C’è stata una incomprensione, chiamiamola così, tra me e la mia psicoterapeuta a proposito del tema «aborto». Ovvero quando le ho raccontato che mia madre, nonostante le circostanze «sconvenienti» del mio concepimento, aveva deciso di tenere la creatura perché convintamente antiabortista, non ho potuto trattenermi dal fare questa battuta scontatissima: se mia madre non fosse stata antiabortista, noi non saremmo qui a dover risolvere tutti i miei problemi. Su, era inevitabile dire qualcosa del genere, praticamente un riflesso condizionato. Insomma la dottoressa mi guarda malissimo, col tipico sguardo da «non si fanno battute su queste cose». Siccome l’episodio mi aveva creato disagio, ho deciso coraggiosamente di parlagliene la volta successiva, o forse tre o quattro volte dopo, non sono poi così coraggiosa. Le ho detto che mi ero sentita giudicata per la battuta sull’aborto, lei ha detto che assolutamente lì dentro nessuno giudicava ed ero io invece che proiettavo. E va bene.
Curiosamente, qualche giorno dopo ho avuto una discussione molto simile con Instagram. Ho pubblicato in una storia la foto di qualcosa di molto stupido – neanche ricordo cosa – dicendo che mi suscitava «un fortissimo istinto di morte», e il sollecito social network ha fatto comparire una schermata anti-suicidio con informazioni e consigli su come non suicidarsi, arricchita da disegnini tipo margherite o cose così. Allora ecco che anche a Instagram ho chiesto: mi stai forse giudicando per la battuta sull’istinto di morte? No assolutamente, mi fa, qui nessuno giudica, sei tu che proietti.
Ora, è possibile, anzi possibilissimo che le mie battute facessero schifo. Ed è probabile che io non faccia altro che proiettare robe mie sulle persone e/o entità con cui mi relaziono. Tuttavia, è anche un fatto che certi temi sono a dir poco spinosi; o vogliamo dire triggeranti?
A me però interessano; di più: mi riguardano da vicino. Li cerco spesso in letteratura, mi affascina vedere come persone lontanissime da me abbiano affrontato l’orrore di esistere, banalmente mi fa sentire meno sola. Ogni tanto faccio un’eccezione e, invece di leggere narrativa, leggo dei saggi. Ne ho letti due nell’ultimo anno, editi entrambi da Carbonio editore e entrambi tradotti da Alberto Cristofori, che, semplificando al massimo, trattano del non esistere affatto e del non esistere più: Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo di David Benatar e Note sul suicidio di Simon Critchley. Sono testi molto diversi tra loro non solo perché si tratta effettivamente di due tematiche ben distinte (antinatalismo e suicidio), per quanto in certa misura comunicanti e comunque contigue, ma anche per approccio, stile e conclusioni degli autori.
«Vi sono alcune persone, e io sono fra loro, che ritengono non vi sia nulla di implausibile né nell’idea che venire al mondo sia sempre un male, né nell’idea che non dovremmo fare figli. È molto improbabile che una gran parte dell’umanità finirà per condividere questa idea. Il che è molto triste – a causa dell’enorme quantità di dolore che ciò provocherà prima che l’umanità finisca per sempre», dice David Benatar in Meglio non essere mai nati. Un libro scritto per dimostrare da un punto di vista filosofico che l’esistenza (umana principalmente) è sempre un male, e pertanto come sia eticamente più giusto rinunciare a mettere al mondo dei figli e, in ultimo, prendere in considerazione l’estinzione intenzionale della nostra specie.
Per fare ciò, Benatar parte dal presupposto che l’assenza di dolore è un bene, mentre l’assenza di piacere non è necessariamente un male. Il bene «mancato», se non si è nelle condizioni di sentire questa mancanza, non procura dolore. Non c’è simmetria tra piacere e dolore: provare dolore è molto più grave che non provare piacere. Quindi logicamente la non esistenza, implicando l’impossibilità di sentire tanto il dolore quanto la mancanza di piacere, è in ogni caso una condizione preferibile all’esistenza. Per forza di cose sto semplificando molto, ma questo concetto viene ampiamente argomentato dall’autore, che risponde con meticolosità anche a tutte le possibili obiezioni.
Consapevole che la sua teoria sia contro-intuitiva, Benatar si premura anche di analizzare i fenomeni psicologici che intervengono per farci mandar giù questa cosa, la vita, o più precisamente che agiscono, dal punto di vista evolutivo, «contro il suicidio e in favore della riproduzione». Il più simpatico, anche solo per il nome, è il pollyannismo: «è quello che si potrebbe chiamare adattamento, accomodamento o assuefazione. Quando l’oggettivo benessere di una persona peggiora, c’è inizialmente una significativa insoddisfazione a livello soggettivo. Ma poi subentra una tendenza ad adattarsi alla nuova situazione e a modificare le proprie attese di conseguenza». Il «farsela andare bene», si potrebbe dire. Mi viene in mente anche «resilienza», ora che ci penso.
In buona sostanza, non convinceremo mai Benatar che la nostra vita ci va benissimo: «i giudizi sulla qualità della propria vita sono inattendibili».
Stabilite queste premesse (che, ripeto, ho semplificato all’estremo), l’autore espone la sua idea pro–death, che capovolge l’atteggiamento attuale sull’aborto: «Non è l’aborto (nelle prime fasi della gravidanza) a dover essere giustificato, ma tutte le rinunce ad abortire. Perché ogni rinuncia permette che qualcuno patisca il grave male di venire al mondo».
Chiaro che, di aborto in aborto, è un attimo che si arriva all’estinzione. E infatti Benatar gli dedica uno dei capitoli più interessanti del libro. Spostando lo sguardo dall’individuo alla specie, l’ostinazione nel perpetuare l’esistenza umana comincia ad assumere tratti grotteschi: «Mi colpisce la preoccupazione per il fatto che gli esseri umani in futuro non ci saranno più o come sintomo dell’arroganza umana per cui la nostra presenza rende il mondo un posto migliore o come un sentimentalismo fuori luogo». A me invece ha colpito una delle principali preoccupazioni di Benatar nell’affrontare questo tema: ovvero cosa ne sarà delle generazioni più prossime all’estinzione. Esse soffriranno molto più delle precedenti, perché invecchieranno man mano che il mondo si svuota, avranno meno aiuto e, beh, meno compagnia. Nonostante l’autore riconosca questo dolore, resta sempre dell’idea che l’estinzione sia la soluzione migliore, e procrastinarla significa solo aumentare indefinitamente il numero delle persone e delle generazioni destinate a soffrire. Benatar non è un pazzo, sa che non verrà programmata nessuna estinzione, e ovviamente non è fautore dello sterminio degli umani, come non è fautore del suicidio una volti venuti al mondo. È un teorico che ha scelto di mettersi (e mettere i suoi interlocutori) alla prova su un terreno estremamente difficile. Ed è apprezzabile che lo faccia con tanta meticolosità.
A dire il vero, non sono una grande fan di questa mentalità «scacchistica», intendo quando le discussioni vengono impostate in maniera da prevedere e neutralizzare le mosse/obiezioni dell’avversario/interlocutore. Questo modo che definirei agonistico di condurre un discorso di solito mi fa perdere interesse molto rapidamente, a prescindere dal tema trattato. Tuttavia, in questo caso, visto che di base non mi ponevo come avversaria di Benatar, e quindi non ero nella posizione di dover essere convinta, ho seguito con pazienza i suoi ragionamenti (agevolata anche dai pratici schemini disseminati nel testo) quasi esclusivamente allo scopo di arrivare alla parte delle conclusioni. È lì infatti che anche l’autore più rigoroso si lascia andare: avendo già costruito una solida impalcatura di argomentazioni, può esprimere liberamente il succo del suo pensiero, per quanto controverso e paradossale possa apparire. È, insomma, la parte più divertente, e anche stavolta non mi ha deluso.
Vale la pena di menzionare, quanto meno, la tirata contro gli ottimisti, di cui riporto un passaggio: «l’insofferenza o la condanna del pessimismo da parte degli ottimisti ha un tono di arroganza machista (anche se gli uomini non ne hanno il monopolio). C’è un certo disprezzo per la presunta debolezza del pessimista, che dovrebbe piuttosto “sorridere e sopportare”. Questa posizione ha lo stesso difetto di quella machista. È una forma di indifferenza o di inappropriata negazione della sofferenza, propria o altrui. L’ingiunzione a “guardare il lato positivo” dovrebbe essere accolta con un’ampia dose di scetticismo e di cinismo. Insistere che il lato positivo è sempre il lato giusto significa anteporre l’ideologia all’evidenza».
Ora, io non so quanto gli stringenti sillogismi di Benatar possano risultare utili durante un pranzo di famiglia, di fronte alla fatidica domanda su quando pensi di scodellare una creatura. Ma si può sempre tentare. Il testo richiede un certo impegno nella lettura,che comunque consiglio, ho quindi pensato di estrapolare arbitrariamente delle citazioni che possono essere utili per vivacizzare anche le occasioni sociali più monotone:
«Non si può mai fare un figlio per amore del figlio»;
«Nessuno è penalizzato dal non venire al mondo»;
«Non solo non si fa il bene delle persone mettendole al mondo, ma si fa sempre loro del male»;
«La rinuncia all’aborto è la posizione da giustificare. Più è grande il dolore di vivere, più difficile sarà giustificare questa rinuncia»;
«Ogni coppia di procreatori può considerarsi il vertice di un iceberg generazionale di sofferenze»;
«Accrescere il proprio valore facendo figli è un po’ come accrescere il proprio valore prendendo degli ostaggi»;
«Il rimorso di non avere bambini è rimorso per noi stessi»;
«Dobbiamo continuamente lavorare per tenere a bada la sofferenza (compreso il tedio) e possiamo farlo solo imperfettamente. L’insoddisfazione quindi pervade la vita, ed è inevitabile che sia così»;
«Gli allegri ottimisti hanno una visione di sé molto meno realistica dei depressi»;
«L’infelicità zero, almeno nel mondo reale, si raggiunge avendo zero persone»;
«Un acuto sentimento di rammarico per la propria esistenza è probabilmente il modo migliore per evitare di infliggere lo stesso male ad altri».
Come già accennato, la tesi di Benatar non implica che, una volta nati, morire sia in ogni caso meglio che vivere. Ma è quasi ovvio che sul tema «suicidio» l’autore sia molto più aperto della media. Mette in rilevo infatti come spesso sia una scelta razionale, addirittura più razionale che continuare a esistere. Il vero dramma del suicidio è che rende la vita delle persone che restano, e devono affrontare il lutto, molto molto peggiore. Riporto ancora una volta le sue parole, che non necessitano di alcuna parafrasi:
«Che il suicidio faccia soffrire chi resta è parte della tragedia del venire al mondo. Ci troviamo in una specie di trappola. Siamo già nati. Porre fine alla nostra esistenza provoca un immenso dolore a coloro che amiamo e di cui ci curiamo. I potenziali creatori farebbero bene a considerare questa trappola che fanno scattare nel momento in cui producono dei discendenti. Non è possibile creare nuove persone sottintendendo che, se non saranno contente di essere venute al mondo, potranno sempre uccidersi. Una volta che una persona è venuta al mondo e si sono creati dei legami affettivi, il suicidio può provocare un dolore al cui confronto la mancanza di figli è un dolore leggero».
Il suicidio fa parte della vita, e con questo bisogna fare i conti. Ignorarlo, stigmatizzarlo, ricondurlo esclusivamente all’ambito della malattia mentale, di certo non rende migliore la vita di nessuno.
Le Note sul suicidio di Simon Critchley si propongono appunto di «aprire uno spazio per pensare al suicidio come a un atto libero, che non dovrebbe essere moralmente rimproverato o silenziosamente condannato. Il suicidio dev’essere capito e noi abbiamo un disperato bisogno di una discussione più adulta, clemente e meditata sull’argomento. Troppo spesso l’intero dibattito sul suicidio è dominato dalla rabbia».
Che il libro sia in effetti un insieme di spunti e note e non uno studio, l’autore lo dice subito. Dice anche cosa non si troverà nel testo, ovvero «una prospettiva molto più ampia e approfondita del comportamento suicida nel contesto storico e culturale più vasto possibile, insieme ai dati sociologici più completi», che tenga conto di elementi come il genere, l’etnia, i fattori biologici, ecc. Il suo approccio è quello filosofico esistenziale (e occidentale, aggiungerei). Insomma, è molto onesto nel presentare il suo lavoro che vuole essere, soprattutto, un tentativo di far avvicinare a un tema estremamente delicato anche persone che non vi abbiano mai riflettuto molto. E come entrata risulta abbastanza soft e interessante, con venature umoristiche che di certo aiutano accompagnate da una spiccata empatia di fondo.
Compassione e lucidità sono le due direttrici lungo cui vuole muoversi il discorso di Critchley. Inoltre, e mi sembra fondamentale, l’autore mette in campo anche il suo vissuto personale, la sua propensione ai pensieri suicidi. Da parte mia, mi sono resa conto davvero tardi che non tutte le persone li hanno: per molti anni ho dato per scontato che quello che avviene a volte nella mia mente fosse una cosa comune. E questo ha probabilmente a che fare con la reticenza diffusa intorno a questo tema: «Ci manca un linguaggio per parlare onestamente del suicidio perché troviamo l’argomento difficilissimo da affrontare, nello stesso tempo profondamente spiacevole e cupamente affascinante.»
Nella prima parte, Critchley la prende un po’ alla larga tracciando una breve storia filosofica del suicidio, partendo dai classici greci e latini come Socrate e Seneca, dedicando poi spazio a tale Radicati, semisconosciuto filosofo settecentesco, autore di un pamphlet sul diritto al suicidio, per arrivare poi ai ben più noti Spinoza, Hobbes e Hume (il cui saggio Del suicidio è riportato alla fine del volume). Queste visioni del diritto al suicidio, considerato come «un atto legittimo e un gesto onorevole per sfuggire a una condizione di dolore insopportabile, fisico o psichico», erano e sono in contrasto con la dottrina cristiana che cataloga il suicidio, come mille altre cose, come peccato e amen. Critchley si cimenta anche in un tentativo di demolizione degli argomenti cristiani contro il suicidio (es. la vita è un dono di Dio e quindi si ha il dovere di viverla), su cui qui sorvoleremo. Questa parte mi è sembrata la più debole o comunque la meno interessante. La conclusione dell’autore è, direi inevitabilmente, una non conclusione: «spero di aver mostrato che gli argomenti pro e contro il suicidio, basati sui concetti di diritti e di doveri, crollano quando vengono messi alla prova».
Veniamo invece alla parte, a mio parere, più interessante del libro, ovvero quella dedicata ai messaggi di addio dei suicidi. Penso sia particolarmente affascinante perché è qui che entra davvero in gioco l’esercizio dell’empatia, che resta piuttosto limitato finché restiamo nel campo delle teorie e delle visioni filosofiche. E non va sottovalutata la bellezza letteraria di molti di questi messaggi, spesso anche di quelli non scritti da personalità artistiche. Forse anche per questo motivo Critchley racconta di aver organizzato un laboratorio di scrittura creativa dedicato ai messaggi di addio dei suicidi, chiamato «La scuola della morte». Per l’autore era nata come una reazione provocatoria tanto alla «Scuola della vita di Londra, una roba che vende una filosofia di autoaiuto abbastanza disgustosa all’alta borghesia inglese in cerca di una vaga idea di illuminazione», quanto al crescente numero di corsi di scrittura creativa. Come non apprezzare.
Ma dopo il simpatico aneddoto personale, il capitolo analizza come nei messaggi di addio entrino in gioco i sentimenti contrastanti di amore e odio al massimo della loro espressione: «È come se l’intensità dell’odio per se stessi permettesse un’ultima, sentita e ugualmente appassionata dichiarazione d’amore. Queste energie intrecciate di amore e odio si contrappongono drammaticamente e noi sprofondiamo nell’abisso che si spalanca sotto di noi.»
Non voglio rivelare troppo, questa parte merita un’immersione nella lettura, ma posso dire che la selezione dell’autore è accurata, e trova un giusto equilibrio tra la malinconia e l’umorismo nero che talvolta pervade questi testi. Queste «comunicazioni finali» sono un ultimo tentativo, già in sé fallimentare, di comunicare «nel senso che chi scrive sta comunicando il suo fallimento esplicitando il desiderio di rinunciare a tutto in un ultimo tentativo di esprimersi. Il suicida non vuole morire solo, vuole morire con la persona o le persone a cui è indirizzato il messaggio». In questo senso, il suicida non è mai solo, ha qualcuno – di reale o ideale – a cui vuole ancora rivolgersi, e spesso vuole farlo in maniera pubblica.
Se nella pubblicità dei messaggi di addio c’è una forma anche di esibizionismo, nondimeno, dice Critchley, in chi legge c’è un interesse quasi pornografico, perché leggerli «ci permette di lanciare un’occhiata all’interno di una condizione mentale nascosta o proibita, ed esercita una sorta di attrazione morbosa».
All’ultimo capitolo è dedicata la domanda probabilmente più sconcertante: «Ma se invece il suicidio viene scelto per se stesso, semplicemente perché si vuole morire?» Anche qui l’autore cerca l’appoggio intellettuale di nomi noti, come Camus e Cioran, per addentrarsi in questo sentiero particolarmente tortuoso. Nelle sue parole: «Questo è un tema più inquietante perché implica che qualcuno come noi, qualcuno, diciamo, di normalmente, noiosamente nevrotico, ma che non soffre di una malattia mortale o di depressione clinica, possa comunque scegliere di togliersi la vita, qui e ora». Va da sé che questo non è un libro di risposte, ma di messa in discussione, che non è poco.
Nei paragrafi finali, Critchley fa una scelta direi consolatoria, anzi pacificatoria: ripiega, cioè, sulla retorica delle «piccole cose», i fugaci attimi di bellezza e amore – mettiamola così – per cui tutto sommato vale la pena vivere. Lui usa addirittura queste espressioni (riportate anche a caratteri giganti sulla quarta di copertina): «i piccoli miracoli quotidiani, i fiammiferi accesi nell’oscurità…». Mi ero ripromessa di lasciare fuori la letteratura (anche se Critchley è il primo a non farlo, nel suo libro) e mi sembra un po’ sleale rispondere in questo modo, cionondimeno: «A parte l’aggressione dei problemi irrisolti, c’è l’assedio delle piccole cose “care”. Piccole cose familiari e vischiose, gli oggetti che ti riagguantano, e ognuno ha il suo modesto fascino prensile, tenace, è la foto fatta da te, incorniciata da te, della neve d’aprile sul tetto, il tappetino finto-buchara che ti sei regalato per Natale, la macchina da scrivere col foglio infilato sul rullo, il fanale da caccia a carburo che non ti serve ma sta così a posto in anticamera col suo rosso vivo, il long-playing con la sonata per piano di Albinoni. E ognuno col suo struggente appello, con la sua insidia: e vuole intrattenerti, legarti, si stupisce che tu abbia pensato di, tentato di…» (Guido Morselli, Dissipatio H.G., Adelphi).
Comunque c’è da dire che nella prefazione del 2020 (il libro è del 2014), Critchley si dichiara scontento di quel finale ottimistico e «un po’ superficiale. Non credo di aver davvero risolto il problema di come l’amore potrebbe essere una forza capace di farci superare ogni desiderio di autoannientamento, ma anche di trascinarci negli abissi dell’odio e della disperazione». E come avresti potuto riuscirci, caro Simon. Chi potrebbe?
Per quanto abbia trovato il libro ricco di spunti e buone intenzioni, la mia perplessità è questa: persone che non si sono mai interessate al tema lo leggerebbero? Sarebbe un vero peccato dover dare una risposta pessimistica, anche perché temo che invece le persone per qualsiasi motivo fortemente interessate o coinvolte potrebbero trovare la trattazione un po’ troppo blanda e ondivaga.
In ogni caso, un punto a favore della trattazione saggistica di questi temi, rispetto a quella letteraria, è che si esce dalla dimensione privata e si entra in un discorso auspicabilmente collettivo. Non ci troviamo a tu per tu con l’autrice o l’autore che narra il suo vissuto o la sua visione, interagendo e reagendo in base al nostro vissuto e alla nostra visione. Nello spazio di discussione teorico, a tutti è richiesto uno sforzo intellettuale, che è prima di tutto uno sforzo di apertura su certi temi obiettivamente difficili. Come abbiamo visto però anche qui esistono e coesistono approcci diversi, dallo stile distaccato di Benatar che solo in alcuni punti lascia trapelare il suo autentico coinvolgimento, a quello più simpatico e confortevole di Critchley. Per quanto mi riguarda, per il momento il mio approccio al tema del dolore di vivere e del desiderio di morire resta quello di uno strategico e spesso incompreso humor nero, a volte fino al sarcasmo, anche se Instagram e la psicologa mi disapprovano.
«Ragazzo, s’io avessi i tuoi anni, mi sarei già buttato a mare». Ma non minaccia anima viva. «Ragazzo» mi ha detto, «tu sei giusto e pietoso, smetti di vivere».(Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò)