«Si mañana soy yo, mamá, si mañana no vuelvo, destrúyelo todo. Si mañana me toca, quiero ser la última» Cristina Torres
Sono tanti i libri sulla memoria e sul lutto pubblicati negli ultimi anni. Ripenso a un paio di nuove uscite italiane lette quest’anno: La paura ferisce come un coltello arrugginito di Giulia Scomazzon (Nottetempo) e La vita di chi resta di Matteo B. Bianchi (Mondadori). Sia Scomazzon che Bianchi tornano a distanza di anni, decenni, sulla perdita di una persona cara, per ricostruire la figura della giovane madre al di là dello stigma dell’HIV la prima e per raccontare la vita di chi sopravvive al suicidio di una persona amata il secondo. La scrittura diventa quindi un modo per ricostruire e rinarrare il lutto, per riuscire a guardare al proprio dolore e in qualche modo a distaccarsene, farci pace. E, come nel caso di Scomazzon, di usarla come mezzo per ricostruire la memoria di una persona portata via da una malattia innominabile e a lei taciuta, come dice l’autrice stessa, nonostante fosse la seconda causa di morte tra i giovani in quel decennio.
Per quanto numerosi siano i memoir sul lutto, e d’altronde l’esperienza sta/è inevitabilmente iscritta nella vita stessa, a questi due libri sento in qualche modo di accostare L’invincibile estate di Liliana di Cristina Rivera Garza (Sur, traduzione di Giulia Zavagna). Da una parte perché Rivera Garza arriva a scrivere del lutto vissuto a trent’anni di distanza dalla scomparsa della sorella e con una carriera già affermata da scrittrice alle spalle; dall’altra perché a muovere la sua scrittura ci sono sicuramente una profonda fame di giustizia e un forte desiderio di permanenza della memoria.
Nel 1990 a Città del Messico, Liliana Rivera Garza è una giovane ventenne, studentessa brillante di architettura, circondata da amici inevitabilmente attratti dal suo spirito di intraprendenza. La sua storia però si interrompe qui perché quell’estate Liliana viene uccisa dal ragazzo che era riuscita con difficoltà a lasciare dopo mesi, anni, di presenza ossessiva. Con un vocabolario più corretto e consapevole, grazie alle lotte di molte donne contro la violenza di genere, oggi chiamiamo il suo assassinio: un femminicidio. Scrive Rivera Garza infatti: “il femminicidio non è stato ufficialmente costituito come reato in Messico prima del 14 giugno 2012 […]. Gran parte dei femminicidi commessi prima di quella data erano chiamati delitti passionali. Erano chiamati ha preso una cattiva strada. Erano chiamati perché si veste così? Erano chiamati una donna deve sempre stare al suo posto […]”.
Cristina Rivera Garza nella primissima parte del suo memoir riparte da qui, dalla giustizia che non c’era in termini legali, da un colpevole in fuga mai catturato. Dal tentativo, quasi romanzato, di riuscire a recuperare il fascicolo delle indagini dell’omicidio della sorella per poter riaprire il caso alla luce di una nuova coscienza. Quello che segue però non è un processo penale – strumento peraltro non capace di portarci verso il tipo di giustizia a cui aspiriamo e a una vera trasformazione culturale – ma la ricostruzione della figura di Liliana, e della sua invincibile estate. Poche settimane prima della sua morte Liliana scrive nel suo diario la citazione di Camus da cui è tratto il titolo e con cui la sorella vuole ricordarla: “Nel cuore dell’inverno imparai finalmente che in me c’era un’invincibile estate”.
L’autrice attinge infatti a quaderni, diari, lettere della sorella, in modo che la sua voce e la sua presenza non vengano perse. A questi scritti si alternano le testimonianze degli amici più stretti, dei compagni di università, dei parenti più vicini nella capitale dove si era trasferita, e poi ancora dei genitori che ne raccontano l’infanzia e la crescita come donna. La penna stessa di Liliana, i pensieri più intimi, le corrispondenze fraterne, si intrecciano quindi con una pluralità di voci in grado di tratteggiarne non solo gli ultimi anni di vita tra eventi decisivi ed esperienze condivise, ma soprattutto il suo fascino e l’energia che era in grado di trasmettere a chi le stava intorno.
Le parti di racconto e riflessione dell’autrice, unitamente alle testimonianze di genitori e amici, si distinguono dai testi di Liliana da una precisa componente grafica. Varia il font, in questo caso realizzato appositamente su calco della calligrafia della ragazza, che ce la rende in qualche modo più vicina. Cristina Rivera Garza indica queste parti di testo come “documenti […] copiati fedelmente dall’archivio di Liliana Rivera Garza”. Lo precisa, in questo caso, per giustificare possibili errori ortografici o sintattici di testi non pensati ovviamente in origine per la pubblicazione. Ma è proprio la parola archivio che condensa molto degli intenti di questo libro.
Nel saggio Studi femministi dei media, Alison Harvey (collana Culture Radicali di Meltemi) all’interno di una più ampia digressione e riflessione sugli studi dei media e delle metodologie di ricerca, dedica un breve sotto-capitolo al lavoro femminista sugli archivi. Scrive: “Gli archivi sono usati per preservare prove di molestie, esclusione […], ma anche prove di azioni di resistenza e organizzazione […]”. E ancora: “Creare archivi di storie di donne marginalizzate come le femministe nere non è unicamente una questione che riguarda la posterità, ma “una strategia cruciale di sopravvivenza: la trasformazione dell’informazione e della comunicazione in accesso, potere, comunità e pratica visionaria”.
Raccontare la storia di Liliana attraverso le parole delle persone che l’hanno circondata, conservarne e mostrarne i testi, non è quindi per Rivera Garza solo un modo per affrontare il suo lutto e continuare a far rivivere la memoria della sorella tra le pagine di un libro. Gli ultimi anni della vita di Liliana sono segnati dalla violenza: una violenza che si manifesta nella gelosia, nel rifiuto di una separazione, nella privazione di nuove possibilità affettive, in forma fisica e poi fatale. Ma sono anche anni di vita, di tentativi di rinascita, di resistenza. In questo senso la ricostruzione della figura di Liliana, dei suoi progetti e spazi, delle relazioni intrecciate, non si ferma all’omaggio della persona, ma si presta a una riflessione più ampia e dolorosa sull’oppressione patriarcale subita dalle donne, delle difficoltà di riconoscere determinati comportamenti come campanelli d’allarme, di sottrarsi da una relazione con un partner violento. La storia di Liliana e Àngel – questo il nome del ragazzo –, per quanto situata in uno specifico contesto geografico e sociale, segue dei pattern universali che purtroppo la quasi totalità delle donne vive o ha vissuto almeno una volta nella vita. La riflessione femminista su questi temi, le azioni di protesta di molte donne nel mondo e, nel contesto dell’autrice, in Sud America, ci hanno dato negli anni le parole per elaborare il nostro vissuto, una rete in cui eventualmente riconoscersi e appoggiarsi che a Liliana mancava. Scrive Rivera Garza senza troppi fronzoli: “Chi in un mondo in cui non esisteva la parola femminicidio, le parole terrorismo intimo, poteva dire ciò che ora io dico senza il minimo dubbi: l’unica differenza tra mia sorella e me è che io non ho mai incontrato un assassino?”
È l’eterno ritorno di donne ammazzate da uomini che non hanno saputo accettare di non avere più posto nelle loro vite, che queste potevano esistere ed essere libere senza di loro. Cristina Rivera Garza attinge quindi agli insegnamenti dei collettivi femministi come Las Tesis, ad alcuni saggi contemporanei sulla violenza di genere, per dare un nome alle cose vissute da sua sorella, alle difficoltà di una donna che subisce abusi di sottrarsi da relazioni violente. C’è in questo memoir sicuramente un intento informativo e l’urgenza di sottolineare la necessità di un cambio di paradigma culturale che rompa le strutture del patriarcato. Ma c’è anche il fermo desiderio di far conoscere Liliana, mettendo quindi a disposizione parte del suo archivio, per conservarne il ricordo come una persona che è stata una vittima, ma che fino all’ultimo ha vissuto volendo vivere.