Al nostro futuro
Vestito di stracci
Alle nostre madri
Perdute nel parco
Ai nostri bambini
Che non ci capiranno
Ai nostri sogni
Per sempre in letargo
Non c’è più speranza
C’è la notte
C’è il silenzio
Il mare davanti, Fast Animals and Slow Kids
Le estetiche descritte da Valentina Tanni in Exit reality hanno in qualche modo a che fare con la stanza che i nostri genitori hanno preservato in condizioni simili a quando l’abbiamo lasciata: ci sono le nostre prime, discutibili, letture, le nostre action figure, la televisione a tubo catodico che non si accende più, la vecchia console e poi lì, nell’angolo a fianco al letto, la tastiera coi tasti impolverati, il mouse sbeccato, lo schermo con la cornice di plastica ingiallita. Un clic sul bottone del case e parte un fruscio.
Exit reality di Valentina Tanni (Nero Editions, 2023) ha innumerevoli piani di lettura, e alcuni sfuggono, perché è la materia stessa che tratta a sottrarsi e modificarsi velocemente. L’autrice di questo saggio, che si potrebbe definire anche manuale d’istruzioni, o guida intergalattica, oppure bugiardino cibernetico, è storica dell’arte e si occupa dello stretto rapporto tra mondo artistico e mondo tecnologico. L’esplorazione che porta avanti in questo tomo riguarda determinate estetiche del web, nate dal e nel web, principalmente partendo dal basso, dal centro magmatico delle community (di Reddit, per lo più): la vaporwave, la fruiter aereo, i liminal spaces, dreamcore, traumacore, weirdcore, ecc, che «non sono la periferia dell’arte contemporanea: ne sono il centro. Costituiscono i sintomi più affidabili della temperie culturale che ci avvolge perché nascono da un’elaborazione collettiva che coinvolge milioni di persone», specifica la stessa Tanni.
Si legge su The Aesthetics Wiki, progetto collaborativo nato nel 2018 che si propone di catalogare queste estetiche e che Tanni riprende come luogo iniziale dal quale far partire la propria analisi: «Per estetica oggi si intende un insieme di immagini, colori, oggetti, musica e testi che creano un’emozione, hanno un determinato scopo e aggregano una comunità specifica». Un periodo dopo: «Attualmente non esiste una definizione da dizionario in grado di catturare la complessità di questo fenomeno, che è nato con la gioventù di internet».
Il testo risulta quindi utile a navigare questi mondi cibernetici, conoscerne genesi e causalità. Un libro, insomma, che delle uscite dalla realtà indica le direzioni.
Maledetta nostalgia
Ognuna di queste estetiche, come è fisiologico che sia, ha le sue caratteristiche intrinseche, e spaziano quasi tutte sfruttando diversi mezzi artistici: video, testo, immagini, musica. Il pregio dell’analisi di Tanni è la ricomposizione storica. Di ognuna l’autrice ripercorre la genesi, l’evoluzione e lo sfondamento dei limiti della community nella quale è nata. Questa archeologia cibernetica torna utile per meglio orientarsi nel mare magnum estetico virtuale. Ma, volendo astrarre, è facile capire che le due bisettrici su cui tutte si muovono sono spesso simili: la nostalgia espressa come hauntologia derridiana e la rimasticazione dei contenuti.
Ciò che si respira per tutto il testo è questo sentore di passato. Il termine hauntologia nasce con Jacques Derrida in Spettri di Marx, in cui il filosofo franco-algerino teorizza la nostalgia di un futuro mai avvenuto in relazione al comunismo. È hauntologico quel che, pur non essendo pienamente presente, ha potere infestante – raccontava Mark Fisher in Spettri della mia vita riferendosi alla disgiunzione temporale dell’arte postmoderna connotata da questa «nostalgia del futuro perduto».
Ognuna di queste estetiche, infatti, ha per comune denominatore il mondo dell’infanzia, nello specifico quello di chi era bambino negli anni Novanta. Il motivo è presto detto: dal basso del web, ciò che esce fuori è un manifesto artistico: l’innalzamento di un fallimento sociale. Chi è nato negli anni Novanta, e ancora di più chi l’ha fatto a ridosso del millennio o un po’ più tardi, ha vissuto l’infrangersi delle promesse dorate delle generazioni precedenti. L’arte, così come la letteratura, scaturisce sempre da un fatto sociale – Tanni mi contraddirà se necessario. Il crack del mondo è avvenuto proprio lì, a ridosso dei due millenni, quando ci era stato promesso un futuro brillante come quello dei nostri genitori e invece ciò che ci aspettava deflagrava tra i piani delle Torri Gemelle.
Solo la tecnologia ha mantenuto la promessa di evoluzione e floridità. Per questo, spesso, in queste estetiche è riscontrabile il tòpos del Giappone iper-tecnologico: le luci al neon di Tokyo e le pubblicità della Fujifilm fanno da corollario a questa nostalgia di un passato futuristico mai avvenuto. Sarebbe più corretto chiamarlo retrofuturismo (sempre con Fisher) una specie di sguardo contemporaneamente indietro e in avanti.
Da qui la necessità della via di fuga. In questa direzione giungono in aiuto i video ASMR e la musica Lo-Fi, dove le parole sussurrate nel primo caso e i loop porosi nel secondo inducono l’utente in quello stato ipnagogico intermedio tra sonno e veglia: indistinto e oscuro talvolta, ma più sicuro della realtà stessa. In più, tutto è sacrificabile e rimasticabile, persino le foto rimaste sulle schede SD delle nostre vecchie Canon digitali a cinque megapixel, perché la realtà ha perso valore e allora solo la mescita può ridarle valore. L’editing, l’assemblaggio, la rimasticazione continua dei contenuti porta a nuovi orizzonti.
Esseri liminali
Aggiungiamo un’altra variabile: il limite. In un articolo di qualche anno fa, Simone Sauza ne dava già un abbozzo, individuando in questi trend una psicosi del reale, una specie di insofferenza postmoderna, parlava degli spazi liminali (le piscine in 8bit abbandonate, le pompe di benzina chiuse, i silenziosi quartieri suburbani americani) in questi termini:
«Gli spazi liminali sono associati a luoghi che rappresentano le false promesse dell’era moderna, alle forme distopiche che il modello del sogno americano ha proiettato nell’immaginario globale».
Infatti in quegli spazi ci siamo già stati non fisicamente, ma con la coscienza. Le case suburbane americane hanno pari potenza della camera ordinata, ferma ai nostri dodici anni: tramite la televisione (regina dei mezzi di comunicazione dei nati a fine millennio, nonché altrove personale e universale al contempo) siamo stati su quei viali, in bici, scappando da serial killer, o sfiorando le mani di qualche ragazzina. Teen drama americani come paradigma della crescita.
Si tratta, per Sauza, di «un orrore nuovo: perdersi non nell’ignoto, ma nei corridoi di uno spazio che noi stessi contribuiamo a creare giorno dopo giorno, come a passo di sonnambulo. E, smarriti in questo loop temporale, nel momento in cui proviamo a svegliarci, una domanda scuote la mente: quale realtà troverò tornando indietro?»
Questo ritorno all’interno di estetiche artistiche virtuali ha un significato, che sia Tanni che Sauza mettono bene a fuoco. Siamo una generazione di animali liminali. Infatti, come spiega la stessa Tanni:
«Il concetto di liminalità (dal latino limen) è stato introdotto per la prima volta nel 1909 dall’antropologo belga Arnold van Gennep nel contesto di una ricerca sui riti di passaggio e poi ripreso negli anni Sessanta da Victor Turner. Originariamente, si tratta di uno stato mentale e/o sociale, più che fisico: è il momento esatto in cui stiamo per diventare ma ancora non siamo, è il limbo tra l’adolescenza e la vita adulta, tra la vita scolastica e quella lavorativa, tra uno stato psicologico e un altro, tra la veglia e il sogno.»
Poi, riprendendo Turner, ci fa sapere che gli esseri liminali «non sono né da una parte né dall’altra, ma stanno in uno spazio intermedio». I liminal spaces sono posti in cui questi esseri possono vivere: stanze dell’infanzia abbandonate, piscine svuotate, luoghi di un’infanzia comune un tempo abitati da qualcuno, infestati da presenze, che oggi di quest’ultime conservano la traccia ma di fatto si presentano come un terzo paesaggio clementiano[1] (ovvero come quegli spazi abbandonati dall’uomo che nella loro trascuratezza entropica ritrovano la redenzione della diversità biologica che riprende possesso di quegli stessi ambienti).
Exit reality è definitivamente una precisa mappa di questi luoghi che non sono solo virtuali, ma un’impronta del vissuto di una generazione che ha visto il mondo abbandonare il porto dell’esistenza analogica. Sarebbe stato interessante trovare uno sguardo polimorfo e fisheriano, che spaziasse tra le arti, fino alla letteratura. Vaporwave e co., come racconta l’autrice, non sono solo correnti artistiche ma spazi sociali, cambiamenti antropologici e per questo letterari. Ecco, una piccola digressione sull’esistenza, inesistenza o possibilità, di una letteratura liminale o fuori dal reale avrebbe completato il contesto della discussione, ma forse è ancora presto: come è presto per il futuro che immaginavamo.
[1] Manifesto del Terzo paesaggio, Gilles Clement, Quodlibet, 2005
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