Se vado via comincia con un’«esortazione, o preghiera», e finisce con un punto interrogativo. Persino la punteggiatura in questo romanzo sembra dirci: nella vita, o gridi, o rimani con il dubbio. Sembrano poche infatti le vie di mezzo, per una come Lilia Imbody, una donna che ha scelto tutto nella vita: persino il cognome. Lilia Imbody è una Lilia «nel corpo», una donna concreta di nome e di fatto, consapevole delle proprie forze, una donna, insomma, che non si perde in frivolezze: Lilia ha scelto di conservare il cognome del secondo marito, invece di cambiarlo con quello del terzo, per il semplice motivo che le piaceva di più.
Lilia Liska, Lilia Imbody, Lilia Murray, Lilia Harrison, Lilia Bouley. Non importa quanti cognomi avrebbe potuto avere, o quanti ne abbia avuti veramente: Lilia è una di quelle persone che, per dirla con le sue parole, non ha bisogno di fare le prove per essere sé stessa. Se si potesse, si potrebbe riassumere Lilia in questa frase: «Cos’è che ci fa pensare di poter ancora essere qualcun altro ora che stiamo tutti bussando alla porta delle nostre tombe? Toc toc. Chi è? Lilia Liska da Benicia, California, ecco chi sono. Sempre».
Si sarà capito, per Lilia, il dubbio non è un elemento ammesso all’interno della vita. O, almeno, della sua. E quel punto interrogativo finale?
Tutto il romanzo può essere visto come il tentativo di rispondere alle domande esistenziali di Roland Bouley, l’autore del memoir che occupa la terza parte del romanzo che Lilia legge e conserva con diligenza. Lilia legge attivamente i diari di Roland e li commenta, affiggendo con dello scotch la sua versione dei fatti, che lascia in eredità a Katherine e Iola, la nipote e la pronipote di Lilia, figlie della defunta figlia Lucy.
Le vite di Roland e Lilia sono indissolubilmente legate proprio da Lucy, figlia imprevista che Lilia ha avuto con Roland e di cui lui ignora l’esistenza. Il suicidio improvviso di Lucy legherà Lilia a Roland per sempre, ma di questo Lilia non sembra preoccuparsi: per tutta la vita, Lilia ha coltivato una dolce e mascherata ossessione per Roland, l’unico uomo che sembra aver amato in maniera innocente, senza darsene pena.
Fare i conti col proprio passato è quindi l’urgenza di Lilia, e in effetti il libro principia proprio con un’intervista: intervista che, in realtà, non terminerà più fino alla fine del libro. Al Bayside Garden, la residenza in cui Lilia ha deciso di passare gli ultimi anni della sua vita, viene offerto un corso di scrittura memorialistica. Le amiche di Lilia lo frequentano con passione, mentre Lilia, che al principio lo reputa inutile, nei fatti non si lascia sfuggire l’occasione per fare testamento spirituale e inizierà anche lei a scrivere le sue memorie.
Memoria si è detto, ma di cosa? Dovessimo metterci a contare le occorrenze, la parola vita ritorna 409 volte nel romanzo, in media più di una volta per pagina. Morte, eternità, ricordo, vita, memoria: i personaggi di Se vado via sembrano tutti scervellarsi, in fondo, sull’incombenza della morte e, nel caso di Roland, sul come evitarla. Lilia sembra l’unica a sapere con certezza che la morte non si può evitare, come in generale non si possono evitare le fatalità della vita – ma Lilia non utilizzerebbe la parola fatalità, preferirebbe una parola neutra, senza connotati negativi.
Per tirare le somme, quindi, Lilia sente di dovere qualcosa alla nipote: vuole che Katherine, la figlia di sua figlia Lucy, sappia chi era suo nonno, il padre che Lucy non ha mai conosciuto. Ma è per debito emotivo che Lilia racconta tutta la verità a Katherine, o per desiderio che Roland non venga dimenticato? Se l’ossessione di Lilia è Roland, l’ossessione di Roland è la paura di essere dimenticato. Lilia non lo ha mai dimenticato e forse la sua eredità alla nipote è proprio questa: ricordare un pezzo di famiglia mai avuto, la cui esistenza è stata fondamentale per Lilia e, come ci si chiede costantemente nel romanzo, forse anche per Lucy.
Ma cosa c’era prima delle memorie per Lilia? Come era riuscita convivere con quel dolore? Sono stati i giardini e i fiori a segnare i cambiamenti della sua vita, un po’ come è successo all’autrice Yiyun Li, in fondo. Lo dice lei stessa, quando pensa alla morte di sua figlia:
«Lucy morì in maggio, alla fine della stagione piovosa. Per noi, quell’anno, la pioggia e la nebbia sarebbero state più adatte. In maggio però splendeva di nuovo il sole, e i fiori dorati dell’escolzia sbocciavano dappertutto. Da allora, quando vedo i fiori dell’escolzia penso sempre a Lucy».
Un amore, quello per i giardini, condiviso con l’autrice Yiyun Li, che si autodefinisce dopo cinque anni di intenso giardinaggio una “giardiniera principiante”. Nei giardini, come nella vita, tutto è imprevedibile, come dice Yiyun Li in un articolo del New Yorker: «un giardino è affidabile solo in questo momento, in questo adesso: il passato è irrevocabile, il futuro imprevedibile».
In questo amore per i giardini, e nel loro essere belli ma imprevedibili, ritroviamo l’essenza del carattere di Lilia: abbastanza sensibile per legare per sempre l’escolzia alla figlia Lucy, ma abbastanza dura per non piangerne il suicidio. Lilia è una donna che non vive e non ha mai vissuto dilemmi: la certezza della morte, di cui non ha paura (a differenza di Roland) le permette di vivere nella certezza. Nella certezza della morte, ma pur sempre nella certezza. Le uniche persone che ci danno una versione diversa dei fatti rispetto alla voce narrante di Lilia sono la figlia Molly e il primo marito Gilbert. Di entrambi, però, sappiamo solo ciò che Lilia ha deciso di riportare: la verità su Lilia, insomma, non è possibile saperla. Il lettore però, dopo le prime poche pagine, ha già l’impressione di conoscerla benissimo. Imprevedibile e coerente, dura e sensibile, avventurosa e abitudinaria al tempo stesso: quello che più manca di Lilia, una volta terminato il romanzo, sono le sue metafore improbabili per le piccole cose. Eccone un piccolo esempio, di nuovo su un giardino:
«Si era inselvatichito, da quando lei era morta. E assistere a quel deterioramento irreversibile, procurava a Lilia un piacere simile a quello che si prova vedendo qualcuno corto di vista, duro d’orecchio e lento a muoversi che viene derubato da un borseggiatore. Lilia avrebbe potuto gridare per difendere la vittima, certo, ma perché avrebbe dovuto farlo? Quando una cosa del genere capita in un film di Charlie Chaplin si ride a crepapelle.»
Nell’amore di Lilia per i fiori c’è certamente un po’ di Li, a partire dallo stesso nome che ricorda l’inglese lilies, i gigli. Questo pensiero sarebbe potuto uscire dalla bocca di Lilia, mentre parlava con il marito Gilbert, nel suo giardino amato: «Nella tradizione buddista si trovano detti come “Un fiore è un mondo, una foglia d’erba è un paradiso”. Ma io, che non credo in nessun tipo di religione o metafora, preferisco pensare che ogni fiore del mio giardino abbia uno spazio concreto, fisico e temporale. Un fiore, come un pensiero, una frase, un libro, non è che un segnaposto».
Per concludere, la vita è uno spettacolo poco prevedibile: molto meno prevedibile dei romanzi, per lo meno, come dichiara Li stessa sul New Yorker. E proprio questa imprevedibilità della vita, e la sua durezza, sono le caratteristiche che Li ha impersonificato in Lilia Imbody, trasformando questa singolare vecchietta in una sorta di baluardo dell’esistenza.
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