È andato in scena al Piccolo Strehler di Milano la produzione della Compagnia della Fortezza Naturae – la valle della permanenza, con la regia (e la partecipazione come “protagonista”) di Armando Punzo. Scenografia elaborata, Punzo in scena non appena si entra, vestito di nero, una palla rossa al centro del palco ricoperto di sabbia bianca; bianche strutture geometriche e scheletriche. Luce bianca, un piazzato che non lascia nulla al buio. Sul fondo, quadrati, ancora bianchi. Tricromia esasperata.
A prima vista, nella visione dello spettacolo, l’impressione può essere quella di un’esperienza estetica sterile, o di un viaggio che il solo regista può comprendere e quindi intraprendere. La certezza è che Punzo non opera a favore di pubblico: esige una fatica da chi guarda, un passo in più per entrare nel suo mondo di segni e simboli e contemporaneamente rimodellarli traducendoli. In questo il regista soffre da una parte di una certa “battiatite”, quel velato snobismo che non scende a compromessi comunicativi e concettuali per facilitare la comprensione, rischiando di cadere in distaccata freddezza. Dall’altra, il suo intervento continuo nella scena, il suo essere regista di un mondo creato da sé medesimo, dà a tutto un gusto ermetico e quantomeno ombelicale. Si ha dapprincipio l’impressione di guardare uno spettacolo il cui titolo potrebbe benissimo essere Io, Armando e il signor Punzo.
A ben vedere però – ed è coscienza che si fa strada piano piano nell’ora e un quarto di messinscena – non è possibile leggere Naturae senza tenere conto dell’esperienza della Compagnia della Fortezza.
«Qualche giorno fa uno degli attori più giovani […] mi ha detto che in fondo non posso sapere cosa significhi realmente essere detenuto. […] Chi mi dice che non posso capire vorrebbe portarmi su un piano della realtà che non serve a lui e non serve a me. Sottolineando che lui è prigioniero e io no riafferma la sua condizione e le dà ancora più forza. Cercando soluzioni all’interno del limite in cui si trova costretto […] s’illude che il trasferimento in un altro carcere possa migliorare la sua situazione, […] e lentamente si adatta a essere veramente solo un detenuto che si dibatte per far passare meno peggio gli anni.
[…]Stare dentro, ma viversi in un altro modo. Il teatro insegna proprio questo, che a dare senso, valore e piacere alla tua condizione è quello che stai cercando. Certo che vivere in un attico ai Parioli è meglio che stare in uno scantinato umido in provincia, no? Ma questo è tutto? Basta a tenerci buoni? La nostra felicità dipende solo dalle condizioni in cui viviamo. Credo che siano due illusioni pari, dentro e fuori.»
(da A. Punzo, Un’idea più grande di me, 2019, Luca Sossella editore, pgg. 27, 31)
All’interno di Naturae Punzo è quindi una figura doppia: da una parte, come personaggio, è il bambino che ricostruisce e ripopola un mondo a partire dalla propria immaginazione (figura del mago-regista-attore che può facilmente richiamare Prospero). Dall’altra è sé stesso, il fautore di un progetto di ricerca artistico e politico.
Leggendo il suo libro-intervista autobiografica Un’idea più grande di me, viene alla luce però quanto lo stesso Punzo rifiuti categoricamente il legame tra il suo lavoro e il carcere, rivendicando un’indipendenza artistica che prescinda da questo aspetto (e, anzi, su questa ambiguità negli occhi del pubblico ha lavorato per lungo tempo). Il punto è che questa prospettiva, per quanto affascinante, se portata all’estremo rischia di diventare un inganno: è illusorio pensare di poter negare i luoghi e il vissuto degli attori, come è illusorio pretendere che il pubblico non debba avere rimandi alla realtà da cui il lavoro è cominciato e che, in fondo, è presente nello stesso nome della compagnia. Certo, l’occhio del pubblico deve liberarsi dell’idea che quelli che ha davanti sono carcerati perché, di fatto, non lo sono: sono uomini e sono attori. Ma del resto non bisogna cadere in una scena che diventa spazio mistificatore, dimenticando i legami coatti che esistono tra attori e realtà; la sola relazione che, in fondo, permette all’attore di essere tale. Rimane quindi una domanda aperta: il teatro di Punzo ha dunque valore politico?
Durante una recente conferenza incentrata sulle ricerche teatrali nel XXI secolo, a cui erano presenti tra gli altri Thomas Richards e Raul Iaiza, alla domanda di un’ascoltatrice sul perché il teatro di oggi non riesca ad avere la stessa valenza politica incarnata nelle lotte studentesche e operaie, il professor Marco de Marinis ha risposto:
«Non sono affatto d’accordo. La valenza politica del teatro è persino aumentata, secondo me, purché chiaramente s’intenda il teatro politico nell’azione politica del teatro, e non teatro di contenuti politici come quello che si faceva quando eravamo giovani – il teatro di messaggio, il teatro ideologico – […] tutto quello che è venuto di seguito e anche un po’ “per colpa” di Brecht. In realtà io penso che sia il contrario: negli ultimi decenni il teatro si è dimostrato uno strumento capace di incidere, agire nella società come poche altre cose. Pensiamo adesso al risveglio che sta avendo il teatro dopo la pandemia, cioè questo bisogno dell’incontro fisico, diretto, ravvicinato, non mediato […]. Se pensiamo a quanto il teatro negli ultimi decenni ha cercato di fare nei settori fragili della società, ai margini, lavorando con quelli che sono fuori, i diversi, i disabili, i carcerati (pensate al lavoro straordinario di Armando Punzo) […] – quello che viene chiamato teatro sociale e spesso viene chiamato così un po’ per screditarlo – chiaro, […] non è un teatro tutto straordinario, ma è importante il fatto che lì si metta alla prova la capacità del teatro di agire positivamente nella società, di andare in controtendenza rispetto alle tendenze dominanti, che sono la contrapposizione, lo scontro l’isolamento. […]»
Lo spettacolo di Punzo non è una scrittura collettiva, non è racconto ideologico né atto di denuncia. Eppure ha un immenso valore politico. Perché quello che il progetto punziano ha portato avanti è un rituale collettivo teso alla liberazione dall’idea di carcere (non dal carcere stesso, ma dal suo significato intrinseco e simbolico). Il suo lavoro – estremamente grotowskiano in questo – non è fatto per noi che guardiamo, ma per gli attori che ci passano davanti agli occhi come circensi d’un sogno. Di questo rituale, lui, Punzo, è sacerdote e guardiano. E in scena il bambino-creatore/regista-sacerdote entra in questa doppia veste, andando a intessere con gli attori una rete di relazioni che diventano via via più profonde, tracimano il palco e investono lo spettatore: qui esondano la fiducia e l’affetto che legano ogni componente della compagnia al suo regista; ed è in questa relazione – non in quella più lineare tra chi recita e chi guarda, quasi assente in Naturae – che il pubblico è chiamato a inserirsi silenziosamente, discretamente. La consapevolezza di questa relazione, in un pubblico pur conscio che il rituale non è per lui, può diventare potentissima: in scena vediamo l’ultimo atto, magnifico, lucente, di un percorso verso la libertà.
Ecco che allora in questo senso gli elementi prima puramente estetici prendono vita e senso: la tricromia esasperata – nero, bianco e rosso – è l’unione dei tre processi alchemici verso l’essenza, nigredo, albedo e rubedo. Da un mondo in necessario disfacimento viene la pura potenza di una sabbia bianca, nuovo stadio di sola forma (il telo nero su cui lo stesso Punzo si stende e viene ricoperto di sabbia bianca, lasciando sul tessuto l’impronta vuota del proprio corpo è appunto questo: la costruzione della vuota forma dal nulla); al centro, su una sedia, spalle al pubblico, il bambino/sacerdote vestito di nero gioca con un pallone rosso – il sole di un tramonto e di un’alba insieme –, almeno fino a che non comincia a immaginare e popolare questo mondo di pura forma con uomini e donne che hanno in sé, su di sé, in diverse modalità e campiture, i tre colori. Le persone interagiscono, con lui, con gli oggetti, con le strutture scheletriche a cubi e sbarre bianche (prigioni?) che ora improvvisamente acquistano significato e nuova vita, ruotano, danzano; il bambino/sacerdote guida, gioca, lancia la sabbia, salta da un lato all’altro, si lascia incantare da oggetti e persone che entrano, uno dopo l’altro, l’elmo di Achille, una mano statuaria che indica la via, il teschio di un minotauro; due scale rosse – come doppio sogno di Giacobbe – con un uomo giallo, sole e oro, a cui il bambino indica il cielo; poi il rito collettivo raggiunge il suo apice: un altro telo – bianco, questa volta – un catino in cui un uomo viene battezzato di rosso, il colore della rubedo, del contenuto e del senso che finalmente vanno a riempire la forma ancora vuota: ed è una danza che l’uomo attua sul telo bianco, prima da solo, poi con il bambino/sacerdote, un ballo a due che disegna un cerchio rosso, grondante, bandiera nipponica che sancisce la definitiva vittoria del senso. Una porta passa dietro a questa danza, unico elemento estraneo: forse è il Divino, la cui risposta non si ode – e forse non c’è – al bussare ripetuto; ma non è importante: il divino non può essere una porta chiusa. E infatti entra di nuovo il sole/oro insieme a un uomo/cielo e lanciano sabbia dei loro colori contro il fondo di quadri bianchi. Il mondo è completo: la liberazione definitiva.
C’è ancora tempo per due quadri; prima, una processione che sembra riprendere l’infanzia della provincia napoletana del regista-bambino:
«In verità penso che la teatralità che mi ha segnato più profondamente da bambino sia stata quella delle processioni della Madonna dell’Arco che attraversavano Cercola il lunedì in Albis. Vedevo masse di uomini e donne trascinarsi in ginocchio, sanguinanti, sfiniti. […] Con il carro sulle spalle, ondeggiavano, avanzavano e indietreggiavano, ora velocemente e ora lentamente, a ritmo di musica, davanti a quell’immaginetta.» (ibidem pg.35)
Ma, in questa, nessuna Madonna: un cammino circolare di estetica orientale, lunghe aste di bambù, verdi (si aggiunge al mondo un altro colore) che recano in cima vestiti appesi, come fantasmi di dèi rosseggianti. È tutto nell’oltre, nel trascendente, nel percorso liturgico verso un divino che non sfugge perché è onnipresente. Infine, una danza: ai lati della scena, due uomini dalle lunghe gonne roteano su se stessi seguendo la forza centrifuga di due ombrelli, mentre un altro al centro danza seguendo i movimenti del bambino/sacerdote e portando sulle spalle una di quelle strutture bianche di cubi e sbarre; ma come se quel peso fosse in realtà qualcosa di ridicolmente leggero, assolutamente non importante, ride.
Su tutto la musica di una chitarra, di un piano, una voce che è guida verso il trascendente (forse, l’elemento di troppo: per chi è entrato già nella prospettiva del regista risulta didascalica, per chi non vi è entrato, retorica e fastidiosamente oscura… forse l’unico modo per farla funzionare è lasciarla scorrere senza cercarne il senso).
Si nota però un altro vuoto nello spettacolo: quello che sembra mancare completamente è il conflitto, la base di ogni necessità teatrale. Eccettuata la breve apparizione della porta muta, nell’intera scena non vi è ombra, non vi sono discese e risalite: Naturae si presenta come anabasi permanente, vetta ultima di un’ascensione assente dalla scena.
Ma anche qui, a ben vedere, seppur nascosto, un conflitto c’è e si snoda su due strade diverse.
Leggendo il foglio di sala, capiamo che la catabasi di questo spettacolo è semplicemente spostata nel tempo:
Un lungo lavoro di ricerca artistica durato otto anni, iniziato nel 2015 con il primo spettacolo Shakespeare Know Well e poi continuato con Dopo la Tempesta (2016), Le parole lievi (2017), Beatitudo e Le rovine circolari (2018), Naturae Ouverture (2019), Naturae la vita mancata e Naturae la valle dell’innocenza (2020), Naturae la valle dell’annientamento (2021), arrivata nel 2022 finalmente al suo ultimo atto con Naturae la valle della permanenza, raggiungendo la più difficile delle valli, quella della permanenza.
«Naturae è l’ultimo capitolo – spiega Armando Punzo, Leone d’oro alla carriera alla Biennale 2023 – è la rivelazione, la riscoperta in noi di qualità dimenticate, negate, soppresse. È frutto della contro-scrittura che si è generata in questi otto anni, come un filtrato luminoso che si opponeva alla mancanza di luce e speranza che avevamo riscontrato in noi e negli altri. Quelle qualità hanno preso forma di entità simboliche concrete, stilizzazioni, che permettono al nostro protagonista, una volta ritrovato lo sguardo puro dell’innocenza rappresentato dal bambino, di stabilire una diversa relazione col mondo. Ci siamo resi conto che l’evoluzione umana è in essere, sempre, ed è questa che bisogna alimentare. Non possiamo credere di essere arrivati alla fine della storia, è innaturale e non serve a migliorare la nostra esistenza, le relazioni tra gli uomini, una diversa idea di comunità fatta di persone sensibili e il futuro della nostra terra. L’homo sapiens è solo una fase, dobbiamo lavorare per guadagnarci l’homo felix, dobbiamo far crescere in noi la ricerca della libertà, dell’amore, della felicità. Dobbiamo ricominciare a sognare un nuovo uomo e imporlo alla realtà.»
Le ombre di Naturae sono da ricercarsi quindi nel percorso artistico, non nella messinscena in sé – fatto, questo, che iscrive totalmente questo lavoro alla ricerca, a un work in progress quasi permanente. L’oscurità è già passata, la nigredo alle spalle: qui, in Naturae, trova finalmente corpo l’equilibrio tra tutti gli stati del mondo e dell’interiorità; l’ultimo, unico passo per essere finalmente liberi.
La seconda strada in cui ricercare il conflitto – per quanto come detto avversata dallo stesso Punzo – è di nuovo in una prospettiva non artistica: come detto, il teatro di Punzo è prepotentemente politico. L’ombra è in questo aspetto, nell’esperienza stessa della Compagnia della Fortezza: la catabasi è nel vissuto dei carcerati, nell’inferno della prigione e in quello che li ha condotti a Volterra, nel loro riscatto come attori, nella capacità di cambiare se stessi cambiando il punto di vista da cui osservare il mondo; è in quel sorriso finale, luminoso, di un uomo che danza portando in spalla una gabbia come fosse fatta soltanto di pura forma: una cosa da niente.