Gli pare che la pizza di Remo non abbia il solito odore di sempre. Non capisce il perché. La sua rotondità, per la prima volta, gli dà una sensazione di fastidio. Continua a guardare il cornicione bagnato di sugo, pensando a dove poter tracciare l’inizio e la fine di quella circonferenza inesatta. Gli serve solo un punto della crosta che lo chiami per dirgli sono il punto A da dove partire per disegnare un percorso che torni in A e chiuda così il mare di mozzarella al suo interno, al sicuro. Tommaso in quel caso sarebbe tranquillo perché è così, che funziona, per lui. Lui è uno scienziato: ha bisogno di unire i punti.
Può constatare che la pizza di Remo sia uguale a tutte le pizze che ha sempre mangiato lì dentro, e che dentro e al di fuori del locale tutto somigli a ciò che ha sempre visto passare di lì, nel quartiere Testaccio di Roma. Ma oggi Tommaso non riesce ad individuare il punto A da cui chiudere una circonferenza, e dunque non è felice. Questa sera che ha deciso di tornarci, a due passi dal Tevere, Roma non gli sembra più così bella.
Tommaso Zamparelli è nato nella capitale nel 1986, e la pizzeria Da Remo esisteva già da dieci anni. Piazza Testaccio da molto prima, e Roma stessa 753 anni prima della nascita di Cristo. Dopo la nascita di Tommaso, invece, proprio nel luglio dell’86, gli anni hanno continuato ad essere contati come sempre, la pizzeria Da Remo ha continuato a fare le pizze, e la capitale non si è accorta di niente.
Quando esce dal locale, si continua a sentire strano, forse per via di quella pizza che non è riuscito a circumnavigare con lo sguardo, oppure perché il suo sapore non lo ha fatto sentire come lo faceva sentire prima. Prima di quando, questo Tommaso non saprebbe dirlo.
Fuori dalla pizzeria si è appena fatto buio, e Tommaso cammina lento per arrivare in Piazza Testaccio, che è sopraffatta dal vociare della gente seduta sulle panchine, a fare gli aperitivi.
La piazza è un rettangolo i cui lati si affacciano gli uni sugli altri con sguardo cattivo, creando l’illusione che sia impossibile uscirne fuori. Sembra un labirinto senza strade, perché tutti i lati e tutti gli angoli sono uno identico all’altro, e una volta arrivato al centro non ci si ricorda più da quale delle otto strade che portano alla piazza si era arrivati. Si dice che ci siano persone che hanno passato nottate intere a fare avanti e indietro tra la piazza e i vicoli che la contornano, per ritrovare la macchina che avevano parcheggiato prima che facesse buio.
Quando era più giovane Tommaso aveva trovato il modo di orientarsi, basandosi sulla disposizione delle panchine. Ma su quelle panchine questa sera ci sono troppe persone, e le osserva come se fosse solo lui, in questo momento, che si sente così. Senza due punti da congiungere per poter dire: è qui che inizio, è qui che finisco. In piazza invece, tutti sembrano iniziare e finire in ogni istante, consapevoli che le loro gambe morbide si esauriscono quando inizia il legno umido delle panchine.
La maggior parte di loro sono ragazzi. Gli studenti a Roma sono tutti uguali. Girano in branco con borse e zainetti e le fotocopie sottobraccio, che hanno appena stampato nella copisteria lì accanto, tre centesimi a pagina. Nel ritorno verso casa, si fermano a prendersi gli spritz, con il sorriso in faccia. Oggi Tommaso invidia il modo in cui i loro denti disegnano una parabola perfetta, con concavità verso l’alto. Invidia il modo in cui tengono in bilico i bicchieri gesticolando, impegnati a snocciolare grandi discorsi sulla storia, la politica e l’attualità. Non essendo ancora consapevoli di farne parte anche loro, della politica e della storia e dell’attualità. Loro parlano, e si girano le sigarette, allungando ancora un poco il momento in cui, tornando nelle loro case, si leveranno l’odore delle aule universitarie addosso.
Quando Tommaso era uno studente a Roma, li faceva anche lui gli aperitivi. Teneva i bicchieri proprio come li tengono loro, giocando con la cannuccia e sgranocchiando patatine, fumando una sigaretta dopo l’altra. Tuttavia a osservarli così, che paiono contenti, si convince di non essere mai stato veramente parte di qualcosa di così ingenuo. Guardarli lo rattrista, lo rattrista anche il quartiere Testaccio, e forse tutta Roma, che ha perso la sua magia. Glielo dicevano tutti, mentre era in Inghilterra. Non tornare, che tanto Roma non è più così bella.
Rimane sotto un albero a sentirsi un delinquente, a rubare con lo sguardo le loro risate. Si accorge che una ragazza bionda lo sta fissando. È una studentessa con le sue fotocopie poggiate sulla panchina, e gli sorride. Un’altra sera sarebbe andato a parlarle, ma ora gli sfugge il senso di fare le cose così, tanto per fare qualcosa. Si gira e allunga verso il Tevere, che sembra il Tamigi a quest’ora della sera, perché al buio i fiumi sono tutti uguali, e si lascia alle spalle la studentessa bionda con il bicchiere in mano, e con lei l’intero chiacchiericcio della piazza.
In quella piazza, prima di essere ancora uno studente universitario, Tommaso era stato un adolescente come tanti altri. Vorrebbe poter dire che ha sempre saputo di voler diventare un fisico, ma la verità è che non era particolarmente portato per le materie scientifiche, finché non ha deciso che doveva diventarlo. Ha deciso che doveva diventare bravo nelle materie scientifiche perché la professoressa M. aveva delle gambe lunghe ed eleganti, e lui si era innamorato delle sue mani sottili sporche di gesso bianco, che si muovevano goffamente sopra di uno spazio nero. Si è accorto di essersi innamorato di lei il giorno che quelle mani pallide hanno disegnato la curva di un integrale alla lavagna. Per proprietà transitiva, si era logicamente innamorato degli integrali. La professoressa M. si era girata con una strana espressione sulla bocca, guardando al di là dei banchi e al di là delle facce opache sedute a quei banchi, e aveva detto: sono molto eleganti, gli integrali, non trovate? I suoi compagni di classe avevano riso di lei, e lui anche, ma aveva pensato che avesse ragione.
Aveva passato giornate sui libri, a ricercare disperatamente dentro di sé un talento che pareva non gli appartenesse. Aveva cominciato a prendere ripetizioni da lei. Entrava timido nella sua grande casa sopra il Giardino degli Aranci, e rimaneva fino a sera, fino a che lei non si alzava dalla sedia per dire: oggi basta così. Più che ripetizioni, i loro pomeriggi erano lezioni individuali, e una volta la professoressa M. non si era alzata per dire: basta così. Era rimasta seduta e aveva detto: abbiamo finito il programma. Vuoi andare comunque avanti?
Tommaso voleva continuare a sentire la professoressa M. parlare e le aveva detto: sì.
Lei allora aveva fatto un respiro profondo, aveva scritto sopra un foglio bianco la funzione d’onda e gli aveva detto: ti spiego cos’è la fisica quantistica.
Tommaso quel giorno era uscito dalla casa della professoressa M. piangendo. Sentiva che i numeri lo avevano tradito. Com’è possibile? Continuava a dirle mentre lei, con pazienza, gli ripeteva che quando le particelle non vengono guardate si trovano in due posti diversi contemporaneamente.
Com’è possibile? Lei gli spiegava il paradosso del gatto di Schrödinger: il gatto nella scatola è contemporaneamente sia vivo sia morto finché un osservatore non apre la scatola.
Al suo esame di maturità la professoressa M. lo aveva guardato con le lacrime agli occhi, dicendogli che era troppo piccolo per accorgersene, ma che avrebbe fatto grandi cose nella vita.
Quando si era laureato, l’aveva invitata alla cerimonia. Lei era venuta, con le sue gambe lunghe sotto una gonna ampia, aveva applaudito in maniera composta, e poi lo aveva invitato a bere una cosa. Tommaso ricorda bene quella sera, ricorda bene la sensazione di pienezza che ha provato quando, guardandosi di sfuggita in uno specchio del locale accanto a lei, ha pensato che in fondo tutto andava bene, e che era felice. Lei era rimasta a dormire nella sua casa da studente in via dei Volsci. La mattina dopo, mentre si infilava piano le calze, lo aveva guardato e gli aveva detto: stai diventando troppo grande, devi sbrigarti a fare grandi cose o sprecherai il tuo talento. Questo paese non è il tuo: cercati un gruppo di ricerca forte all’estero, scappa.
Due mesi dopo lei gli aveva trovato un dottorato nel Regno Unito. Era dunque partito per mandare avanti un grande esperimento in una piccola università a sud dell’Inghilterra, a pochi chilometri da Londra.
I primi mesi, si sentiva con la professoressa M. tutte le sere. Apriva piano la finestra della sua casetta, una residenza per studenti a pochi metri dall’istituto di fisica. Fumava di nascosto sul davanzale, coprendo l’allarme antifumo con le buste di plastica del supermercato. Lui l’aggiornava sui progressi dell’esperimento, e lei ascoltava in silenzio. Una sera si era accorto che durante il suo racconto lei aveva cominciato a piangere, e lui non aveva capito il perché. Per tirarle su il morale le aveva fatto notare che c’era la luna piena, spiegandole che Einstein era arrabbiato con la fisica quantistica, perché non era possibile che quando non guardi la luna allora la luna non esiste. Sono io che ti ho raccontato questo aneddoto, aveva detto lei. C’era stato un minuto di gravissimo silenzio, prima che lei dicesse che anche lei era arrabbiata con la fisica quantistica, che era arrabbiata con la fisica in generale, e anche con Einstein, perché Einstein sotto sotto era solo un cristiano bigotto, che sosteneva che dio non gioca a dadi con il mondo. Ci credo, perché se dio stesse davvero giocando a dadi con il mondo non c’era nessuna probabilità che fossero millenni che a ogni lancio perdiamo sempre noi. (Ma noi chi? Aveva risposto Tommaso, ma lei aveva proseguito).
E infatti non è dio che fa le leggi della fisica, perché la fisica l’avevano costruita gli uomini, uomini come Einstein. Che era impossibile essere donna in un mondo in cui le leggi dell’universo le avevano create solo uomini. Poi aveva cominciato a singhiozzare, e Tommaso non aveva saputo risponderle. Promettimi che non ti scorderai mai di guardarla, la luna, la notte. Così siamo sicuri che non scomparirà mai.
Questa sera sopra il Tevere la luna non c’è, e lui si sente quasi in colpa.
Sono quasi due anni che non scrive alla professoressa M. Non lo ha fatto con cattiveria, ma dopo qualche mese di dottorato ha smesso di riempire le sue notti con le loro chiacchierate, per sostituirle con la pelle morbida di Alice, una ragazza della sua età che viveva e studiava due blocchi più avanti, verso la facoltà di filosofia.
Alice era bionda, e veniva sempre scambiata per inglese. Non era inglese, infatti odiava la pioggia. Stava sempre al sole, e quando il sole non c’era si incupiva così tanto che a Tommaso metteva paura. Alice odiava l’Inghilterra. Ma che ci viviamo a fare in un paese in cui c’è il sole due volte l’anno? Torniamocene in Italia, o trasferiamoci in Brasile, questo posto non fa per noi. Per sfuggire alla monotonia del campus universitario, Alice lo aveva portato a vivere in città, a Brighton. Si erano trasferiti in una casetta anonima di una strada anonima chiamata John Street.
Tommaso non riesce a scorgere il punto A da dove dire è così che ho conosciuto Alice. Si ricorda solo del mezzo. Si suppone sempre che il percorso che c’è nel mezzo perda la sua importanza, quando si raccontano le storie. C’è un nome nella fisica, per questo. In fisica si definiscono conservative quelle forze il cui lavoro non dipende dal percorso, ma solo dal punto di inizio e quello di arrivo. Se questi coincidono, il lavoro fatto da una forza è nullo. Ma lui non lo ricorda il punto di inizio, e nemmeno quello della fine, per essere precisi. Perciò non può studiare lui e Alice come se fossero una forza conservativa, e questo un po’ lo rassicura. Lo rassicura pensare che ci sia qualcosa nella sua vita, anche solo una, in cui non può mettersi a contare. Quando ricordo di te ricordo le intermittenze dell’amore, le aveva detto lei una sera al buio, mentre erano sdraiati sul pavimento della loro casa in John Street. Anche lui, adesso, pensa alle intermittenze dell’amore.
Pensa a quando Alice aveva dipinto la porta della loro casetta di un rosso brillante. Di quando andavano a tirare i ciottoli al mare, bevevano le birre nei pub, cucinavano i risotti, facevano la spesa. Andavano sempre insieme a fare la spesa.
Ricorda la prima volta che erano entrati insieme in un Sainstbury.
Quella volta Tommaso aveva guardato la montagna di pacchi di pasta sugli scaffali lunghissimi, così gli erano sembrati, infiniti, e aveva cominciato a salirgli un’angoscia tale che avrebbe voluto sedersi a terra e gridare, come un bambino. Guardava i prezzi, calcolando gli sconti. I colori delle diverse buste. Non capiva come raggruppare le diverse tipologie di pacchi di pasta in grandi insiemi, intersecarli, e scegliere il migliore. Su cosa si doveva basare? Sulla marca? Sulla qualità? Sulla provenienza? Sul suo gusto personale? Dopo venti minuti, Alice era passata di lì, con una bottiglia di latte tra le mani, e aveva cacciato fuori una risata genuina, afferrando un pacco di spaghetti De Cecco. Lui l’aveva guardata, e le aveva detto stremato: ma come fate, voi?
Dopo aver ripensato a questo, si accorge che non è vero che le intermittenze sono tutte felici.
Adesso che guarda il Tevere e che è come se guardasse il Tamigi, gli viene in mente di quella festa a Londra dove si è lasciato trascinare una sera che era uscito presto dal laboratorio. Ricorda la casa in cui erano entrati già completamente fatti, una casa da studenti in affitto, piena di lattine di birra da quattro soldi sul pavimento. In Inghilterra gli studenti non bevono nelle piazze, ma dentro le loro case, che sono sviluppate in verticale e non in orizzontale, come gli appartamenti di Roma. Quando Tommaso si è trasferito lì, la prima volta, dopo un paio di giorni è entrato in casa e gli è parso di essere diventato più verticale anche lui. Quando tornava in Italia faticava a tornare orizzontale, ed è finita che adesso ogni volta che mette piede in una casa si sente deformato, come bloccato in un sistema in cui le coordinate sono dimensioni a cui lui non appartiene.
Alice quella volta a Londra aveva uno sguardo piatto e non voleva tornare a casa, per nessun motivo, sembrava. Aveva visto il naso di lei screpolato sotto il piercing, e si era sentito incredibilmente malinconico. Aveva guardato i ragazzi ballare sopra la moquette sporca di vino rosso, i capelli biondi di Alice muoversi lenti sotto la luce biancastra di un lampadario polveroso, e aveva avuto la netta sensazione che stesse accadendo qualcosa di assolutamente irrilevante. Lì, al nord di Londra, sopra una moquette. Gli era parso in realtà che anche al di fuori di quella casa non stesse accadendo niente di rilevante, che se un extraterrestre fosse passato di lì, in quel momento, avrebbe pensato che non valeva la pena di cercarci nulla, su questo pezzo di materia che gira intorno al sole. Che forse quegli extraterrestri avevano smesso di guardarla la terra, e quindi lei, Londra, quella stanza e lui stesso erano spariti, tutti. Quando era finito l’effetto della droga, era tornato a casa da solo, facendosi il viaggio verso Brighton in taxi. Arrivato di fronte la porta rossa in John Street aveva vomitato e poi, invece di entrare a casa, si era seduto sui gradini della scalinata grigia ad aspettare Alice. Ma lei non era tornata, la mattina dopo. Lo aveva svegliato Clementine, la vicina. Si era sentito sporco, era entrato in casa infreddolito, e si era seduto sul materasso ad aspettare. Erano passati, gli era parso, diversi giorni, e quando Alice era rientrata, aveva avuto una sensazione strana. Gli era parso che nonostante lei fosse tornata, lui stesse continuando ad aspettare.
Poco dopo aveva deciso di tornarsene in Italia. Forse era una giornata di sole, non lo sa più. Lo pensa perché Alice non era voluta partire con lui.
Era arrivato quindi a Roma da solo, e una volta approdato alla stazione Termini lo aveva chiamato Arianna, la più stretta amica di Alice. Arianna gli aveva dato di fretta la notizia con quattro frasi concise, le più concise che Tommaso abbia mai sentito in vita sua.
Aveva riattaccato e si era sentito vulnerabile, come fosse un neonato. Aveva sentito il dialetto romano trapanargli le orecchie, l’odore dolce delle scale mobili arrampicarsi nello stomaco, e i cartelloni pubblicitari insinuarsi prepotentemente nel suo campo visivo.
Sceso nei sotterranei, aveva sbagliato ben cinque volte il corridoio giusto che lo portasse alla metro A, direzione Anagnina. Dopo aver vissuto vent’anni nella capitale, riesce ancora a sbagliarsi quando vede un corridoio biforcarsi alla stazione Termini. Avrebbe voluto chiamare Alice ed urlarle contro, oppure no. Oppure chiamare Alice e dirle qualsiasi cosa che li potesse far ricominciare a viaggiare nello stesso campo di forze, oppure essere lui stesso il campo di forza dove lei poteva camminare sicura.
Invece le aveva scritto un messaggio patetico.
Sono arrivato a Termini. È forse arrivato infine il momento della resa? Forse era solo questo che palpitava dietro la porta: un giardino di sentieri che si biforcano. Un mondo al di là e un mondo che resta di qua. Hai presente la teoria dei molti mondi di cui ti avevo parlato? Sicuro te lo ricordi. Quella che ipotizza che il paradosso del gatto di Schrödinger si risolve assumendo che quando si apre la scatola si aprono due mondi, uno in cui il gatto è vivo e uno in cui il gatto è morto. Oggi mi pare che nel mondo che mi si è aperto davanti io abbia perso. E forse ho perso anche in tutti gli altri mondi che si sono biforcati di fronte a me. Ho perso il me sedicenne che voleva vincere il Nobel, ho perso i tuoi occhi che si stropicciano al mattino. Ero andato vicino a trovare quel limite lì, che mi portasse a essere come tutti voi. Invece i miei calcoli sono errati una volta ancora, e ho perso il senso dell’orientamento. Ora il pensiero della porta rossa in John Street che si apre mi fa stare male. Ti ricordi? Io e te che usciamo di casa, e ti dico mi sento così bene a uscire con te, la mattina. Tu che mi rispondi: lo so, c’è odore di mare. Non si può stare male quando si vive vicino al mare. E forse avevi ragione tu, perché nel mare non ci sono sentieri che si dividono. Ma dimmi, questo sentiero qua, che si è aperto di fronte a me ora che Arianna mi ha chiamato, è davvero un mio sentiero? È davvero un mondo di cui faccio parte? Dimmelo tu. Perché mi pare che tutto, da John Street alla stazione Termini è un sentiero che si biforca, e che mi sono già perso.
È il brivido del vuoto, e mi sorge un problema: tutti questi bivi, e non sono mai arrivato da nessuna parte.
Lo aveva scritto tutto, in piedi tra le persone che passavano velocemente, con la sua valigia accanto, poi lo aveva cancellato e aveva ricominciato a camminare.
Oggi, a distanza che pare infinita da quel giorno alla stazione Termini, Tommaso Zamparelli alza gli occhi e si accorge che sta camminando sull’isola Tiberina. In una giornata di luglio su quell’isola lì, trent’anni fa Tommaso c’è nato. Lo vede, l’ospedale Fatebenefratelli che lo guarda indifferente. Tommaso pensa che strano, quanti bambini stanno nascendo proprio ora, in questo momento, mentre in piazza Testaccio gli studenti si bevono gli spritz. Immagina i nascituri sporchi di sangue che piangono, immagina i volti contratti dei loro genitori, l’entropia dell’universo che sale ancora. Tommaso pensa tutto questo, e si accorge che è tornato nel suo punto A, dove il suo percorso è iniziato tre decenni prima. Una forza conservativa dipende solo dal punto iniziale e finale del percorso, cioè dallo spostamento. Se i due punti coincidono, e non c’è spostamento, il lavoro compiuto dalla forza è nullo.
Se Tommaso Zamparelli studiasse sé stesso come se fosse una forza conservativa, oggi camminando sull’isola Tiberina avrebbe azzerato il lavoro compiuto fino ad adesso, perché il punto di inizio e di arrivo in questo momento coincidono. Forse è per questo che stasera Tommaso Zamparelli si sente una nullità.
Tommaso non ha mai creduto al destino. Tommaso crede che il destino sia una tela bianca piena di punti, e che tu puoi unirli come ti pare, per costruirci un’immagine a tuo piacimento. Tommaso non crede nel destino, ma è consapevole che a certe persone capitino tele con più punti da unire che altre, o meno impigliati, più rettilinei, meno distanti gli uni dagli altri.
L’acqua scura del Tevere, non aiuta, questa sera. Non è che pensi sempre ad Alice, in realtà non ci pensa nemmeno così spesso, ma quando ci pensa, si sente piccolo.
Lui e lei erano solo ragazzini. Sapeva che erano degli incoscienti, non lo avevano mai usato loro, il preservativo. Gli sembrava fosse un modo per ribellarsi, per mandare la tela bianca a quel paese, andare al di là di lei e i suoi punti neri e sfondarla, non stare alle regole del gioco. Ma tutto ha delle regole, con i suoi errori intrinseci ed estrinseci. Ritorna con lo sguardo al Fatebenefratelli: per il suo esame di statistica aveva passato settimane a catalogare i bambini nati nel 1998 negli ospedali di Roma, dividendoli per peso, altezza, stato di istruzione dei genitori. Aveva guardato i grafici che ne erano usciti fuori e aveva provato una sensazione di vertigine. Qualcuno userà i bambini nati questa sera per i suoi grafici di un esame di statistica, e a Tommaso questa cosa un po’ gli dà fastidio.
Può prendere tutto, della sua vita fino ad adesso, per costruire la curva del suo spostamento. Può unire tutti i punti della sua tela minuziosamente. Può prendere il suo punto A, qui, nel cuore di Roma. Tracciare la linea piatta della sua infanzia nebulosa, includendo le partite a calcetto e i cornetti sotto casa, i suoi genitori tranquilli. Può poi prendere la professoressa M., i posti che ha visto, le donne con cui è andato a letto e può prendere Alice, può prendere la loro casa in John Street, la sua porta rossa. Può ricordarsi degli spostamenti infinitamente piccoli e delle volte in cui non si è spostato per niente. Può ipotizzare un punto di arrivo, un’altra porta rossa in una nuova strada e chiamarla Itaca, può entrarci dentro e non può disfare in una notte tutta la tela ingarbugliata che ha tessuto fino a quel momento. Può costruire con tutto questo una curva e integrare, integrare dieci cento volte fino a che non risultino pagine e pagine di calcoli ordinati che lo calmino, come faceva nei pomeriggi grigi quando era ragazzo. Alla fine dei conti, può prendere quel numero e dire io sono questo numero. E non cambierebbe niente.
I numeri non hanno cambiato niente, lui non è un’equazione e non si sentirà risolto. Sposta lo sguardo dall’ospedale all’acqua del fiume, la vede scorrere lenta mentre pensa che forse un modo c’è per non sentirsi annullati. Forse ad ogni nuova nascita lo spostamento si protrae ancora e ancora, e forse è facendo figli che non si rimane una forza conservativa.
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