Nella Tunisi degli anni Trenta, Zubaida, rampolla dei progressisti ar-Rassa’, sposa Mohsen en-Neifer e va a vivere in casa della famiglia conservatrice del marito. Un presunto tradimento però consegnerà per decenni le due famiglie a un’insanabile infelicità. Questo scandalo privato e familiare è la vicenda narrata da Amina Ghenim in La casa dei notabili (traduzione di Barbara Teresi, e/o). L’evento viene raccontato a turno da chi era presente e da chi ha raccolto voci e pettegolezzi, mai però dai protagonisti: la voce di Zubaida è sempre assente e la sua figura si ricostruisce dal riflesso nelle parole degli altri.
Ho potuto intervistare l’autrice di questo fortunato romanzo, finalista al Prize for Arabic Fiction nel 2021, che mi ha illuminato sulle molte questioni sollevate nel libro. Per esempio, i luoghi come spazio conchiuso in cui si snoda la vicenda: sono il centro dell’azione, e leggendone le descrizioni possiamo vedere che le donne vivono uno spazio privato, lo spazio famigliare della casa. Ma Zubaida cerca di occupare lo spazio pubblico, con il corpo e la voce, come passo per costruire la propria identità al di là dei confini prestabiliti. Chiedo ad Amira Ghenim come ha realizzato questo mondo finzionale eppure così aderente al reale. «Contrariamente a come si potrebbe pensare, Zubaida, col suo pensiero rivoluzionario, non è un modello eccezionale per le donne tunisine nel periodo tra le due guerre. In virtù dell’impegno delle famiglie cittadine nell’educazione delle ragazze, e anche grazie all’apertura data dalle diversità nel mosaico che compone la società tunisina (una comunità italiana molto numerosa, insieme con quelle maltesi e francesi), e dalla molteplicità di gruppi religiosi (a maggioranza musulmana con minoranze ebraiche e cristiane), una ragazza tunisina prende presto coscienza dell’ingiustizia sociale che le viene imposta dall’oppressione maschile. Dal primo quarto del Ventesimo secolo, le donne di Tunisi hanno alzato la voce condannando lo sciovinismo maschile e il sessismo. Alcune di loro hanno osato mettere in discussione l’hijab come strumento di oppressione e hanno rivendicato il proprio diritto a non indossare il velo. Gli archivi della stampa tunisina conservavano le parole di Manoubia Al-Wartani (1924), e di Habiba Al-Manshari (1929), che chiedevano in pubblico la liberazione della donna dalle catene della tradizione e osavano togliersi il velo davanti al pubblico.
Zubaida è quindi il risultato di questo movimento sociale nato presto in Tunisia grazie all’educazione delle donne e a un’intera generazione di abili riformatori, tra cui Taher Al-Haddad (1989-1935), che è uno dei personaggi del romanzo.»
Dalle promesse, e le speranze, delle primavere arabe fino a questi giorni di intensi conflitti sociali, si potrebbe ritenere che la Tunisia non abbia ancora emanato il suo vero potenziale, come alcuni dei personaggi del libro – e mi vengono in mente Taher e Hind – sognano. I tunisini assieme ai migranti sono in piazza a manifestare per le condizioni economiche che peggiorano senza scampo, per i prezzi che si alzano, perché nei supermercati manca tutto, dall’acqua in bottiglia allo zucchero. E il presidente in carica Saïed soffia sul fuoco del razzismo e della repressione, mentre i giornalisti sono in carcere e i migranti non regolarizzati vengono cercati casa per casa dalle autorità.
«Credo che Taher al-Haddad abbia realizzato il suo sogno postumo – dice Ghenim – Sebbene le sue idee siano state condannate dai conservatori, quasi tutte le proposte del suo libro Le nostre donne nelle leggi e nella società islamiche del 1930 sono state incluse nelle misure progressiste tunisine mirando all’uguaglianza tra donne e uomini sin dagli albori dell’indipendenza.»
Scriveva Al-Haddad che «una società in cui le donne non sono liberate, non è veramente libera», rivendicando il diritto di successione per le donne e l’istituzione di tribunali per il divorzio anche su richiesta della moglie. Lo stesso Bourguiba, allora primo ministro e poi primo presidente della Tunisia, garantisce alle donne i diritti fondamentali così come sognati da Al-Haddad.
Continua Ghenim sulle primavere arabe: «La rivolta della rivoluzione nel 2011 ha scatenato una nuova forza politica in Tunisia che rappresentava una vera minaccia per gli ideali rivoluzionari di prosperità economica, libertà civili e uguaglianza di genere. Attualmente stiamo pagando i costi di oltre dieci anni di lotta per preservare il modello sociale modernista tunisino. Nel frattempo non stiamo sfruttando al meglio il nostro potenziale. Purtroppo la Tunisia rimane un paese di contrasti: mentre sono stati compiuti importanti passi avanti legislativi verso una società moderna, la promessa di uguaglianza tra i cittadini non si è ancora mantenuta. Ecco perché Hind nel romanzo e migliaia di donne tunisine sognano ancora una Tunisia migliore.»
Al centro del libro ci troviamo la verità: quante voci, quante molteplici verità possiamo costruire, quante storie vengono narrate da un singolo fatto. E la rivelazione che è al cuore del libro – il presunto tradimento di Zubaida – è messo in scena come se fosse l’evento principale che trascina le vite di tutti i partecipanti in cambiamenti profondi. Ma qual è il significato della verità in un’opera di fiction? «L’intero romanzo si basa su una delicata mescolanza tra verità storica e fatti immaginari. Taher è una persona reale che ha vissuto a Tunisi durante i primi tre decenni del Ventesimo secolo. Zubaida, tuttavia, è pura immaginazione. Il grande dilemma per me era combinare con successo i fatti storici con le entità immaginarie che popolano il romanzo. Come posso raccontare una storia su uno dei più grandi simboli del pensiero modernista tunisino senza danneggiarne l’immagine e senza cadere nella narrazione storica? Affrontare questa sfida ha richiesto di riconsiderare la verità sia nella finzione che nel mondo reale. La stessa struttura del romanzo riflette questo approccio. In effetti, lo stesso grande evento è riportato in modo diverso da più voci per richiamare l’attenzione sulle nozioni di relatività e soggettività rispetto alla verità in generale. Vengono narrate diverse storie, ognuna falsa a modo suo, ma tutte plausibili. L’obiettivo principale era attenersi alle possibilità e poi lasciare al lettore l’interpretazione di ciò che considera la verità. Con questo in mente, ho scelto di nascondere le voci sia di Zubaida che di Tahar. La loro versione di ciò che è realmente accaduto in quella notte terribile falsificherebbe la testimonianza degli altri personaggi e rovinerebbe l’intera storia.»
Quando rammento Shahrazād e il modo in cui la protagonista delle Mille e una notte racconta la sue storie, Ghenim mi mostra una strada diversa: «Il paragone con Shahrazad che è davvero molto diffuso nella critica occidentale quando si tratta di romanzi scritti da donne arabe.» Incasso il colpo. «Vorrei sottolineare qui che Shahrazād non rappresenta più le scrittrici arabe. Ha creato storie per compiacere il Sultano ed evitare una punizione mortale. Le donne arabe scrivono romanzi per compiacere se stesse e sfidare tutte le fonti di repressione. Questo è il motivo per cui la bella e intelligente donna sottomessa di nome Shahrazād non è più rilevante per la scrittura delle donne contemporanee.» Mi riprometto di superare finalmente l’orientalismo burtoniano delle Mille e una notte e mi metto in ascolto: «Per quanto riguarda ora la struttura del romanzo, è vero che un unico evento lega tra loro tutti i capitoli del libro. Ogni capitolo è narrato da uno dei personaggi che hanno assistito alla notte terribile vissuta dagli abitanti di questa Casa dei notabili. Tuttavia ognuno di loro ha i propri tormenti, e tutti, nessuno escluso, ne approfittano per raccontare la propria esperienza personale.» Il risultato è una narrazione orale ricca di storie secondarie, che non perde di vista il filo conduttore che attraversa tutto il romanzo.
La casa dei notabili è un romanzo che ha legami forti con la storia della Tunisia, e non manca di raccontare di Habiba Msika, ballerina, attrice e cantante tunisina, la «tigre dagli occhi verdi» che calcava i palchi negli anni Trenta, bruciata viva, si dice, dal suo ex amante. E poi di Tawhida Ben Cheikh, prima donna tunisina a diventare medica, pioniera della medicina delle donne, della contraccezione e dell’aborto. Amira Ghenim lega immaginazione e storia in modo mirabile, dopo lunghe ricerche storiografiche: «Sebbene la scrittura di romanzi si basi sull’immaginazione, è necessaria una grande quantità di ricerca per immergere completamente il lettore nel mondo del romanzo. Nel mio caso, la ricerca ha sempre fatto parte della mia vita quotidiana in quanto sono ricercatrice nel campo delle scienze umane. Così, quando ho deciso di scrivere un romanzo su quasi un secolo di storia, ho iniziato lavorando su un’ampia bibliografia. Ho letto tutto quello che potevo trovare sulla Tunisi degli anni Venti e Trenta per riprodurne il più fedelmente possibile i costumi, le tradizioni, gli avvenimenti importanti e i personaggi simbolici. Occorre però ricordare che il lavoro di ricerca funziona esattamente come i fili di un burattino, e deve quindi restare invisibile al lettore.»
Il libro racchiude due visioni del mondo contrapposte, ognuna rappresentata da una famiglia importante, gli ar-Rassa’ e gli en-Neifer, che sono proprio i notabili del titolo, l’aristocrazia tunisina. Le due famiglie si fanno da controcanto dipanando gli eventi lungo la narrazione. La famiglia ar-Rassa’ è aperta e moderna, la famiglia en-Neifar è, al contrario, retrograda e conservatrice. La trama del romanzo incomincia proprio dal conflitto insanabile che deriva da queste differenze. «Il motore principale della trama era seguire le contraddizioni della società tunisina durante gli anni Trenta» mi dice Ghenim. «Questo periodo è stato molto ricco della nostra storia nazionale, portando a fruttuosi scontri in vari campi: politico, sociale e intellettuale. Il romanzo ha cercato di mostrare queste contraddizioni e le loro radici storiche. Permette al lettore di intravedere i loro effetti e come si riflettono nella Tunisia di oggi. Attraverso i personaggi in conflitto, anche quando vivono insieme nello stesso ambiente e a volte sotto lo stesso tetto, il romanzo stabilisce due visioni morali ed etiche del mondo, una ferocemente opposta all’altra.» Questa lotta è il nocciolo della storia e la sua conoscenza è essenziale per comprendere i cambiamenti sociali in atto in Tunisia e in contesti arabi affini.
Nel romanzo, non possiamo leggere la versione della storia di Zubaida, e attraverso gli altri sappiamo che è spezzata nel corpo, ma la sua mente brillante rimane forte, anche dopo la sconfitta. Mi sembra una forza simbolica che si riverbera sugli altri, come Luiza. «Per me Zubaida è sempre stata estremamente forte e, anche spezzata nel suo corpo, è ancora potente come se non avesse perso nulla della sua forza dopo l’incidente. Ciò è dovuto probabilmente al suo carattere ribelle, che ha sempre avuto fin dalla giovane età. Ha trasmesso la sua forza a Luiza o è il contrario? Lascio al lettore scoprirlo.»
Zubaida è stata allieva di Al-Haddad e delle sue istanze femministe, e ha poi rivelato un temperamento tenace e brillante. E le altre donne? «Secondo me, tutte le donne del romanzo sono forti ma in modi diversi. Anche quelle che all’apparenza sembrano sottomesse hanno un’incredibile resistenza. Penso in particolare a Khaddouj, la serva nera degli en-Neifar, che nonostante il suo status sa come gestire la propria vita. Penso anche alle due matriarche lella Bchira e lella Jnaina che hanno gestito entrambe la casa di famiglia con polso di ferro.»
Amira Ghenim ha scritto delle contraddizioni della società degli anni Trenta, ma la maggior parte di quelle lotte si vivono anche oggi. Quale può essere il ruolo della letteratura e della scrittura in questi giorni? «Penso che la scrittura abbia sempre contribuito alla creazione di uno spazio di discussione ragionevole, a quella che Habermas chiama “etica della discussione”. Intesa in questo modo, la narrativa è allora un modo di stare al mondo e, si potrebbe dire, di viverlo. Ogni storia racconta una trasformazione e cerca di mostrare la specificità dell’esperienza umana, e permette di condividerla. Ogni romanzo è infatti, per noi che lo ascoltiamo o lo leggiamo, la nostra interpretazione di ciò che ci racconta il suo autore, ma anche la sua versione degli eventi che racconta, e ancora la nostra comprensione del presente attraverso un rapporto con il passato. Così è la conoscenza, diversa da quella della conoscenza logico-matematica, più intuitiva, più presuntiva, più congetturale. Per quanto mi riguarda, ogni volta che scrivo un romanzo cerco di raccontare la vita come la vedo io. Altre versioni della stessa storia sono ovviamente possibili. Una storia ne chiama un’altra ed è così che la conoscenza progredisce.»
Foto © Uta Scholl / Unsplash.
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