Il verbo inglese to foster ha un duplice significato: si può tradurre come “dare in affidamento”, dunque accudire un minore per un periodo limitato di tempo, oppure “prendersi cura, incoraggiare lo sviluppo emotivo o di idee in qualcuno”. Entrambi permeano con forza la short story di Claire Keegan Foster, apparsa in versione ridotta su The New Yorker nel 2010, e poi ripubblicata integralmente nel 2022 da Grove Press. In Italia verrà pubblicata prossimamente da Einaudi, ma intanto da questo racconto è stato tratto un riuscito adattamento cinematografico che ha persino rischiato di vincere un Oscar.
In un’estate qualunque nella contea di Wexford, nell’est dell’Irlanda, una bambina senza nome né età viene affidata a una coppia di lontani parenti, i Kinsella, che non hanno figli e sembrano nascondere un segreto. La formula di quest’affidamento è strana, visto che potranno tenerla “finché vorranno”. A scuola non va bene e presto arriverà un nuovo fratellino, l’ennesima bocca da sfamare in una famiglia già numerosa. Il padre beve un po’ troppo e scommette a carte. La madre è l’ombra di sé stessa. Siamo con molta probabilità all’inizio degli anni ‘80, come si evince da uno stralcio di conversazione adulta appena origliata. I grandi parlavano di hunger strikers. Siamo lontanissimi dall’Irlanda descritta da Sally Rooney, insomma: non giovani privilegiati con problemi di cuore nella frenetica Dublino, ma piuttosto agricoltori di una provincia immobile, che discutono del prezzo del bestiame e della calce. È l’Irlanda delle pianure lunghe e verdi coperte dai fiori di lino, dell’oceano buio che romba, delle discutibili torte al rabarbaro e delle signore pettegole che fremono perfino a sapere se i vicini usano burro o margarina nei dolci.
Entriamo in questo fazzoletto di mondo rurale con naturalezza ma delicatamente, il passo della prosa di Keegan è felpato, grazie alla voce cristallina, innocente ma fattuale, proprio della ragazzina in affidamento. Il suo è un vocabolario ridotto all’osso ma puro, un piccolo e ininterrotto incantesimo letterario che non fa dubitare in nessun modo che a parlare sia una bambina: le sue osservazioni minimaliste sulle fragili trame sociali che la circondano sono di una semplicità ma anche di una sincerità disarmante. Quando per esempio, al momento della sua consegna, il padre e Mister Kinsella riempiono l’aria con frasi di circostanza, lei con candore afferma di essere abituata “a questo modo che hanno gli uomini di non parlare: amano tracciare un solco nell’erba col tacco dello stivale, schiaffeggiare il tettuccio di un’auto prima che parta, sedersi con le gambe allargate, come se non gli importasse di nulla”.
I piccoli pezzi di verità, frammentati nel racconto come scaglie di vetro, fanno rilucere e sacralizzano anche i momenti più frugali delle nuove giornate della bambina. Inaspettatamente, il periodo passato con la coppia si rivela essere tutt’altro che un “abbandono”. Miss Kinsella le dà cento colpi di spazzola, le fa il bagno con acqua tiepida lavandola bene sotto le unghie, la porta al pozzo a raccogliere acqua freschissima, le mette vestiti puliti ma stranamente maschili e un po’ troppo grandi per lei. Mister Kinsella, invece, la cronometra quando corre veloce verso la buca delle lettere, la porta a mungere le mucche e poi a prendere il gelato al cioccolato. Le giornate estive passano così, senza che nulla di entusiasmante accada, eppure per la bambina è tutto tremendamente scioccante e nuovo. Una tranquillità emotiva abrasiva le permette addirittura di sentire il suono delle mucche che coi denti “strappano l’erba dalle radici”. “Avevi solo bisogno di un po’ di cura”, le dice la donna, e il racconto potrebbe benissimo esaurirsi in quella frase. Ogni azione è rallentata, analizzata e poi lentamente assorbita: alla fine del racconto, anche il lettore, insieme alla protagonista, non saprà più chi chiamare daddy, si troverà a dover necessariamente risemantizzare parole antiche come l’umanità stessa.
Dicevamo di An Cailín Ciúin (“La ragazza silenziosa”, 2022), diretto da Colm Bairéad, che partendo da Foster è statocandidato agli Oscar nel 2023 come miglior film in lingua straniera, diventando la prima pellicola irlandese a ottenere tale riconoscimento. Non ancora uscito in Italia, se in quanto a trama il film risulta essere piuttosto fedele al racconto, così non è per il linguaggio usato: l’intera pellicola è infatti per la maggior parte recitata in gaelico irlandese, lingua ufficiale dell’Irlanda insieme all’inglese, ma che oggi conta solamente tra il 2 e il 4% dei parlanti quotidiani della nazione. È interessante notare come l’unico a parlare inglese, storicamente la lingua dell’oppressione coloniale, sia il padre della ragazzina, rendendo ulteriormente critica la violenza e l’incapacità comunicativa del personaggio.
Anche il cambio di titolo è un elemento cardine dell’adattamento: dove nel testo rilucevano le piccole parole-pietra luminescenti della bambina, nel film è la dimensione del silenzio a tradurre gli atti di cura. Il silenzio, nella famiglia originaria sinonimo di disinteresse e incuria, con i Kinsella è l’humus per lasciar parlare le carezze, l’affetto e il rispetto reciproco. Macro-immagini dei capelli spazzolati, delle unghie pulite, delle torte appena sfornate riempiono lo schermo: se prima il linguaggio accennato guidava tra i minuziosi processi cognitivi della protagonista, adesso la telecamera segue le linee tracciate dal suo sguardo, posandosi sulle cose allo stesso modo. Allora anche il semplice e tenero abbraccio che i Kinsella si scambiano in cucina, osservato di nascosto, quasi al rallentatore, si trasforma in un’azione aliena, al limite della violenza, difficilissima da comprendere poiché mai vista prima. E l’irlandese impreziosisce quest’universo di pause, lentezza e silenzi come un gioiello, perché è una lingua fatta di sussurri, di suoni aspirati, di parole tagliate a metà e metafore oscure. È una lingua che ancora porta con sé i segni di un passato che ha provato a cancellarla.
Poter guardare un film tratto da un racconto a cui sono state radicalmente stravolte la materia prima, le fondamenta, la carne primigenia, cioè il linguaggio, e che tuttavia è innegabilmente così fedele al testo di partenza, è sicuramente un’esperienza rara. Se poi le due diverse lingue usate posseggono un legame così complicato, e una storia centenaria tristemente caratterizzata da soprusi e dinamiche di potere, allora si tratta di un prezioso tesoro mediatico. Così An Cailín Ciúin si “prende cura” del maltrattato gaelico, dandogli “in affido” questa storia delicata che tanto racconta della cultura irlandese.