L’ultima volta che sono tornato in Sicilia, pochi mesi fa, è stato per un lutto.
In questi casi lo si scopre sempre di colpo. A me la chiamata arriva mentre sono a casa di un amico, anche lui siciliano. Tornato nel mio appartamento vado in bagno, accendo la luce e ricompongo allo specchio quanto rimane di me, subito dopo cerco un biglietto. C’è un treno veloce alle sei del mattino. Va bene.
La stazione centrale di Milano sembra una grande voliera, sotto le sue sbarre i treni si muovono a rilento per poi accelerare a Rogoredo, e prendere finalmente il volo lungo le pianure della mediopadana. Il mio Italo parte dal binario 11. In questi anni da fuorisede, prima come studente e ora come insegnante, mi è capitato di tornare con qualunque mezzo di trasporto, compresi bus, auto, aerei con scali notturni e navi in partenza da Livorno e Genova in direzione Catania.
È qui che sono nato, all’inizio degli anni novanta. Sono cresciuto nella redazione in cui lavorava mio padre. Tra carte e menabò, quei fogli pasticciati con geroglifici d’inchiostro scuro, grazie alle fotografie sbiadite attaccate alle pareti ho imparato i volti degli uomini e delle donne che hanno fatto grande questa terra, come ho imparato i volti di quegli altri, degli altri, sì. Una mappa ne veniva fuori, se eri bravo a unire tutte quelle facce e quelle acconciature gonfie di politici, preti e cantanti in visita su via Etnea, di funerali di stato sfocati, feste religiose e pentiti e magistrati e poeti e mafiosi e cornutazzi. Voltandomi indietro mi pare sia sempre stato così, quasi come se l’isola fosse per sua natura plurale e si trattasse di distinguere tra alcune sicilie e altre ancora, quasi ci fosse una battaglia per il suo stesso cuore, una battaglia tra chi il male lo combatte e chi lo fa, tra deserti e oasi.
«Chi fece questa Sicilia non la completò né ci mise le città e terre di montagna per non sapere i veri nomi e siti. Chi li sa, può aggiungere il resto a memoria.» Alla lunga l’alta velocità tappa le orecchie, le devi torturare con le dita, tappando il naso e buttando fuori l’aria: Chi fece questa Sicilia? Ne parla Sciascia in La corda pazza, ma le parole non sono sue, appartengono a un’iscrizione muraria di palazzo Steri, a Palermo. L’anonimo autore le aveva aggiunte a una sagoma vuota dell’isola per giustificarne, forse, la miseria. Nel tempo la carica metaforica ha superato le motivazioni del povero incisore, che sono andate perdute. Non ne sappiamo più niente e tutta polvere si fa la storia quando gli anni passano.
Credo che sia la memoria a riempire coi toponimi la nostra personalissima cartina di Palazzo Steri, non la Storia. Credo pure ne esistano troppe, di Sicilie: qui i nostri, qui gli altri, qui i buoni e qui i cattivi, ma il palcoscenico sempre quello è, una sagoma vuota. Ancora oggi alcuni siciliani guardano con sfiducia a giudici e magistrati, altri, la parte più corposa, li accoglie con simpatia, nel ricordo dei morti, di quelli che che mullichella mullichella hanno costruito qualcosa, con grande fatica, per pochissimo guadagno.
Il poeta premio Nobel Czesław Miłosz parlava di mappe geografiche sentimentali. Io ho la mia, Sciascia, Vittorini, Bufalino avevano la loro, una Sicilia che non forse è mai esistita. Per esempio: Conversazione in Sicilia, la Sicilia è fredda, disperata, la sua unica luce è rappresentata dal Gran Lombardo. Spunta di colpo, anche lui come me sulla carrozza del treno, anche lui come me con tratti somatici diversi rispetto a quelli canonici, un siciliano era, «ma grande, un lombardo o normanno forse di Nicosia […] autentico, e aperto, e alto, e con gli occhi azzurri. […] Doveva essere di Nicosia o Aidone; parlava il dialetto ancora oggi quasi lombardo, con la u lombarda, di quei posti lombardi nel Val Demone: Nicosia o Aidone».
Nicosia, Aidone, la Lombardia siciliana Vittorini avrebbe messo sulla mappa. A molti questa fiaba piace da matti ancora oggi. Questa dell’epoca d’oro, dei normanni, dei francesi, dei lombardi, del “fu” vichingo che in Sicilia, all’ordine dell’imperatore Federico si ritrovava a mangiare insieme a ebrei e mori, condividendo il pane spezzato per sé, giocando per la prima volta in Occidente al melting pot. Ma è forse soprattutto l’idea che ci possa essere stata un’epoca d’oro in cui la canzone era diversa, in cui erano loro, i lombardi, a venire da noi in cerca di terra e di lavoro che ci gonfia i petti di orgoglio, soprattutto a pensarla da qui, da questo treno. La documentazione storica a supporto di una minoranza lombarda in Sicilia è sempre stata nota e arrivarono davvero, all’inizio del dodicesimo secolo, dal Monferrato, dall’entroterra ligure, dall’Emilia occidentale e dalla Gallia cisalpina, occupando una linea che va dal Tirreno al Mar d’Africa, ma fu per tagliare in due le geografie militari arabe, con buona pace dell’epica aurea e dell’integrazione.
Arrivati a Roma Termini abbiamo lo spazio per una sigaretta, si ferma dieci, a volte anche venti minuti, il treno. La fumo accanto a un vecchio sceso dalla scaletta con fatica, lui se la gode, mastica il filtro come se avesse tutto il tempo, senza la fretta che ci si mette alle stazioni, con quell’ansia di restare oltre la linea gialla quando la porta si chiude. Lui è lento, serafico. Penso che Sciascia la conosceva bene questa nostra isola, lui diversamente dall’entusiasta Vittorini non riconosceva nessuna età dell’oro per i siciliani, ma molte piccole epoche di lusso per quelli che l’hanno nel tempo conquistata, accaparrandosi castelli, ville sul mare e pesce a tavola. Sciascia quella mappa l’avrebbe lasciata vuota. Nemmeno gli piaceva l’energumeno di Conversazione in Sicilia, il Gran lombardo posto da Vittorini in una posizione privilegiata. Lui che discende dai conquistatori normanni e ha la fierezza di un re è l’unico dei personaggi iniziali dotato di vera capacità critica. Altri tempi, quello era il ‘41 e il Gran Lombardo poteva in tutta tranquillità evidenziare la “puzza” che sembrava invadere il vagone dopo i discorsi misantropi e qualunquisti dei due Coi Baffi e Senza Baffi.
Esistono siciliani migliori? Me lo chiedo da sempre. Abbiamo trovato i nostri santi idoli nelle arti e nella storia solo dalle guerre di mafia e dagli esuli illustri, penso alle diaspore otto-novecentesche, da Verga a Quasimodo, da Consolo allo stesso Vittorini, passando per le volontà testamentarie di Pirandello, derise dalla storia e dagli agrigentini. Gli altri, quelli di prima (e qui aveva ragione Sciascia) sono stati conquistatori, da Archimede a Maniace, fino allo stesso imperatore Federico.
A noi rimane il sangue amaro. A me e al vecchio che qui mi ha seguito a fumare. Abbiamo parlato un po’. Adesso mi chiede dove sto andando, Catania, rispondo, lui Siracusa, dovrà allungare il viaggio ancora di un’oretta, un’oretta e mezza. Le sue dita tremano mentre porta alla bocca il filtro maciullato della Merit. Gli dico che Siracusa è una delle città che preferisco, parliamo del tempio di Atena che è diventato Duomo, degli arieti di Bronzo, poi il capotreno fischia e risaliamo. Il treno si è svuotato quasi completamente, pochissime le voci adesso, lui siede nella mia carrozza, ma due o tre file più avanti.
Dei due arieti solo uno è rimasto e con ingenti danni. È conservato al Museo Salinas di Palermo, nella sala dei bronzi, l’ho visto l’anno scorso, bellissimo, racchiude, secondo Guy de Maupassant, tutta l’animalità del mondo. Il suo gemello si è perso nei passaggi della storia, secondo alcuni lo abbiamo fuso per le munizioni durante il ’48, secondo altri lo abbiamo buttato dalla finestra nel 1820, per sfregio. Lo sentite il deserto?
Ne parla Vincenzo Consolo ne le Pietre di Pantalica, l’autore si chiede cosa avrà mai provato l’abate Fazello quando, «a dorso del suo mulo o cavallo, si trovò per primo a scoprire Selinunte, invasa d’erbe e di rovi, di serpi e uccelli, resa deserta dalla malaria, sepolta da secoli nell’oblìo. Quale terribile emozione, quale estraneamento, quale panico di fronte al titanico caos, all’affastellamento delle enormi rovine di quel tempio di Zeus nel cui centro restava diritta una sola colonna, sfida al tempo e alle furie telluriche, meridiana e rifugio d’ombra ai pastori, guida all’orizzonte di carovane arabe». Rahl’ al’ Asnam chiamavano il sito gli arabi.
Il Casale degli idoli.
Paola, Rosarno, Villa. Dopo Napoli Scorre tutto velocemente fino allo stretto. Con l’ultima luce si vede il mare Tirreno in tempesta, scuro, nel buio del maltempo. In tutti i miei ritorni in Sicilia è sempre stato lo stretto a commuovermi massimamente, per come la provincia di Messina sporge per imporsi e per come su tutto domina l’Etna, ricordandoti la discontinuità formale e strutturale tra l’Italia e l’isola. Ma scesi dal treno questa volta ci sono solo il vento e la sera che alle quattro e mezza del pomeriggio è già caduta. Saliamo nervosi sull’aliscafo, in ritardo di venti minuti e col rischio a Messina di non trovare più nulla. Il vecchio uomo mi parla di nuovo, stavolta del deserto, della terra che aveva vicino Floridia, a Solarino, che una volta era una reggia col vigneto e che adesso è tutto erbacce e deserto. Anche stavolta parliamo poco e con poca voglia. Noto che non mi guarda né si siede vicino a me. Occupiamo i nostri spazi con riserbo, sulle poltroncine blu sdrucite della nave semideserta. Poi scendiamo. Accendiamo le sigarette diretti io all’autobus, lui al treno, senza salutarci.
Alla stazione di Catania trovo ad accogliermi il faccione di un ragazzo che campeggia su un cartellone, credo sia il figlio del proprietario del chiosco: i capelli tagliati a caschetto, i grossi occhiali da sole, la tuta acetata, nella foto è seduto su un Honda SH bianco e bene si vede l’orecchino Dolce & Gabbana, tempestato di brillantini. I 18 anni di Salvo – c’è scritto sotto in maiuscolo – 6 la nostra vita!. Si torna in Sicilia per le feste comandate, i lutti, i matrimoni, i battesimi e naturalmente per l’estate. Si prende un biglietto del treno, dell’aereo, della nave, spesso molto costoso per tornare e lamentarsi coi parenti del cibo e del cielo, poi si torna su a e via al pippone sulla gestione dei beni culturali e dei luoghi d’interesse, sui disservizi e delle attese. Siamo abituati a guardare l’isola come faceva l’abate Fazello, è nostro questo estraneamento, questo panico di fronte a un caos che ci affascina e ci respinge, a intermittenza. Durante questo mio viaggio non ho mai aperto il computer, non ho lavorato, non ho scritto una parola, ma sono arrivato al funerale distrutto nella mente e nel corpo e ho stretto mani che mai ho conosciuto.
Arriviamo al cimitero nella tarda serata. L’Etna è bianca contro la notte per via della neve, si indovina appena un vuoto di stelle, a nord.
La tumuleranno domani.
La cappella della donna che sono venuto a salutare è un bellissimo monumento funebre di fine ottocento, armonicamente coperto dai muschi e incorniciato dai cipressi. Lo illumina un lampione. Dentro si muovono gli operai a lavoro, ma tutto si svolge in uno strano silenzio. Sono abituati, loro, a lavorare mantenendo intatto il silenzio.
Alla fine del lavoro, l’uomo del cimitero, scambiandomi forse per il figlio, forse per il nipote mi prende subito in disparte, con le mani sporche di calce accende la torcia e illuminando il cammino mi porta davanti al suo ufficio. Non ho il tempo di spiegare che lui inizia: «Dottore, se debbo darle il mio consiglio qui bisogna dare una bella sistemata, togliamo il muschio e pareggiamo la pietra, poi mettiamo qualche cristo in oro e imbianchiamo bene, che dice?». Sempre la Sicilia, penso, mentre annuisco e rimando a gesti. Gli dico che ci sarà tempo per parlarne quando torneremo per la tumulazione, l’indomani.
Sempre l’ariete che crolla dalla finestra. Selinunte distrutta. Ma anche questa memoria autofaga e cattiva, che pensando di fare il bene divora il bene stesso, anche questa va incisa sulla mappa. Malgrado sembri il deserto, a tratti, quest’altra parte del mondo, questo casale degli idoli.