In principio era il labirinto. Un grottesco sistema di cavi e di tubi, di corridoi senza meta, che si aggrovigliavano nella semioscurità. Semiciechi, condannati a errare, articolavamo parole e vagiti che nessuno avrebbe osato ascoltare, men che meno capire. Un utero? Potrebbe darsi. Più probabilmente un libro, un libro alla sua prima stesura, un manoscritto non finito, pieno di cancellature, di frasi sospese. L’abbandono del significato: il senso che prova a farsi strada tra le parole, ma non ci entra. Quello che Kafka avvertì allo scoppiare del secolo fu uno Scricchiolio, e ne trasmise fede attraverso i racconti del 1913, un attimo prima che anche la storia si premurasse di comunicarcelo. Prima di lui solo il presidente Schreber si era preso la briga di avvertire il mondo, ma la sua era psicopatologia; quella di Kafka, nonostante le molte psicologizzazioni tentate, e nonostante il suo deliberato e fallito rifiuto di una posterità, era pur sempre letteratura. Svegliarsi all’improvviso e trovarsi mostri, un padre che condanna apoditticamente il figlio: da tempo immemorabile la letteratura si era nutrita di catastrofi, drammi e tragedie, ma nel confronto col tragico greco si rinveniva che in Kafka era venuta meno ogni illusione di destino, senza abbandonare per questo l’idea della Necessità. Ἀνάγκη senza ἀρχή e senza τέλος: anarchica, e interminabile, proprio come i corridoi su cui si snodano i racconti e i romanzi di Kafka.
Non voglio sentire più nulla a pezzi e a bocconi. Mi racconti tutto dal principio alla fine. Meno di così, le dico, non ascolto. Ma ardo dalla voglia dell’intero, si leggeva in Descrizione d’una battaglia, il primo racconto di Kafka ad essere pubblicato. Di questa “voglia dell’intero”, non solo tutta la produzione di Kafka restò desiderosa e insoddisfatta, ma tutta quanta la sua vita. Quella totalità che solo un’esperienza religiosa forse avrebbe potuto donargli, ma un rapimento estatico quale dal Medioevo non se ne aveva memoria, nel Novecento era già inattingibile. La letteratura ne era un surrogato paradossale, grandioso ma limitatissimo. Kafka tentò anche qualche altra strada, ma con ancora meno convinzione: oltre alle fallimentari esperienze amorose, flirtò un poco col sionismo, ancor di meno con certo socialismo, salvo poi arrendersi all’assenza di un significato, di risonanza, di necessità, e tornare sempre al foglio bianco, là dove l’inchiostro tronca il respiro.
«Una battaglia per l’esistenza», definì la vita di Kafka Klaus Wagenbach, uno dei suoi primi e più attenti biografi. Questo «figlio di un mercante, smarrito a Praga, vittima di una fama tardiva, troppo tardiva per l’autore», solo a fatica seppe risolvere l’indovinello “vita o letteratura?”che la sua insopprimibile sfinge interiore gli aveva posto. Le indagini di Wagenbach sulla vita di Kafka non si persero a inseguire dettagli in fondo collaterali, come quella vulgata successiva che mise al centro di tutto il suo rapporto con le donne, o fantasmatici, come l’ipotesi del figlio perduto: solo ove opportuno, Wagenbach evidenziò bene il rapporto tra la vita di Kafka e il suo immaginario, come quando evidenzia che l’esperienza professionale di K. nell’istituto di assicurazioni lo portò ad avere «una visione concreta di un sistema industriale disumano che quasi nessun altro scrittore della sua generazione»; significativo anche, e proprio perché la figura di Kafka finì per adombrare tutto quel movimento, il ritratto della vita culturale della Praga di inizio secolo, tra scrittori e poeti avanguardisti come Neumann e Langer, filosofi come Ehrenfels e un nutrito gruppo di fisici e matematici che vedeva nelle sue schiere persino il giovane Einstein. In questo contesto Kafka «apprese, poco prima di scrivere le sue opere principali, i più importanti problemi dell’epoca nuova», dalla teoria dei quanti alla psicoanalisi, «anche questo un fatto che smentisce la leggenda secondo la quale Kafka sarebbe stato un provinciale ignorante».
Attento a smentire i cliché e le dicerie sulla vita di Kafka che già negli anni sessanta a cui risale questa biografia si disseminavano innumerevoli, Wagenbach affonda il suo colpo definitivo di calibratissimo biografo leggendo tutta la sua vita attraverso l’immagine, tanto cara allo scrittore che mai volle definirsi tale, della Ferita: feritoia nell’Essere che assorbiva la vita ma ridonava letteratura, immolazione di tutto il resto in nome dell’ispirazione, traduzione, che è anche tradimento, dell’esistenza intera in cambio di poche parole, che poi avrebbe voluto pure bruciare, far bruciare, in una cremazione puerile e testamentaria, assurda eppure conseguenziale, fedele a quel cupio dissolvi che da cima a fondo di tutto ciò che scrisse Kafka si può rinvenire.
Con i nomadi, non si può parlare. Essi ignorano la nostra lingua, e non si può dire che ne abbiano una propria. S’intendono tra di loro come le cornacchie, tutto il giorno è un incessante gracidio. Non capiscono le nostre abitudini e istituzioni, non vi prendono nessun interesse: quindi non gradiscono neanche che si parli loro a gesti. Tutto Kafka è dominato dall’attesa, attesa di un innominabile che viene ad annientare, più che a salvare: e quest’attesa spesso prende le forme di un assedio, vissuto dagli assediati, o in certi momenti di un perlustramento, ma di un perlustramento a vuoto, che ripercorre tracce sbiadite. In Kafka il presente è stasi, ciò che conta è volto tutto al passato, raramente al futuro. Immobilizzati, separati dal loro stesso tempo e dai fondamenti della loro esistenza per non dire dalla pagina che pure dà loro vita, i personaggi di Kafka non possono far altro che indagare la loro stessa estraneità a tutto e tutti: come uno studente un po’ tardo di Cartesio, che passa tutta la vita a scrutare la discrepanza, quel muro di separazione che c’è tra oggetto e soggetto.
È questo “presente assoluto” a sorprendere Edoardo Albinati nella prosa di Kafka, con tutte le schizofrenie che ciò comporta in termini di “adesione al mondano” – «l’estraneità come una pellicola di smalto». In un suo testo sullo scrittore, posto al fianco di altri contributi di altri scrittori in un volume non per nulla intitolato Kafka:, Albinati per un attimo accarezza una tesi sostenuta da Ferruccio Masini, per cui l’“inventario” di Kafka, la sua attenzione a dettagli concreti del vivere potrebbe essere ricondotta a una visione del mondo tipicamente ebraica, che rivaluta l’immanenza nonostante la fede nella trascendenza perché solo nell’immanenza può ancora avvenire il miracolo – il collidere tra le due sfere. Ma poi il discorso si sposta, messa da parte la religione la letteratura prova a bastare a sé stessa, perché «quel che chiamiamo ‘romanzo’», enuncia Albinati, «non è che una sfrenata, sacrificale dedizione al mondano, una devozione assoluta verso il visibile e le sue figure, al fine di renderne evidente il mistero costitutivo senza bisogno di ipotizzarne e indagarne un altro che si nasconda dietro le sue apparenze». Unescapable è il mondo per come è descritto da Kafka, un incubo dai tratti totalitari a volte, soprattutto nei romanzi, ma assolutamente privo dell’angoscia e della consolazione di un aldilà. È anche da qui che nasce quel comico kafkiano su cui si dilunga Rocco Ronchi in un altro dei contributi contenuti nel volume: comico radicale, comico anche autolesionista se è vero che più volte in occasione di letture pubbliche di suoi racconti Kafka è scoppiato a ridere, comico che mette alla berlina «il tragico dei moderni, il tragico cristiano, quello che ha il suo perno nella dottrina del libero volere. Kafka ride della ‘libertà’, Kafka ride dell’idea, così ben radicata nell’Occidente cristiano, che il soggetto ‘disponga’ del potere, che lo possa esercitare liberamente, responsabilmente». Senza inizio, senza fine, senza volontà, senza potere, senza salvezza, senza speranza: l’immaginario kafkiano potrebbe essere definito tutto per via di levare, in una serie, centellinata, di privationes boni che accerchiano i personaggi non meno dei lettori.
Illustri signori dell’Accademia! Voi mi fate l’onore d’invitarmi a presentare all’Accademia una relazione sulla mia precedente vita di scimmia. Purtroppo non sono in grado di rispondere all’invito, per come l’avete formulato. Cinque anni mi separano, ormai, dal mio stadio scimmiesco, un periodo forse breve, se calcolato sul calendario, ma interminabile se lo si trascorre al galoppo, come ho fatto io. Un che di selvaggio si respira nelle righe che questa monologante scimmia kafkiana si lascia sfuggire – animale scrivente, scrittore animalizzato. Questa impresa sarebbe stata impossibile se avessi voluto rimanere ostinatamente attaccato alle mie origini, ai miei ricordi di gioventù. Eppure, se si può estremizzare quello che Canetti rilevò analizzando l’epistolario con Felice, se è vero che per entrare nell’immaginario di Kafka bisogna rinunciare alla posizione eretta, proprio nel monologo della scimmia si può godere di una sintesi cristallina del kafkiano tutto. In mezzo a tutto questo, un’unica sensazione: quella d’essere senza via d’uscita: non è questo il basso continuo che permea tutto Kafka?
Sul trittico di racconti di animali che Kafka compose al termine della sua vita – Ricerche di un cane, La tana e Josefine, la cantante – si concentra L’animale della foresta, terza opera postuma di Roberto Calasso dopo i precedenti excursus su Baudelaire e sul Nuovo Testamento. Anche nelle loro riflessioni più generali le pagine di Calasso sembrano condannate irresistibilmente a riflettere i caratteri più cristallini dell’immaginario, della forma, dello stile di Kafka. «Nessuno è riuscito a definire la prosa – essere elusivo, sfuggente, indefinito nella sua espansione», si legge a un certo punto de L’animale. «Tutto è prosa, finché non appare qualcosa che potrebbe anche non esserlo, per esempio il canto. Ma presto si scopre che il canto potrebbe essere una mascheratura del fischio. Allora uscire dalla prosa sarebbe impossibile?». Uscire dalla prosa, uscire dalla letteratura, uscire dal romanzo, uscire dalla lingua, uscire dalla civiltà occidentale e dalle sue pastoie, uscire dalla religione e da un’eredità che si fa tanto più ingente e minacciosa quanto più ci addentriamo nel cuore della secolarizzazione: di queste impossibilità, di questo essere senza via d’uscita si era nutrita tutta la narrativa kafkiana, si è nutrita anche la prosa calassiana, nel costruire un labirinto di simmetria tra la mitologia classica e la cosmologia vedica, tra i deliri del presidente Schreber e il milieu un po’ ipocrita e un po’ autoironico della Francia dei primi boulevards. Kasch e la sua Rovina, Cadmo e le sue Nozze con Armonia, Ka, K., più avanti Il Cacciatore Celeste – a Kafka Calasso aveva dedicato il quarto volume della sua Opera Unica, il primo, per così dire, monografico, giocando sin dall’inizio sul reiterarsi di un fonema misterico, questo k, che spazia dall’antropologia egizia alla filosofia sanscrita sfiorando anche il cristianesimo più ellenico.
In questi testi estremi dell’opus kafkiano, liminari tra la vita e la morte, tra un’umanità sfigurata e un’animalità inquietante, ritorna perfino ad essere alluso quello straordinario mito vedico, puro Upanishad, sui due uccelli: l’uccello che mangia “il dolce frutto”, e l’uccello che guarda l’altro mangiare. «Un cane che indaga sui cani – e non appartiene più alla loro comunità» — «questo accade a chi diventerà il ricercatore»: con poche righe Kafka, e Calasso con lui, ci riporta all’inizio dell’autocoscienza, e della filosofia, e della letteratura tutta – ma il grigio destino di chi si volta indietro a guardare e a studiare gli altri, invece che a proseguire imperterrito nella vita, l’immaginario occidentale lo ha incarnato bene in Socrate non meno che nella moglie del biblico Lot. «Bau significa al tempo stesso ‘costruzione’ e ‘tana’: ciò che è più visibile e non si può non vedere – e ciò che è più invisibile, al punto che non se ne può desumere la presenza, se non per la sua apertura sul visibile, generalmente mimetizzata». E le ricerche del cane non falliscono proprio perché il cane indagatore è incapace di scorgere gli uomini? Come a dire che è impossibile circoscrivere una razza senza un punto di osservazione esterno? Come a dire che gli stessi uomini non saranno mai compresi finché non si capiranno gli dèi, i demoni, e ancor più i fantasmi, che si aggirano tra loro?
Io, che pure sono un animale della foresta, allora la foresta per lo più la evitavo, giacevo chissà dove in una sudicia fossa, e fu lì che ti vidi fuori all’aria libera, la cosa più bella che avessi mai visto, scordai tutto, persino me stesso, mi levai in piedi, giunsi fino a te, come se ciò mi fosse lecito… Ero così felice, così fiero, così libero, così potente, mi sentivo talmente a casa, sempre quel: talmente a casa – ma in fondo altro non ero che l’animale, il cui posto era la foresta, ora vivevo lì all’aria libera solo per la grazia che tu mi concedevi e, senza saperlo, poiché ormai non ricordavo più nulla, leggevo nei tuoi occhi il mio destino. È un inno all’estraneità assoluta, e a un’apocalittica concezione dell’amore, il passaggio delle lettere a Milena da cui prende il titolo il volume postumo di Calasso. Un simile miscuglio di angoscia e speranza, una tale commistione di natura e autocoscienza, di erranza e di rimpianto, di sentimento di onnipotenza e di cupa rassegnazione, lo si era trovato solo un’altra volta nella letteratura occidentale, e nel sotto-testo: nell’Antico Testamento della Bibbia, di cui l’ultimo Kafka sembra densamente un’oscura estensione. «Fino a quel momento, la letteratura era stata, per Kafka, la potenza ultima, oltre la quale non era concesso andare. E ora, di colpo, quando tutto sembrava finito, si profilava qualcos’altro, su cui Kafka aveva sempre taciuto: una certa dottrina segreta, ‘una cabala’, la punta arroventata dell’ebraismo». Così Calasso risolve anche l’enigma dei Quaderni in ottavo, di quegli Aforismi di Zürau da lui ripubblicati in un’edizione critica a Max Brod, in pagine singole e inappellabili che ben evidenziano la solitudine dei versetti.
Ma perché vi comportate come se esisteste realmente? Invece volete farmi credere che irreale sono io, questo buffo signore fermo sul selciato inverdito? Eh, è passato molto tempo da quando tu eri reale, cielo; e tu, piazza, non sei mai stata reale. Tornando bruscamente indietro al primissimo Kafka, al Dialogo con l’ubriaco, ci troviamo in un contesto ancora meno famigliare di quella religiosità senza fede che infesta le pagine degli ultimi anni di vita di Kafka: questo tono monologante, un po’ riflessivo un po’ goliardico, certo esplicito nei suoi estremi, K. lo avrebbe messo da parte per un altro stile, per un inno all’implicito, al non-detto, al rimosso, per l’unica incarnazione possibile di certa tragedia antica nel cuore del Novecento. Ma Mio Dio, come dovrebbe essere utile al pensatore imparare dall’ubriaco! E più famigliare è già il Dialogo con il devoto, che con L’ubriaco faceva da dittico “non è mai successo”, dice questo bizzarro uomo di fede, “che io fossi convinto della realtà della mia esistenza: le cose che ho intorno mi appaiono talmente logore, da farmi credere che la loro vita sia ormai trascorsa, e che stiano sprofondando nel nulla. Io sono di continuo assillato dal desiderio, caro signore, di sapere come sono le cose prima che si mostrino a me. Hanno una felice, tranquilla esistenza: deve essere così, spesso odo gente che parla di esse in questo modo”.
Com’erano le cose prima che si mostrino a me, come saranno quando se me ne sarò andato: il tentativo di Kafka di avere controllo sulla realtà e sulla sua opera letteraria almeno dopo la morte, si è risolto in uno scacco altrettanto kafkiano, in una deificazione in classico che ancora sorprende, figlio, frutto e falla di un testamento tradito di kunderiana memoria. Così di Kafka, tanto, in un certo tutto è postumo, ed è Max Brod, in certe cose più enigmatico dell’amico, che dobbiamo ringraziare per tale posterità. Detta così, sembra quasi normale: ogni scrittore centellina il suo lascito, inediti compiuti e appunti abrogati continueranno a riesumarsi per decenni dopo la sua morte, proprio Calasso lo ha insegnato bene. Ma se a lasciare opere postume sono buoni tutti, le opere fantasma sono appannaggio di pochi, soprattutto adesso che i manoscritti di Céline sono stati ritrovati e a lungo andare anche le pagine scritte da Salinger nei decenni di ritiro dovrebbero vedere la luce.
«Il 2 agosto 1962 vien oggi ricordato come un giorno luminoso nella storia della repubblica delle lettere. Pur essendo perito Rudo Altman, illustre scrittore di viaggi caraibico, e pur essendo uscito in trecento copie nelle librerie boliviane il primo romanzo di Carla Ambrogina Gonzaga Xiurillo, scriba lambratense-guaranì che avrebbe intinto la penna nella melassa rancida di lì a mezzo secolo mietendo allori d’ogni spese (oggi nelle ed. *********), quel giorno si ritiene sia stato rinvenuto il manoscritto del quarto romanzo di Franz Kafka». Ludmilla e il corvo di Gennaro Serio è una vera e propria ucronia nella storia della letteratura, il sogno romanzato o la pia illusione del ritrovamento di qualcosa che apparentemente dovrebbe stare del tutto di fuori dall’opera di Kafka, e che invece, nella sua assenza, è parte integrante: quel fascio di lettere che un Kafka non lontano dalla morte scrisse per uso e consumo di una sola bambina incontrata in un parco a Berlino, identificandosi nella bambola che lei aveva perso, secondo il noto racconto di Dora.
«Ti ricordi di quel gentile signore con il cappello che veniva a sedersi sulla panchina davanti al tiglio, sempre un po’ in affanno, magro e pallido. Ci facevamo tante risate a guardarlo da lontano, con quella sua aria allegra e triste nella stessa espressione. Era un po’ come noi, compagna, allegre e tristi con la stessa espressione. Quella volta che piangeva come un bambino… Ci avvicinammo senza pensarci. Signore, chiedemmo, signore, perché piange tanto? E lui ci guardò con quel sorriso così bello, compagna, un sorriso gentile, e disse, ho perso le chiavi, non riesco a trovarle da nessuna parte». Uno sperimentalismo sulfureo e variegato attraversa tutto il secondo romanzo di Serio, in una polifonia di voci, di prospettive, di enigmi e falsi letterari che rendono un certo principio mimetico il carattere più esorbitante della sua scrittura. Nell’audacia narrativa che sta dietro alla scelta di immaginare il contenuto e anche il ritrovamento di un Kafka perduto, anzi, «l’opera di rielaborazione letteraria che Ludmilla», la bambina, «poteva aver fatto dell’incontro avuto con Kafka», prende forma una fantasmagoria metaletteraria che riprende dall’opus kafkiano non tanto lo stile, i simboli arcani o i contrasti, ma quel senso di precarietà assoluto dell’esistere che affligge i libri non meno degli uomini. Un rosario di coincidenze, sorprese, enigmatici casi di fortuna avvolge tutto il racconto dell’immaginario ritrovamento di questo “quarto romanzo” di Kafka dal titolo in portoghese, O cuorvo, e dal “lucuore misterioso” – ma non è questa erranza, questo silenzio, questa tensione, il segreto palese della letteratura che Kafka riuscì a incarnare oltre che a vivere?
Tutta questa letteratura è assalto alla frontiera, e, se non fosse intervenuto il sionismo, avrebbe potuto evolversi facilmente e diventare una nuova dottrina esoterica, una cabala. Ne esistono gli spunti. Certo qui si richiede un genio incomprensibile che affondi nuovamente le radici nei secoli antichi o li ricrei e con tutto ciò non si doni, ma soltanto ora incominci a domarsi. Kafka: l’impossibilità della parafrasi, il proliferare dei controcanti.
Labyrinth with Floral and Cornucopia Border, folio 16 (recto), from Florilegium (A Book of Flower
Studies) 1608 / The Cleveland Museum of Art.
https://www.clevelandart.org/art/1963.594.16.a