecchi, invece, impartire ai nuovi venuti la tiritera sulle sue eccentricità, un sabotaggio che minava qualsiasi approccio spontaneo, e che, generazione dopo generazione, rinnovava i soliti sospetti la cui radice si era persa nella notte dei tempi. Ad eccezione dei giorni di pioggia in cui si ritirava nello spogliatoio dipendenti, durante la pausa pranzo il responsabile del reparto elettrodomestici consumava un panino sulla panchina del giardinetto antistante l’edificio, dopodiché percorreva i portici che circondavano il piazzale concentrato sui propri passi, refrattario al mondo intorno a lui. In reparto, a volte, lo vedevo mimare a un cliente il gesto corretto con cui far scivolare il manico dell’aspirapolvere sul tappeto, scorrere lo spazzolino elettrico sui denti, o simulare lo scatto per inserire il portafiltro nella macchina da caffè. Mi colpiva il buffo contrasto tra il suo fare, sempre garbato e signorile, e l’ordinarietà della mansione messa in scena: me lo immaginavo maggiordomo in un’altra vita.

Del suo ultimo giorno di lavoro non posso che offrire una testimonianza indiretta, perché a quel tempo mi ero già licenziata. Poco dopo Capodanno l’insperata conferma di una borsa di studio per cui avevo fatto domanda senza troppe aspettative aveva aperto un varco inatteso nel labirinto delle esistenze possibili, e ancor prima della fine del periodo di prova avevo disertato il cul de sac del Grande Magazzino. Quella che riporto è la versione di Marta, la cui smania di chiacchiere aveva reso meno noiose le mie giornate laggiù. Eravamo diventate amiche, se così si può chiamare quel genere di alleanza che nasce dalla cattività. Dopo un’assenza di molti mesi mi ero trovata a passare di nuovo in città e avevo deciso di farle una improvvisata. In quell’occasione, e su mia richiesta, Marta mi riferì che per il pensionamento del responsabile del reparto elettrodomestici non c’era stato neppure un brindisi di commiato. Era stato un giorno come tanti, con la differenza che prima di lasciare l’edificio lui aveva vuotato il proprio armadietto. «Solo quando è venuto a salutarci personalmente», aveva detto Marta, «ci siamo resi conto che non lo avremmo rivisto più». 

Mi ero chiesta più volte perché l’avversione epidemica che circondava quell’uomo mi avesse risparmiata, anche se il timore di essere considerata a mia volta strana e trattata con una diffidenza simile a quella riservata a lui mi aveva trattenuta dal render pubblica la mia simpatia. Non mi sono mai ritenuta immune alle suggestioni collettive, ma in quel caso ero ingenuamente persuasa di non essere stata contagiata. Quel signore allampanato e dalle basette sbiadite mi ricordava qualcuno? O qualcosa? Fatto sta che non solo non lo disprezzavo, ma al contrario mi incuriosiva, come quando si è attratti da una persona né bella né brillante e non si sa il perché. Non voglio essere fraintesa, non mi ero innamorata di un uomo che all’epoca era quasi tre volte più vecchio di me, ma qualcosa in lui suscitava in me tenerezza e un senso di familiarità simile a un déjà vu. Mi incuriosiva pure l’oggetto che ogni mattina estraeva dal borsello da polso e poggiava con cura sulla sua piccola scrivania, l’onnipresente bicchiere cui non aveva rinunciato neppure alla festa di Natale del Grande Magazzino, l’unica per me, l’ultima per lui. La sera della cena aziendale ero arrivata in ritardo al ristorante, di proposito, cercavo l’occasione per avvicinarmi a quel personaggio singolare, ed ero certa che, grazie alla superstiziosa credenza che vede la iella viaggiare sulle onde corte del corpo, una sedia al suo fianco sarebbe rimasta libera. Marta si era offerta di tenermi un posto vicino a lei e al solito gruppetto, ma quando entrai in sala ad antipasti già serviti la vidi alzare le spalle e fare un gesto come a dire: «Ti pare l’ora di arrivare?» Risposi con la stessa alzata di spalle come a dire: «Colpa del bus, della macchia di unto sulla giacca, dell’ascensore…», e potei così accomodarmi senza destare sospetti tra l’oggetto delle mie attenzioni, isolato nell’angolo a ridosso del muro, e il leccaculo del reparto intimi uomo, Franco, che avrei ignorato come da prassi. Il responsabile del reparto elettrodomestici mi fece un cenno di saluto, io gli sorrisi, lui ricambiò e si offrì di versarmi dell’acqua. Notai allora che accanto ai due bicchieri del ristorante ce n’era un terzo dal vetro sottile, su cui una filigrana di linee bianche simile a una ragnatela dava forma a una flotta di barche. 

«Oggi ho portato Hamburg», furono le sue prime parole. Capii che aveva avvertito la mia curiosità. Non si trattava quindi sempre dello stesso bicchiere. 

«Un ricordo?», chiesi. 

Dondolò il capo: «Mi sembrava a tema col Natale: il Nord, il porto, il disegno che ricorda un cristallo di neve». 

La nostra chiacchierata sarebbe potuta finire lì, non me la sono mai cavata bene con lo small talk, se manca la confidenza di solito taccio, ma non potevo né volevo vanificare il mio sforzo e mi costrinsi a proseguire: «È più buona l’acqua là dentro?» 

Era una battuta stupida, di cui mi vergognai subito, ma l’unica che mi venne in mente. Lo vidi incerto, forse sulla natura del mio interesse. Poi si decise: «Credo di sì». 

Assaggiò un sorso come per cercare la risposta: «Con quei cieli tormentati l’acqua di Amburgo non può che essere più buona.» 

Dunque il responsabile del reparto elettrodomestici non soltanto sapeva sorridere, ma era pure capace di una risposta scherzosa. Sembrava fidarsi, o più probabilmente non gli importava della mia buona fede e si accontentava di essere strappato per pochi minuti alla propria torre isolata. Il ghiaccio ad ogni modo era stato rotto, e così venni a sapere della collezione di bicchieri-souvenir e della sua origine strana. 

«L’ho ereditata da mio zio, più di vent’anni fa. Faceva il camionista, ha passato la vita sull’asfalto, ma è andato a schiantarsi contro un albero come un neopatentato ubriaco. Lui e mio padre sono morti sul colpo, mia madre invece si è salvata, proprio lei cui erano stati pronosticati pochi mesi di vita». Mi parlò dei fatti inerenti la sciagura con lo sguardo calamitato dalla forchetta, rivolgendosi a me solo di rado. Eravamo il suo pubblico, il carpaccio di salmone infilzato sui rebbi e io, e insieme ascoltavamo la storia della madre le cui aspettative di vita da pochi mesi si erano trasformate in anni. «È come se in quel corpo dai giorni contati si fossero travasate le energie vitali destinate a mio padre e mio zio, due uomini nel fiore degli anni,» disse scuotendo la testa in segno di sdegno verso i paradossi del destino, «come se l’essere sfuggita una volta alla morte avesse comportato l’immunità verso tutte le altre morti che si aggiravano nei paraggi». Si concesse un sorso dell’acqua che lambiva le navi del porto, poi, ripiegato il tovagliolo sul ginocchio, sentenziò su quel fato bizzarro con una battuta che mi era parsa tenuta in serbo da tempo: «Era immunità alla morte la sua, non alla malattia, una Sibilla che ottiene vita eterna, ma non l’eterna giovinezza.» 

Un formicolio sempre più intenso mi solleticava il trapezio, sentivo penetrare tra le scapole gli sguardi acuminati di Marta e di tante altre paia di occhi avidi di indiscrezioni – era il pettegolezzo con i suoi bagliori a ravvivare le molte ore di lavoro altrimenti destinate alla fosforescenza artificiale del neon. Sorrisi all’idea di tanta curiosità, e pensai che era sciocco non essere lì con loro a ridere e scherzare come l’occasione avrebbe richiesto invece di sciropparsi storie di morti e di invalidi. 

I camerieri dall’aria scocciata distribuivano gnocchetti al ragù di calamari e spegnevano le richieste dei clienti con cenni di finto assenso. Il responsabile del reparto elettrodomestici spostava le palline di impasto con la forchetta come per frugare nel piatto, mi chiesi se le cene aziendali fossero le sue uniche occasioni di mondanità. «Un souvenir per ogni nuova meta di viaggio», riprese. «Non ho idea del perché mio zio si fosse intestardito con i bicchieri, era un fumatore incallito, ma astemio. Di questa scelta gli sono grato però, di una pila di posacenere non avrei saputo che farne». Della Germania, Francia, Olanda, Belgio lo zio conosceva le autostrade e gli autogrill a menadito, null’altro però. I bicchieri volevano essere un promemoria di quei luoghi in cui contava di tornare dopo la pensione, da turista.

Il fragore in sala era aumentato, i camerieri sparecchiavano per far posto a nuove portate, e all’altro lato del tavolo si brindava a chissà cosa. Percepire la voce debole del responsabile del reparto elettrodomestici mi costava uno sforzo: «A volte basta un palazzo o una chiesa a rappresentare una città, a volte un oggetto o un animale». Con l’indice seguiva il profilo delle navi di Amburgo e forse rincorreva il filo del proprio discorso. «Mi ha sempre affascinato questa sintesi operata dal tempo e dal sentire popolare. Un’autorappresentazione che si condensa in una selezione di oggetti identificativi, in frammenti di città che la contengono tutta, o piuttosto il contrario, la città che viene ridotta a un suo frammento.» Osservai il suo profilo, la prominenza aumentata dall’età, doveva essere stato bello da giovane. «L’ansia di mia madre!», fece un sospiro. «Ogni giorno, per anni, dopo il lavoro o nei fine settimana, le leggevo dei racconti per aiutarla a sconfiggere la paura, per tenerla occupata, per starle vicino. Erano libri presi a caso dalle bancarelle. Solo in un secondo momento mi concentrai su storie che ci portassero altrove, che ci facessero viaggiare in altri luoghi, me e lei, entrambi costretti all’immobilità. O forse nel mio caso sarebbe più appropriato chiamarla inerzia. Sempre per intrattenerla avevo cominciato a disimballare la collezione che sapevo trovarsi da qualche parte giù in cantina. Ogni bicchiere rappresentava una località che avremmo ricostruito grazie alle ambientazioni dei racconti e a vecchie guide prese a pochi spiccioli, così sorpassate da non servire a nulla tranne che ai nostri giochi. Le chiamavamo le nostre città. Ovviamente erano ricostruzioni inattendibili, fantasie non pertinenti a un’epoca precisa ma a una fantastica, in cui mia madre era sana, mio padre e mio zio vivi e io giovane e pieno di speranze». 

Il responsabile del reparto elettrodomestici si accorse del mio bicchiere vuoto: «Mi scusi, la annoio», disse, e si affrettò a versarmi acqua. Io però ero da un po’ passata al vino. 

«Tra qualche mese andrà in pensione,» dissi , «perché non porta a termine lei il progetto di suo zio?» Alzò le spalle: «Anch’io un tempo mi consolavo con l’idea di visitare un giorno i luoghi che la fantasia mi aveva reso familiari. Volevo ammirare i tetti a gradoni di Antwerpen, passeggiare nel porto di Marseille, gironzolare nel Madurodam di Den Haag. Antwerpen, Marseille, Den Haag, Hamburg, toponimi locali come sui bicchieri, non le loro traduzioni italianizzate. Ora che quel giorno è alle porte sento che queste città, le nostre città, non hanno più nulla da offrirmi, quello che c’era da prendere l’ho già preso, l’ho già immaginato». Indicò il disegno sul bicchiere, la ragnatela di linee bianche: «Trasparenza e filigrana sono materie su cui si può costruire il sogno più bello».

Per anni non ho più avuto occasione di pensare alla breve esperienza del Grande Magazzino, al presunto cul de sac cui ero sfuggita, a Marta, al responsabile del reparto elettrodomestici. La mia vita aveva imboccato una via che mi sembrava correre in tutt’altra direzione, una strada che non offriva occasione a ripensamenti o nostalgie.

Quando un paio di settimane fa – mi trovavo a Colonia per lavoro – sbirciando tra gli scaffali di un rigattiere a due passi dall’albergo scorsi un vecchio bicchiere dall’aria familiare, un souvenir di Amburgo, i ricordi sono sgorgati nitidi come se fossero stati freschi di ore, e dettagli dimenticati mi hanno riportata a quell’altra me che credevo sepolta. Penso alla memoria come a un oceano di materia inerte e vischiosa in cui i ricordi si disperdono, inabissati dalla corrente che contrasta il moto naturale che tenderebbe invece a spingerli verso la luce; solo il caso, ad esempio lo scontro con un altro ricordo, ne devia il moto e li riporta a galla.

Cosa avrei fatto se non avessi vinto la borsa di studio? Sarei rimasta ancorata al Grande Magazzino? Avrei gli stessi dubbi e incertezze di oggi, o altri ma equivalenti? Per me, allora, le due strade non potevano che essere dicotomiche, ora invece mi accorgo di come basti un oggetto privo di valore, il bicchiere che ho qui davanti mentre scrivo, per crearsi spazi di libertà. La luce del tramonto attraversa il vetro e si riflette sulla carta, le linee delle navi formano cristalli di neve che ripasso con la biro e catalizzano visioni e domande che provo a fermare. Mi chiedo se ci sia mai stata una vera affinità tra me e il responsabile del reparto elettrodomestici, se la mia fantasia sarebbe mai stata in grado di concepire una città, una copia così perfetta da preferirla all’originale. Ho mai posseduto la veggenza che permette di ricostruire da un frammento il tutto?

«In fondo fa solo pena», aveva concluso Marta quel giorno. La pena crea circoli viziosi: chi ne è oggetto viene trattato come un appestato cui non ci si avvicina se non per fini caritatevoli, e l’isolamento cui è costretto rinnova e rinvigorisce il sentimento di disagio che lo ha causato. Con i suoi tic e l’atteggiamento riservato il responsabile del reparto elettrodomestici incarnava quella possibilità indesiderabile e ammorbante, mentre il cosmo visionario contenuto nel bicchiere sulla scrivania schiacciata tra lavatrici e frigoriferi sembrava evocare l’illusione in cui viviamo. A chi piace sentirsi rammentare che nessuna strada porta fuori dal labirinto dove siamo destinati a “errare” fino allo sfinimento? 

Forse era pena anche la sensazione che avevo scambiato per tenerezza, e ciò che mi distingueva dai miei colleghi non era l’immunità dal contagio collettivo, ma soltanto un senso di pudore di fronte al loro atteggiamento aggressivo, di cui non mi credevo capace. Per lo meno non fino a quel momento, non fino alle ultime battute di quella sera. 

Ricordo il responsabile del reparto elettrodomestici mentre soppesava il bicchiere tra le mani. «L’immaginazione è una lente che non deforma il reale, ma che trasforma il sogno in realtà. È una promessa di felicità che ci erge sopra l’intrico in cui erriamo, non lo nasconde ma lo neutralizza. È la porta d’accesso al mondo come l’avevo desiderato, la promessa mantenuta ai miei sogni di ragazzo.» 

Solo ora mi accorgo di come mi stesse suggerendo l’unica via percorribile coscientemente. Quel che invece percepii allora fu l’alone di solitudine che circonda i veggenti, e che mi sorpresi a scongiurare in modo non meno brutale dei colleghi da cui volevo distinguermi. «Un paio di settimane fa ho letto un articolo su Amburgo e il Natale», dissi. La lingua mi si incespicava intorpidita dal vino, e ora vorrei poter dare all’alcol la responsabilità di un’associazione così prepotente, di quelle parole di cesura che rinnegavano e respingevano l’affinità vagheggiata. Lui alzò la testa dal bicchiere e credo ci fosse aspettativa nel suo sguardo. «La polizia è entrata in una casa dalle parti del porto e ha trovato lo scheletro di un uomo morto il Natale di cinque anni fa davanti alla televisione accesa. Anche le luci delle decorazioni natalizie lampeggiavano ancora. Nessuno si era mai accorto della sua assenza.»

Il resto della cena lo passammo in silenzio.


In alto: foto di Max Kukurudziak / Unsplash.

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