Come si fa un libro? Un giorno, W.G. Sebald rispose a questa domanda: «You have this string of lies, and by this detour you arrive at a form of truth which is more precise, one hopes, than something which is strictly provable» («Prendi questa stringa di menzogne, e con questa deviazione arrivi a una forma di verità che è più precisa, si spera, di qualcosa che è rigorosamente provabile»). La formula è di una chiarezza frastornante, ma non è di facile applicazione. Per “stringa di menzogne”, cioè l’invenzione, ci si può riferire bene o male a quello che uno intende per ispirazione, o creazione letteraria. E va bene. Ma come si organizza questo detour, questo giro lungo del cervello che magicamente deve arrivare dove la strada solita non arriverebbe mai? Come si ottiene, in altre parole, qualcosa che nasce dal nulla e tuttavia è vero? Con Tessiture di sogno, edito recentemente da Adelphi nella traduzione di Ada Vigliani, lo stesso Sebald ci viene di nuovo in aiuto. In questi raccolta di scritti sparsi, pubblicati in Germania nel 2003 sotto il nome di Campo Santo, si trovano non solo brillanti note su personaggi che vanno da Wim Wenders a Bruce Chatwin, ma, come nascoste dietro di esse, delle considerazioni più generali sulla scrittura, cioè sull’arte di organizzare le bugie per arrivare alla verità. E non sorprenderà che sia il “giro lungo” di Sebald stesso che ne esce maggiormente illuminato – questo perché forse, parafrasando Proust, si può dire che ogni scrittore, quando scrive di qualcosa, scrive di se stesso.
Se la maniera di Sebald autore di fiction è un’ibridazione con la forma-saggio, allora sarà forse curioso, per il lettore italiano, vederlo all’opera come critico “puro” – tanto più che il primo saggio qui raccolto, sul Kaspar (Hauser) di Peter Handke, ha 15 anni in più di Vertigini. Se, francamente, c’era da aspettarsi che in uno scrittore così levigato, così monotono nella sua sicurezza anche queste prime prove nascessero già compiute, più sorprendente è vedere come la contrainte del saggio critico non intacchi minimamente la rigorosità del dettato, la gabbia di riferimenti, il movente per così dire etico della scrittura, e mille altri tratti che fanno la prosa degli Anelli di Saturno o di Vertigini. Qui tuttavia l’esposizione è pur ordinata diversamente, e nomina i suoi modelli a carte scoperte, senza celarli e impastarli negli angoli del racconto. Nel saggio sul Kaspar il movimento magmatico della scrittura si tiene stretto alla forma-recensione, e si permette divagazioni solo se giustificate esplicitamente – poiché l’oggetto del saggio è, per così dire, obbligato, e non può essere fantasmatico (come in Austerlitz). Così la tesi antropologica del primo articolo, il tentativo di rintracciare la filogenesi culturale dell’uomo nell’ontogenesi linguistica e sociale di un experimentum umano, viene svolta con vertiginose aperture nietzscheane; e la chiusa con la quale si illumina d’un tratto il futuro è esplicitamente programmatica: la letteratura deve essere fedele «alla lingua asociale, alla lingua bandita», comunicare «le immagini opache di una ribellione spezzata». L’intensità, la terribilità di questo articolo, l’unico degli anni Settanta, sarà raggiunta poi solo a tratti.
Seguono gli articoli degli anni Ottanta, tutti dedicati a uno di quei motivi tematici che i lettori di Sebald conoscono bene: il rapporto tra letteratura e colpa nella Germania del secondo dopoguerra. Si può dire, per la persistenza e per lo slancio etico con cui ne ha parlato, che questa indagine sia stata la missione di Sebald; quasi un’attualizzazione della sua vocazione ad indagare la distruzione in generale. È una storia che ricorda quelle dei suoi libri: il giovane W.G., disgustato dal silenzio intorno a lui sui fatti di solo dieci anni prima, scappa in Inghilterra, dove si dedicherà a indagare le ragioni materiali di quel silenzio, e non smetterà mai. Dire le ragioni materiali significa dire le responsabilità, perché gli autori hanno nome e cognome, e allora il critico può farsi netto, e affermare che gran parte del Diario di Grass «non regge a uno sguardo critico»: perché? Perché se si vuole “ricostruire la verità”, oggi la letteratura non può più farsi bastare le proprie forze. «L’unico modo per controbilanciare il sentimento soggettivo del proprio personale coinvolgimento nel genocidio» scrive Sebald nel saggio su Peter Weiss, è «porre al centro del discorso le condizioni e le precondizioni sociali oggettive della catastrofe»; e similmente l’intento dell’arte di Alexander Kluge è di «mostrare nel dettaglio il carattere funesto che è stato sinora la tendenza dominante della nostra storia». Sono frasi che si potrebbero leggere benissimo a proposito di Sebald stesso; e del resto anche il Sebald più tardo usa gli autori come materiale per scrivere la propria soggettività. Per questo ammira il «sobrio commentario, che non cerca mai di spingersi oltre i limiti dell’oggetto trattato» di Hanns Zischler su Kafka. E similmente sono utili le descrizioni lunghe, vertiginose, che procedono per addizione, così che una povera «fredda damigella» in un libro di Hildesheimer deve:
«Affettare il salame e avvolgere gli asparagi freddi in fette di prosciutto, infilare le olive sui bastoncini salati, preparare sottilette di formaggio e ventaglio di cetrioli, dividere a spicchi i pomodori, dentellare i ravanelli, tagliare le cipolle a rondelle, distribuire cubetti di gelatina sui vassoi, e infine disporre gli affettati su un letto di insalata»
La vertigine che ci coglie leggendo un elenco simile ci stranisce; ma, come spesso succede in Sebald, basta leggere oltre per capire perché. Qualche pagina dopo la stessa idea riappare, travestita e riscritta “usando” un altro autore – Nabokov ad esempio, che scrive come da una mongolfiera, portandosi sempre più in alto, oltre biciclette, aerei, montagne, seguendo «una prospettiva che potremmo definire a volo d’uccello». E non siamo noi che guardiamo, ma «un osservatore invisibile, il quale sembra avere una migliore veduta d’insieme non solo rispetto ai personaggi del racconto, ma anche rispetto al narratore e all’autore, e che di quest’ultimo guida la penna; un espediente che permette a Nabokov di vedere dall’alto il mondo e se stesso nel mondo». Vedere il mondo e se stessi nel mondo è il progetto letterario di Sebald: arrivare a uno sguardo sinottico che, «a patto di rievocare minuziosamente gli oggetti da un pezzo caduti nell’oblio», annulli finalmente lo scorrere del tempo; ma questo lo può fare solo guardando «il mondo riflesso nell’occhio di una gru». Non è chiaro? Basta aspettare qualche pagina, e troviamo un esempio di questa gru a cui appaltare lo sguardo. È Hitler; o meglio, è l’Hitler del Trionfo della volontà, che Leni Riefensthal gira tanto in alto, che «a quell’altezza c’è solo il cielo»: a tale altezza si trova il Führer in volo verso Norimberga, «un essere numinoso che non si vede mai (ma gli spettatori vedono tutto attraverso il suo occhio divino, sospeso per così dire sul mondo)».
Ma non bisogna credere che questa tensione verso l’oggettività sia solo un modo di ripararsi dai danni della soggettività sentimentale. C’è un lato propositivo, poietico, in questo metodo, se si seguono le parole di Bowie citate a proposito di Kluge: «the most unmediated document…loses its unmediated character via the processes of reflection the text sets up. History is no longer the past but also the present in which the reader must act» («il meno mediato tra i documenti…perde il suo carattere non mediato attraverso i processi di riflesso che il testo istituisce. La storia non è più il passato ma anche il presente nel quale il lettore deve agire»). E se pure questa tensione non è il frutto del «realismo ossessivo e [del]la…mania terminologica» che muovono la «prostituzione letteraria» di Balzac quando, ne La pelle di zigrino, descrive la misteriosa e fitta bottega nel quale ha fatto entrare Raphaël, essa, come il modo del francese, arriva ad aprire «vaste prospettive sugli abissi onirici dell’immaginazione». Il massimo esempio di oggettualità letteraria, l’elenco degli oggetti e dei libri nella bottega, promette secondo l’autore un potere eccezionale: «vedere i miliardi di anni e i milioni di popoli di cui la debole memoria umana ha perso il ricordo». A chi ha conosciuto Sebald con Austerlitz forse tornerà in mente il passaggio in cui, dietro la fitta nebbia della stazione di Liverpool Street, riaffiorano al protagonista «lacerti di memoria che cominciavano a vagare alla periferia della coscienza», e tutt’a un tratto la distanza tra passato e presente sembra abolita; ecco, questo sguardo così particolare, che per un momento sembra unificare passato e presente, ha un’ascendenza inaspettata. È il Kafka dei Diari, e alcune tra le pagine più belle di Tessiture di sogno sono quelle dedicate al rapporto che nei Diari questi scopre tra sé e il corpo degli altri. Quando Kafka osserva il «bianco incerto di una scollatura», scrive Sebald, sente la lacerazione tra la coscienza di una distanza costitutivamente incolmabile e un desiderio insaziato; ed è in questa lacerazione che si vede, abbracciata all’eros, la morte. Sia l’osservatore che l’osservato sono, qui, ridotti quasi a oggetti: il primo costretto a uno «sguardo che tutto disvela, che tutto penetra, [e che] soggiace alla coazione a ripetere», il secondo a essere interamente scarnificato, scomposto in parti morte. La distanza non porta più la dolcezza del mistero, poiché, come dice la Morte in un testo di Nossack, segreti non ce ne sono; anzi, l’assenza di segreti è quel che conta. Kafka ci appare in una posizione insolita, quasi di voyeur al senso letterale; e nel suo toccare la morte perviene come a «il puro guardare, un’ossessione, in cui il tempo reale è superato e, come qualche volta in sogno, i morti, i vivi e in non ancora nati si ritrovano insieme sullo stesso piano». Non è un caso che lungo tutta la raccolta riaffiori, intermittente, il tema dello spiritismo.
L’indagine di questo sguardo unificatore è uno dei modi coi quali Sebald inquadra e lega insieme Kafka e Nabokov, Chatwin e Weiss; ma non si riesce a non pensare che li stia legando anche a se stesso. Del tratto, di ciò che in una certa misura apparterrebbe a Kafka o Nabokov, Sebald si appropria proprio col gesto di far ripetere a loro le pagine dove esso emerge. Viene più naturale pensare allo sbocco nella finzione, allora. Se un narratore puro esprime se stesso attraverso dei personaggi di fantasia, Sebald usa persone realmente esistite; e se pur la finzione è lo strumento più adatto, partire da un dato del tutto fittizio è «di pregiudizio alla scrittura della verità». In questi brevi saggi, la tensione nell’esposizione si avvicina alla tensione narrativa, e il modo in cui Sebald unisce i puntini delle sue considerazioni e citazioni somiglia a quello di un detective che spieghi da capo a coda la cronologia di un delitto misterioso. Essi sono critici, perché danno luce ad angoli di opere altrui, e però ci sembra sempre di aver letto anche dei saggi su Sebald. E perché no? I libri di Balzac non danno anche più informazioni su di lui che tutte le pagine critiche del mondo?
La prima sezione del libro, i quattro racconti còrsi scritti intorno al 1995 (e già pubblicati nella Biblioteca minima, così come i Moments Musicaux che qui chiudono il volume), sembra dare un corpo a questa tendenza alla narrazione. Sebald aveva, secondo le sue stesse parole, un’idea di fare un libro sul soggiorno in questa regione così aspra e misteriosa, ma la morte prematura dello scrittore ci costringe a sognare cosa sarebbe potuto venire fuori. Si intravede qui però un carattere dominante, un tono denso e inquieto. Ajaccio, il racconto che apre la raccolta, e una sorta di esempio letterario degli anni degli Anelli, sembra quasi uno di quei racconti ottocenteschi in cui il protagonista arriva in città e, incapace di starsene con le mani in mano, va incontro ai casi della vita come per voglia di avventura. Ma sembra anche, con la sua struttura ad anello, una catabasi, un breve sguardo dentro l’inferno, mostri inclusi. La pigra giornata di Sebald ad Ajaccio è un sistema a rete di visioni che si rispondono, e di rado si vede dell’azione vera e propria – come se l’azione non fosse che un rito per evocare la visione.
In questo contesto, ridotti al minimo, i fatti finiscono per diventare per lo più fatti psicologici. Quando il narratore ci racconta i suoi primi passi ad Ajaccio, ci sembra di essere ancora nell’anticamera del racconto. «Animato dalla sensazione di essere libero e senza legami», sgattaiola per i vicoli, sbircia i nomi sulle cassette delle lettere, si perde a fantasticare. Ma questi non sono gesti, e stancano presto, «poiché nessuno può davvero permanere in se stesso e tutti noi dobbiamo sempre prefiggerci qualcosa di più o meno ragionevole». L’avventura comincia allora una volta esauritasi la realtà, e con l’ingresso dell’esterno nelle azioni del protagonista. Con muta ironia Sebald mostra di aver compiuto il suo primo atto “vero”, cioè andare al museo, quasi fuori di sé, guidato da una forza estranea, quasi dovesse farlo. Allora non ci viene descritto nessun movimento esteriore, ma, come per magia, ci ritroviamo da un punto all’altro della mappa, e non abbiamo lasciato un momento i pensieri del nostro narratore. Quando questi entra nel museo, sembra il cavaliere che entra nella selva; e le meditazioni sugli abitanti di questa selva, la descrizione delle emozioni che suscitano e dei misteriosi legami fra loro, sono l’oggetto di questi racconti. Come in un teatro d’ombre, scorrono davanti al lettore le immagini di antichi «eroi formato mignon», cervi di eleganza orientale, «cacciatori onirici», e si rincorrono, e si mescolano fra loro, e accanto a loro come per eco i nomi di Edward Lear, Dorothy Carrington, Flaubert…
Ma ai racconti còrsi di Tessiture di sogno manca il respiro ampio e squadernato di quelli degli Anelli. Nella loro costruzione si intravede una certa frenesia, un’ansia di legare nel laccio più stretto possibile i fantasmi che si affacciano alla mente del narratore. Qui la densità tematica sembra suggerire un’urgenza; le figure del racconto sembrano fissate in una rete serrata. Se negli ampi affreschi degli Anelli c’era lo sforzo strenuo di riprodurre le flâneries mentali dell’autore, lunghe strade che con una strana coincidenza di leggerezza egravità ordinavano, come in una pala, vasti paesaggi mentali i cui dettagli sembrano luccicare, qui c’è una rapidità, una serratezza, come di chi deve dire una cosa nel più breve tempo possibile. Nella Corsica aspra, preso tra «serpentine spaventose» e «dirupi quasi verticali», non c’è posto per le ampie virate degli Anelli – le transizioni sono improvvise e sorprendenti, e Sebald che le evoca «simile a chi padroneggi l’arte della levitazione» sembra avere la grazia di un genio della lampada. Ad ogni detour del periodo sebaldiano una nota nuova sembra risuonare dal tamburo dell’immagine, e il lettore d’un punto si ritrova incantato da un brano da camera, che però assomiglia sinistramente a un rito condotto per calmare un po’ i demoni della memoria… Le maglie serrano più strette, Sebald ci distrae per un secondo, e in un baleno ci troviamo da un lato all’altro di Ajaccio, e del racconto.
Questo procedere, così apparentemente libero e leggero, sembra portare con sé un’idea di fato. È difficile spiegare altrimenti l’ordine, apparentemente casuale, con il quale vengono organizzati i racconti – non è l’organizzazione che fa risaltare le corrispondenze, sembra dirci Sebald; ma sono le corrispondenze, evidenti alla mente dell’autore, che impongono l’organizzazione dei fatti. E se crediamo a Quine, per cui i fatti, in fondo, sono epistemologicamente comparabili agli dèi omerici (la fotografia, secondo Sebald, «altro non è di fatto se non la materializzazione di fenomeni spettrali in virtù di un’arte magica molto sospetta»), appare che la grande prova di Sebald sia stata innanzitutto di farci vedere che una più profonda conoscenza è ottenibile prendendo eventi e oggetti come tracce, segnali che suggeriscono la direzione in cui posare l’occhio, senza mai dirla. All’interno della nuvola candida della bella pagina, i fatti del racconto sono liberi di capitare, leggeri e terribili insieme come ciò che è nudo. Una volta che il narratore rinuncia a un pezzo della propria soggettività per accettare i dati esterni, per farsi tramite di essi e non inventore, un senso di libertà lo pervade, siccome agisce senza costrizione, e facendosi portare dal caso. Ma bisogna, allora, credere che le corrispondenze che si affacciano alla mente e che legano gli avvenimenti, siano vere, siano nel mondo – credere insomma in una sorta di fato. Quando finalmente si smette di agire, si può cominciare a vivere, e raccontare. E così, in queste fughe leggere tra un argomento e l’altro, in cui il movimento sembra conformarsi a una sorta di “regola del mondo”, ci sembra di riconoscere nei racconti una luce nuova: quella del picaresco.
Queste piccole riflessioni sono nate da una coincidenza, chi lo sa, sebaldiana. A dicembre mi è capitato per le mani, subito dopo le Tessiture, uno degli ultimi figli dell’anno proustiano che si è appena concluso: Il Caso Lemoine, tradotto da Maurizio Ferrara per Passigli. Il suo arrivare per ultimo, dopo che già alcuni si sono stancati di saggi e riedizioni (c’è da dire che le opere minori di Proust non avevano grande rappresentanza editoriale fino a poco fa, e c’è da essere contenti), sembra richiamare il suo posto minore nell’opera proustiana. Né di romanzo né di racconto si tratta, ma di una raccolta di pastiches, cioè degli esercizi letterari nei quali il futuro autore della Recherche (i testi sono scritti tutti nel 1908-09, tranne l’ultimo, scritto prima ma rivisto in seguito) prova la sua voce da imitatore di altri scrittori, a mo’ di caricatura. Non è difficile capire come un testo del genere possa sembrare settoriale. Basta leggere chi sono i “pasticciati“: Balzac, Renan, Flaubert; ma anche Henri de Régnier, Emile Faguet, o Sainte-Beuve. Eppure il libro è molto di più che una sciccheria per specialisti.
Il caso è questo: nel 1905, un tale Henri Lemoine truffa Julius Wernher, presidente della società diamantifera De Beers, facendogli credere di aver scoperto la tecnica per la creazione dei diamanti in laboratorio. La truffa viene smascherata, ma già Wernher ha versato diversi milioni a Lemoine, e quando comincia il processo il tribunale si riempie di azionisti della De Beers, inferociti col truffatore. Il Caso Lemoine risponde a una domanda curiosa: cosa avrebbero scritto, intorno al caso, i grandi scrittori?
S’intende che è un libro umoristico, visto che è parodico. Eppure, quando apparve, la critica riconobbe subito che si trattava di letteratura insieme “fascinosa e spirituale”, diversa dalle caricature allora in voga. Di queste, i campioni erano Paul Reboux e Charles Müller, autori di una serie di libri “alla maniera di” che avevano avuto molto successo, e secondo i quali, come scrive Ferrara nell’agile e chiara prefazione, «lo scopo dell’imitazione non è altro che la caricatura, con l’intento di suscitare il buonumore del pubblico». Con Proust, va da sé, le cose sono più complesse. A volte, per distinguere questi pastiches da quelli suoi contemporanei, si fa il nome di Queneau, cioè gli Esercizi di stile. Si confondono così due cose diverse sotto l’idea di una direzione “intellettuale” della scrittura. C’è una cosa che manca negli Esercizi, che qua invece sembra apparire: un sistema organico. Laddove Queneau si rifugia nel suo ruolo pioneristico, e propone una sorta di bonaria euristica della letteratura, Proust va ancora oltre: acquisito il mezzo formale, lo integra con l’invenzione, che dona alle sezioni un legame dolce che negli Esercizi non c’è. Proust va simultaneamente oltre i contemporanei, perché pone la tecnica al centro della questione; e oltre i futuri, perché la rende organica e viva. E così si può rispondere alla domanda che un lettore avrebbe tutto il diritto di farsi: perché leggere un libro di imitazioni di scrittori ottocenteschi francesi, tanto più in traduzione? Perché il Caso Lemoine è anche, dietro il grande esercizio umoristico, un libro che si legge con calmo sfizio, pigramente alternando sogghigni, momenti di bellezza luminosa, e altri di riposo. Questa specie di “interviste impossibili” non è solo una preziosa sfilata di tic letterari, ma una vera e propria storia, per raccontare la quale a Proust viene in mente non solo di mostrare un oggetto da diversi punti di vista, ma far interagire questi punti di vista fra di loro. Così, per esempio, al racconto di Flaubert del caso Lemoine succede la recensione di Sainte-Beuve al racconto di Flaubert, con tanto di stroncatura. Il lettore si trova così di fronte a un ventaglio sterminato di piani di lettura. Prendiamo i diamanti, oggetto fantasmatico del racconto in una maniera che ricorda La lettera rubata: essi sono contraffatti, perché di questo si parla, eppure veri insieme, perché quelli che nei fatti compaiono agli occhi di Werner sono quelli veri spacciati per finti. Sembrerebbe una metafora evidente del racconto, eppure Proust precisa, in una lettera privata (ma se uno volesse farsi credere, non direbbe una cosa privatamente?), che la materia del libro, il caso Lemoine, è stata scelta “assolutamente a casaccio”. A chi credere?
I pastiches furono scritti da Proust alle soglie della Recherche, e fu come una liberazione: «bisogna purgarsi del vizio naturale di idolatria e di imitazione», scriveva nell’agosto 1919. Pagare l’obolo a chi aveva preceduto era un gesto che doveva spogliare Marcel di ogni legame filiale coi vecchi padri, e finalmente poter volare solo; del resto, quale prova più grande di aver letto bene un autore che di saperlo rifare? Eppure un indizio ci suggerisce che non furono solo questo. Proust stesso considerava questi pastiches naturalmente legati al Contre Sainte-Beuve, il suo progetto incompiuto di un libro di critica, le cui bozze sfoceranno nella Recherche. Aprendo le pagine del Caso Lemoine si capisce il perché: sono queste tutte intense pagine di critica come in atto, e decisamente partigiana. Con fare spietato Proust crea esempi e controesempi perfidi. Flaubert, alla prima frase, dice che le finestre dell’aula erano state chiuse per ordine del presidente. Tanto basta a Sainte-Beuve: «un eminente avvocato mi assicura che il presidente non ha niente a che vedere, come infatti sembra più naturale e decoroso, con cose del genere, e di sicuro si è ritirato nella camera di consiglio durante la sospensione». Ma allora, si chiede il grande critico, come fa Flaubert a pensare di essere credibile quando ci dice il numero degli elefanti dell’antico esercito cartaginese, se non sa informarsi come si deve neanche su un processo così vicino a lui? Una frase è bastata a far nascere il personaggio. Il povero Sainte-Beuve, pedante, biografista fino al geografismo, tanto in torto che Proust voleva intitolare il suo libro contro di lui, ci appare tutt’a un tratto come in carne ed ossa, e ci sta anche simpatico.
I piani si intrecciano in continuazione. Nel pezzo “dei” Goncourt, avviene una vera e propria morte dell’autore: un certo amico di Lucien Daudet, tale Marcel Proust, si ammazza «in seguito al ribasso dei titoli diamantiferi”. Ma non solo: salta fuori che quello stesso Proust, qualche tempo prima, aveva preso a sberle Zola, reo di non apprezzare abbastanza i romanzi di Léon Daudet – o almeno, così racconta il fratello. Renan invece, che ha già a modo suo inquadrato la vicenda («Il giorno in cui Lemoine, con un gioco di parole squisite, ha chiamato pietra preziosa una semplice goccia d’acqua […], la causa dell’idealismo è stata vinta per sempre»), è sicuro anche di un’altra cosa: che la Comedie Humaine non l’ha scritta Balzac da solo, o se l’ha scritta, l’ha scritta un paio di secoli prima di Voltaire, visti «il suo stile ancora informe, le sue idee improntate a un assolutismo antiquato». In un attimo, ci balena di fronte agli occhi una domanda che è un mondo – più precisamente, un’ucronia -: Balzac cinquecentesco? Ma, siccome questa è solo un breve commento tra le pieghe di un discorso ben più ampio, subito Renan devia il discorso su questioni di moda: «al tempo di Lemoine» (locuzione, in questa raccolta, quanto mai ingannevole), parrebbe che le donne che volessero farsi un po’ più belle si ornassero i capelli con qualche foglia sulla quale deve svettare, «sfavillante quanto il diamante più raro», una semplice goccia di rugiada…
Poi c’è il pezzo à la Flaubert, immerso come in una luce dorata. Come per incanto, sin da subito si entra in quel mondo in cui ogni cosa è necessaria, ogni cosa tira per il colletto il lettore per farsi sentire, e tutto sembra così intensamente vero. Quando il finto Flaubert affonda il colpo sugli azionisti presenti al processo, incolleriti perché illusi, le meschinerie e i vizi dei personaggi appaiono tanto chiare che sembra di leggere come un outtake dei suoi grandi romanzi. E tuttavia la dolcezza proustiana riesce a entrare anche qui, inconfondibile. Gli azionisti sono presi «nella violenza del rammarico per il quale si crede di possedere ciò che si piange», e se pur la maggior parte si sente defraudata «della dissolutezza, degli onori, della celebrità, del genio», ce ne sono alcuni, invece, che vedono allontanarsi da loro «illusioni più indefinibili, di quanto di profondo e di dolce ognuno celava sin dall’infanzia, nell’ingenuità particolare del suo sogno».
La storia di Proust che è anche critica, ma anche una raccolta di caricature, ma anche una cronaca…Decenni prima di tanti teorici della stasi romanzesca, trovatisi lì per caso e incapaci di creare qualcosa che non fosse la trasposizione di un concetto, Proust indicava già una strada percorribile, e lo faceva colla sua leggerezza, col suo humour, con la sua tenerezza e la sua asprezza cristalline che conosce il lettore della Recherche. Sebald parte da presupposti diversi, quasi la necessità storica di trovare una forma nuova – e però vi arriva, non con una speculazione, ma riconoscendo nelle sue parole sempre più chiara la propria voce. Tessiture di sogno è anche, in un certo senso, la storia di questa voce – come una strabiliante radiografia lungo le fasi di questa scoperta. Il Caso Lemoine è più orizzontale, più soffuso. Proust sa dove toccare, e compie i gesti con la leggerezza di chi è troppo bravo. Ma, visti secondo un certo angolo, i due libri sembrano raccontare anche la stessa storia: quella, tra le altre, di un uomo che trova la sua voce; ed è una storia che, come per magia, sembra spiegare se stessa.