MOL
Mol fa un balzo. Il sonno è rotto e il letto è fradicio, si siede al buio, il piede sinistro cerca il pavimento. Le gocce di liquido appiccicoso cadono dall’orlo del lenzuolo e creano una pozza. Si alza e procede verso il bagno mentre il labiale scandisce: «Dio cristo».
La pianta del piede si asciuga ad ogni passo, lasciando a terra un’impronta umida. Siede sul water e non accende la luce.
«Il sonno dovrebbe curare la veglia» pensa.
Scarica l’urina.
Torna nella stanza da letto.
Si sdraia, gira sul fianco destro, accende la radio sotto la finestra per stare con qualcuno nel letto mentre l’occhio le nasce dal corpo.
Prende le distanze dai fatti accaduti il giorno precedente tra le 18.04 e le 18.56, quando tornava a casa con il bomber macchiato dal principio di un temporale, poco prima dell’odore di asfalto bagnato. Le chiavi appese al cordino oscillavano vicino al marciapiede.
Notte.
Giorno.
La mattina è fuori dalla finestra. Se avesse un terrazzo, un balcone, una finestra intera se ne starebbe lì, mezzo e mezzo. Il cielo è terso.
Mol va in bagno, alza la tavoletta, si siede, si pettina i capelli per il senso dell’ordine.
Come ogni giorno alla sua destra il calcare incrostato nel soffietto della doccia fa da guarnizione.
Porta entrambi i piedi sull’oblò della lavatrice. L’umore dei capelli non è allineato.
Si schiarisce la voce lasciando la spazzola sulla lavatrice, accanto al lavandino.
«Quanto è irruente l’intimità» chiude la tavoletta.
Sulla punta dell’alluce destro, il bulbo è ancora umido, è uscito nella notte, sbatte per la prima volta la palpebra.
Le ciglia sono appiccicate, la pelle è gonfia e il pus circonda il perimetro del nuovo occhio.
Mol si prepara ed esce di casa, confusa. Ha deciso di non soffermarsi sui pensieri, gli avvenimenti faciliteranno.
È sulle scale di casa, si piega tutta per mettere a posto il calzino che porta solo al piede sinistro. È al telefono e ascolta all’auricolare le parole dell’interlocutore.
«Sì, mi è uscito questa notte. Un po’ sfiancata ma bene, ieri lasciavo impronte più profonde, oggi mi sembra che vada meglio. Mi sento la pelle più sottile. Sì, lo so … temo di non riuscire ad averne controllo. Ci sentiamo dopo, ti cerco io in giornata. Stai bene» pausa, «Sì, ci provo».
Chiude la chiamata si alza, resta sopra i piedi per un istante poi scende le scale. Lascia impronte meno profonde.
Al terzo piano incontra il gatto grigio.
Al secondo quello rosso.
Al primo una ragazza si tira giù il tubino nero mentre suona all’appartamento accanto alla porta da cui è appena uscita.
Al piano terra Mol si ferma alla cassetta della posta, è sempre piena santo dio, la guarda, ci penserà l’indomani a svuotarla.
Oggi c’è il vento che tira su la sabbia.
Dietro di lei passa qualcuno, Mol non si gira, si gode il vento.
Preme il pulsante, apre il cancello, esce.
Mol attraversa la strada, prosegue a destra, passa davanti alla fermata dell’autobus ed entra nel locale. Si toglie le scarpe e le lascia nel mucchio insieme alle altre, cammina verso il bancone con solo un calzino.
«Ciao buongiorno, un caffè americano, grazie».
Rilegge le note sul telefono.
Frasi sentite (e sentite):
I nuclei duali si cristallizzano, marmorei.
Non si riesce a prenotare una casa per sei al mare.
I tempi del divertimento non mi divertono.
Lo sguardo altrui completa l’azione.
Sono la goccia sul parabrezza che segue il solco di quella precedente.
Ho perso la facoltà di pensare e di parlare di qualsiasi cosa in modo consequenziale.
E io non sono la stessa nel tempo e nello spazio.
Si gioca a tennis con il supersantos.
Trova la grinza che fa da grip per avanzare.
Il cappotto lungo mi fa venire voglia di uscire.
Ti azzecco la marcia giusta dopo il folle.
Mi sbatti sugli spigoli.
Le viscere le sente strizzate mentre cerca una posizione migliore. Una modulazione tra retto e rotto.
La gola trattiene. Un tubo, un canale e uno scolo.
Mol ha raschiato le pareti, e ora il passaggio è piccolo, arrossato e graffiato, la voce è rauca, come la cornacchia che la sveglia alle sei del mattino quando è primavera e la finestra la tiene aperta.
Pensa a Crist, 12 anni. Doppio taglio, tuta nera a strisce bianche laterali su braccia e gambe, occhio castano grande, parla un romano lento. Si guarda in giro, sposta la carne sulla brace, si appoggia, sorride, ha piacere di stare e quando non parla con nessuno, non è perso e scrive lo spazio.
Mol sente la stretta allo stomaco che conosce bene e che non prova da molto tempo.
I giorni seguenti li lascia andare.
Prova a mollare le pareti del tubo, fa passare il sopra sotto e il sotto sopra inclusi
il pianto
il cibo.
MAJOR RO
Tutte le mattine il Major Ro attraversa il giardino di finto muschio verde ed esce. La casa è bianca, a due piani composta da: ingresso, grande sala con angolo cottura, scale in legno con moquette rosso scuro. Al piano superiore: camera, cameretta e bagno. Finestre ampie. Infissi bianchi e doppi vetri.
Aspetta per mettersi le scarpe, le tiene nella stessa mano entrambe, gode della plastica sotto i piedi. È una giornata di buon vento. Abbassa le palpebre sugli occhi e piega il capo, di lato. Si gode l’ampliamento.
Sposta una vertebra alla volta fino ad appendere il cranio alla colonna, come un cappotto all’attaccapanni.
«1,2,3,4,5,6,7,8».
Riapre gli occhi e riaggiusta il collo sulla linea retta.
Cammina e si siede nel mezzo del giardino.
Inspira, apnea, espira. Si appoggia sul femore sinistro e scarica il peso dall’omero al polso.
Si guarda lo spazio tra un dito e l’altro.
«1,2,3,4,5,6,7,8».
Prima di rialzarsi infila i calzini e dopo le scarpe. Si porta a quattro zampe, viene visto dal postino, si porta in piedi con imbarazzo e controlla che il femore abbia agio di movimento nella rotazione laterale.
Si rialza, si sgrulla la giacca e scuote il braccio dall’omero alle dita, tira giù la manica per coprire l’occhio sul polso destro.
Oggi c’è il vento che tira su la sabbia.
«1,2,3,4,5,6,7,8».
Arriva alla staccionata bianca, apre il cancelletto anche lui bianco, esce.
Si dirige verso il bar, come ogni giorno. Cammina.
Sono 147 passi. Con il 148esimo entra nel locale.
Conta per due volte da 1 a 8 e lancia la prima occhiata a Shed portando le pupille verso le ciglia.
Non aspettava altro che rivederla.
Si toglie le scarpe all’entrata, come c’è scritto sul cartello.
«Per favore togliere le scarpe all’entrata».
Si siede sulla panca dando le spalle a J.B.
Davanti a lui la famosa scrittrice che ieri firmava le copie alla libreria di quartiere, oggi grufola, scarna e svuota tramezzini e rustici con le mani. Lascia i pezzi rotti nel piatto, quelli che non può digerire.
Tenta di stare dritto, seduto, il Major Ro, per percepirsi esistente e occupare uno spazio. Si vede opaco,
non chiede, aspetta.
In passato ha corso dietro al più veloce.
Accadde che si scivolò via.
Aumentarsi, aumentarsi, aumentarsi. Ma all’interno non si espandeva, anzi, come un polmone rinsecchito, non teneva quasi più il cuore.
Si avvampò in un giorno qualunque di marzo senza una motivazione evidente.
Non ci fece molto caso che l’energia a sua disposizione stava evaporando in fretta.
Tenne così tante micce accese, che alla fine non poté che scottarsi, bruciò da dentro e quasi quasi bruciò vivo.
Quel giorno alle 5.48, correva sul sentiero asfaltato del parco abbastanza verde sotto la sua casa, un runner si accorse dell’avvenimento prima che l’ustione gli raggiungesse l’epidermide; lo vide battersi il petto e agitarsi mentre tutto intorno era fermo, dormiente. Alcuni versi indefiniti spingevano fuori la forza dall’azione. Il runner lo prese sotto l’ascella, lo stese a terra e gli batté il petto molto forte. Una volta spento l’accompagnò al pronto soccorso più vicino, chiamò l’infermiera, le raccontò l’accaduto e lo lasciò sulla barella nel corridoio al neon, augurandogli un semplice: «Buona fortuna».
Durante la notte il corpo emanò il liquido dal polso destro. Sulla barella, nel corridoio.
Il Major Ro non ricorda il bruciore dell’incendio e non ricorda il fluido che lo ha sciacquato. Non ricorda quella notte in cui nacque il suo primo occhio. Una notte di 4 anni e mezzo fa.
Da quel momento raffredda a fatica il suo interno e la sua ossessione si allenta solo nell’attesa, per questo conta.
«1,2,3,4,5,6,7,8».
Volta il viso verso destra poi verso sinistra, sposta una vertebra alla volta fino ad appendere il cranio alla colonna vertebrale, come un cappotto all’attaccapanni.
J.B.
J.B. è vestita di toni scuri. Ha più strati sulle spalle e non si capisce dove siano i bordi.
La testa è sul braccio, il braccio è sul tavolo, il volto è girato e guarda fuori dal locale, l’occhio sulla calotta cranica segue gli spostamenti della cameriera.
J.B. aspetta le uova strapazzate, il toast prosciutto e formaggio e la centrifuga di spinaci e cetrioli.
I tre occhi del cranio incollano il davanti con il dietro.
La mano è gonfia. I fluidi partono dalla gola, attraversano le clavicole, sorpassano l’omero e scendono a fiotti verso l’indice, li sente. Il braccio penzola verticale. Il liquido scende e porta con sé pezzi fatti a brandelli di materie vive e non vegete. Bolle, restringimenti venosi, grumi e scarti.
La testa non riesce a sollevarsi di un millimetro dal tavolo. Non esiste rilascio senza sostegno.
«Presenziare, esserci, sorridere e per favore togliere le scarpe all’entrata».
Si ritrova a spostare millimetri di carne e ossa.
J.B. è tutta lì e perde il suo tempo mentre fa scivolare la fronte sulle nocche per verificare che sia ancora in sé. Una nocca dopo l’altra.
Abbozza un minuscolo sorriso ai lati della bocca e riposa un attimo la vista, davanti e dietro.
Il volume percettivo è basso e l’intorno ronza soltanto.
Oggi c’è il vento che tira su la sabbia.
Negli intervalli neri, quelli tra un battito di palpebre e l’altro, ci mette le immagini sue, quelle che girano nella testa.
Bambina, giocare sui tapis roulant della stazione dei treni vicino casa, tutto intorno ci sono i grandi tubi gialli che disegnano delle V, una al dritto e una al rovescio e così via. Corre avanti e indietro sui carrelli di metallo. Il padre è lì accanto mentre legge il giornale. Si rivede alla porta nell’ingresso quadrato della casa della nonna, le pattine a sinistra per terra e le due mila lire nella piccola scatola tonda sul mobile di legno poco distante.
J.B. annuisce, mento su e mento giù mentre Shed cammina con distrazione e annoiata lentezza dal bancone ai tavoli e dai tavoli al bancone. Quando si ferma, tutti intorno se ne accorgono. Qualcuno alza la mano e si ricomincia di nuovo.
SHED
Shed guarda dritto davanti a sé mentre fa scivolare l’olio sulla superficie della padella. Circolare, inclinato, circolare.
L’occhio sulla rotula sinistra si trova davanti al vapore della lavapiatti. Nonostante prenda il cortisone, il collo sembra spesso spezzarsi avanti o indietro. Succede sempre in un istante preciso, il subito prima. La ricerca della ricezione non era l’obiettivo di Shed ma il suo stato naturale. Ha paura di costruire un’esistenza che sfila senza lasciare ricordi e per questo scrive tutto quello che non dice più e che non vuole dimenticare.
Oggi il vento tira su il pavimento di sabbia, la solleva a pochi centimetri da terra creando un battiscopa di fumo. Fenomeno che si manifesta in media 47 volte nelle stagioni da novembre a marzo.
Lo ha segnato nel suo taccuino.
Shed porta il grembiule verde acqua, quello corto. Davanti a lei c’è J.B. sciolta sul tavolo con la schiena ricurva. Le dita sono gonfie, a terra la sua pozza di liquido appiccicoso.
«È zuppa questa qui, aspetto che finisca di spurgare e poi sgobbo».
Sussurra tra le labbra.
Shed posa la padella. Sbatte le uova con poca concentrazione, le mette sul fuoco e le mischia piano col cucchiaio di legno mentre guarda e non guarda il nebbiume di fuori. L’occhio rotuleo si riposa. Ha generato un occhio pigro Shed, nella notte della creazione, ha spurgato tutta l’esposizione che l’ha caratterizzata per l’intera vita, la pigrizia è la sua forma attuale. Troppo aperti erano i suoi confini, non c’era spazio per nulla, nemmeno per una azione concreta. Una fatica. Ogni tanto da dietro il bancone risponde con voce alta e strascicata ai clienti che cercano la sua attenzione, senza nemmeno alzare lo sguardo.
«DICAhhhh arrivo subito».
Le uova vanno impiattate.
Inspira ed espira. Sono le 08.48 e vorrebbe finire il turno.
Oggi c’è il vento che tira su la sabbia.
Si dirige verso il tavolo di J.B., appoggia con sciatteria il piatto facendolo slittare per qualche centimetro. La centrifuga evaporerà le vitamine, le uova diventeranno fredde, il toast si farà gommoso nell’attesa del tempo in cui l’occhio sarà uscito.
È entrato.
Lui è entrato, guarda in basso, si toglie le scarpe nere lucide, le mette dietro, un po’ imboscate, sperando che non siano le prime ad essere rubate o scambiate da un avventore distratto o da uno molto furbo.
Shed lo vede bisbigliare tra sé e sé i numeri che separano il sentire dall’azione.
Prende nota.
Si abbassa per slacciarsi le scarpe, ha i mocassini neri, lucidi, li mette dietro altre scarpe, sembra che le nasconda. Riconta. Mi emoziona vederlo muoversi. Mi emoziona perché è unico.
Il taccuino lo tiene sotto lo strofinaccio con cui pulisce il bancone. Nel taccuino raccoglie i fonemi che non riesce più a pronunciare. Shed ha tolto la vibrazione, afona, utilizza la penna per lasciare una traccia.
La signora con il tailleur giallo sbiadito è entrata, ha gli occhi bassi, mi saluta a mezza bocca, mi genera tristezza.
Non sono uscita di casa per i due interi giorni liberi, le scritte apparse nella via sotto casa mi buttano nello sconforto verso ignoti.
Provo l’emozione sotto la pelle quando ti vedo. Sei unico, questo è emozionante.
Conta e abbassa il mento verso la gola, la testa pesa e ha i numeri dentro.
L’ora legale non c’entra nulla quest’anno.
La città è un passaggio di battute che non aspettano una risposta.
Oggi non si sono generati spostamenti.
Sono arrabbiata.
Sono pentita di essere arrabbiata.
Avere un sapere e un sapore.
Schubert va bene per ogni situazione.
L’amore è un sottofondo.
(dal 03-11-3067 al 21-11-3067)
In alto: foto di Mainak Bose / Unsplash.
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