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Le parole che avrebbe voluto dire e che invece si sono infrante nel silenzio, ora giacciono nel tempo, o forse sono morte insieme alla protagonista del romanzo. Tua Figlia Anita di Paolo Massari è il racconto di ciò che poteva essere e non è stato, un dialogo sospeso tra presente e passato. Ora leggendo e immedesimandoci nel romanzo resta un senso di solitudine, qualcosa che sembrava afferrabile e che invece per un solo istante ci è sfuggito per sempre. Rimane impresso come una fotografia catturata dalla mente, ancorata all’eternità. Ciò che c’è e quello che manca si rincorrono continuamente in Tua Figlia Anita, resta concreto e quindi visibile ai nostri occhi solo il ricordo imprigionato in una bara di legno e lamiera, che sta per essere chiusa.

Il romanzo di Paolo Massari descrive un dialogo consumato nell’arco di una giornata, quella del funerale di Anita Bellucci, morta a causa di un tumore, moglie di Giacomo che è l’altro protagonista e narratore principale della vicenda. Ad affiancare i due personaggi principali in questo dialogo immaginario compare il padre di Anita, anch’egli morto, a cui Giacomo racconta alcune verità inconfessabili. Sullo sfondo appare la celebrazione del funerale, l’incontro con amici e parenti e il viaggio verso casa.

Sin dall’inizio il romanzo non ci dà tregua e si ha la sensazione di tuffarsi nel dolore, parteciparlo e viverlo un po’. In altre situazioni riusciamo solo a immaginare, qui siamo dentro le pagine e riusciamo a sentirci spaesati:

«È morta la tua ultima figlia, l’unica che meritava di vivere. Ti ha cercato tanto. Ha passato pomeriggi interi a sgolarsi. Dalle case vicino qualcuno ha gridato: E basta!».

Sembra di trovarci davanti a una sorta di monito da parte di Giacomo a Luigi, il padre di Anita, ma forse è solo rabbia, incredulità per tutto ciò che si è consumato in così poco tempo. Il dolore è così forte che sconfina nel ridicolo, nel comico, probabilmente è solo un piccolo stratagemma per anestetizzarlo. A questa mancanza si aggiunge quella per il padre, che la defunta poco prima di morire invocava insistentemente, per dirgli qualcosa che non si erano mai detti, oppure per chiedergli <scusa> come accade molte volte, quando si termina un dialogo o una discussione in maniera accesa. A pensare che poi sempre si possa chiedere il perdono al genitore, credendo che ci sia ancora un po’ di tempo e invece quello finisce. Rimane un gran vuoto e un senso di colpa infinito, come se la morte fosse per causa di quell’ultima discussione. Oppure è solo il forte dolore, la paura di morire che ci fa invocare chi ci ha sempre aiutato a risolvere i nostri piccoli o grandi problemi, ma da quando è andato via sembra che vada tutto storto. Eppure non abbiamo il potere di controllare ogni cosa e spesso il corso degli eventi non va come vorremmo. Proviamo a trovare risposte ai nostri interrogativi, ma invano.

La concezione straniante, vissuta però con indifferenza ci fa tornare alla mente un altro romanzo che è Lo Straniero di Albert Camus, almeno per quanto riguarda l’incipit:

«Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti. Questo non dice nulla: è stato forse ieri.»

Anche se gli intenti non sono simili c’è una vaga somiglianza tra le due opere, in entrambe si parla di un vuoto incolmabile, come può essere la morte della moglie nel caso di Massari e quella della madre in Camus. Dolori diversi, ma accomunati da una mancanza che finisce per rendere i protagonisti inconsapevoli di ciò che stanno affrontando.

Giacomo parla della moglie con il suocero per tutto il tempo del romanzo e lo fa senza ipocrisie, non si nasconde e lascia andare senza paura i suoi pensieri, i desideri e le paure più recondite. Tanto ormai che cos’altro di spiacevole potrebbe accadere?

In fondo sta dialogando con qualcuno che non c’è più e lo sta facendo per riequilibrare forse il passato, per rendere partecipe del suo sgomento qualcun altro. Così si avrà quell’illusione, almeno per un po’, di dividere quel peso. Magari ci si sentirà meno soli, ma in realtà appena si stacca la testa e si guarda al presente la solitudine ritorna più prepotente. Si cerca persino di razionalizzare qualcosa che va al di là di ogni possibile fantasia, sperando di riunirsi nella morte, l’unica magra e più plausibile consolazione per andare avanti:

«Se staremo divisi per troppo tempo Anita potrebbe dimenticarsi di me, o non sapere più chi sono. Sai che tristezza? Finalmente è arrivato il giorno in cui ci ritroviamo, e lei non mi riconosce. Pensa se rivedendomi vecchio dicesse: Deve esserci uno sbaglio, lei chi è?  Non posso certo arrivare a novant’anni, Anita sarà giovane come quando è morta. Cosa se ne fa, poi, di un vecchio che neanche ci sente più?».

I ricordi si mettono in fila e scendono giù come torrenti, a volte si confondono tra loro. Alcuni sono impetuosi come il fiume carsico che trascina un sasso, altri sono più dolci e delicati come un ruscello. Paolo Massari mescola sapientemente i giorni spiacevoli e quelli piacevoli, alternandoli, creando una narrazione che a tratti ci cattura, in altri ci opprime e in altri ancora riesce persino a darci serenità, soprattutto se si tratta di un amore sbocciato negli anni universitari:

«Tua figlia è lì ad aspettarmi. Posso dirti anche come sono vestito: ho la camicia a quadri blu e verde, i soliti jeans e le polacchine scure. Ricordo persino le mutande, a strisce celesti e blu. Anita porta la gonna lunga a pois che mi piace tanto e una camicia bianca, sotto non ha niente, non porta il reggiseno. E se i tuoi tornano prima? Anita mi rassicura: le prove del coro semmai durano di più, non di meno. Restiamo tutti e due con i vestiti addosso, Anita si solleva gonna e io mi abbasso i pantaloni quanto basta».

La mente quando ripensa a quegli attimi si sente ancora fresca, giovane e piena di adrenalina. Giacomo finisce per mandare un sorriso a quel tempo che non rivedrà più e non per una profonda nostalgia, semplicemente per non pensare all’attualità più desolante. La giovinezza è stata una parentesi leggera svanita troppo presto, dopo sono cominciati i primi problemi, le prime noie, angosce e delusioni. In quel giorno il protagonista rivede quasi tutta la sua vita, ne coglie le sfumature e i significati più profondi. Eventi che aveva rimosso e che ora mentre è nel momento più buio affiorano lentamente. Non può condividerli con nessuno, alcuni creerebbero scandalo e allora si rivolge a Luigi, il padre di Anita. L’interlocutore immaginario a cui adesso può raccontare tutto senza che il pudore gli impedisca di parlare. Giacomo ora può dire davvero ciò che pensa del suocero, senza scandalizzare qualcuno. D’altronde non può nemmeno ignorare il comportamento avuto nei suoi riguardi nel corso del tempo.

La morte in un certo senso riappacifica Giacomo con il mondo, in particolare con la famiglia di Anita. Nel dialogo con il passato non si può dimenticare il presente con tutti i convenevoli dovuti alla circostanza: i cognati e le sorelle che cercano di tirar su di morale un marito che ormai è diventato vedovo. Ma certi atteggiamenti già non si sopportano normalmente, figurarsi poi in un giorno come quello. Di fianco alla riappacificazione scorgiamo la voglia di lasciarsi andare, pensare a qualcosa che mai avremmo fatto e soprattutto a cui non eravamo abituati.

Con ogni probabilità la morte non è la cosa più grave, ma ciò che ci spaventa davvero è il come moriamo, se agonizzanti o in un colpo solo. La brutta notizia è quando arriva un verdetto, che non avresti mai voluto sentire, è in quell’istante che si comincia a svanire un po’ alla volta. La dipartita è solo un’ulteriore constatazione di quello stato, in fin dei conti sei cambiato e non te ne sei accorto. Qualche parte del vecchio te c’è ancora, ma viene sovrastata dal nuovo, e non è detto che per forza sia un male. In alcuni casi si può migliorare, cambiare la prospettiva delle cose, non perdersi nell’inutilità e concentrarsi soltanto su ciò che è veramente importante. Ed è allora che la morte di un proprio caro può diventare una rinascita, anche con un solo pezzo di anima restante.

Accade tutto in un giorno freddo di gennaio, in cui dopo una visita, il medico le dice di recarsi in ospedale per il giorno successivo. Anita però non è così triste, anche quando ha sentito il verdetto dello specialista e Giacomo non riesce a darsene pace. Lui ha un’espressione cupa, preoccupata, lei al contrario risponde con vitalità e ironia:

«Intanto mangia, altrimenti si fredda. Anita mi ha preso il polso, lasciando la forchetta sospesa in aria. Perché quel muso? C’è già un’altra a casa mia? Aspetta almeno che diventi fredda! La imboccavo e intanto immaginavo la sua agonia. Ero preoccupato più per me che per lei, capisci?».

Sensazioni e momenti difficilmente comprensibili all’esterno, che trasudano imbarazzo già al solo pensiero. Figurarsi poi se dovessimo raccontarli al suocero, al padre che ha appena perso sua figlia. Per fortuna lui non può risponderci, è il silenzio forse l’unica risposta. Paolo Massari esplora nel profondo questa sensazione, calandosi perfettamente nella mente di un uomo che ha perso la propria moglie e che si estrania nelle immaginazioni più remote. Giacomo sembra quasi chiedere scusa per quel suo atteggiamento egoista, ma al lettore più attento non può sfuggire che anche quando si è concentrati a salvare i propri cari, sopraggiunge un certo istinto di sopravvivenza. Soprattutto quando si tratta di una perdita prematura come nel caso di Anita.

Un padre e un marito sono a confronto, in comune hanno una figlia e una moglie, due prospettive diverse, ma allo stesso tempo indagate e esplorate dall’unico rimasto in vita. Giacomo e Luigi che mal si sopportavano in vita, adesso sembrano uniti da un unico scopo, quello di raccontare una verità e far emergere una donna per ciò che era. Ma è sempre solo Giacomo a parlare e non intende soffermarsi solamente sui ricordi più belli, ma desidera mettere in luce anche le storture del loro rapporto. Sarebbe troppo facile rilevare solo i momenti più significativi, la difficoltà sta nel ricercare in quel momento le cose che non hanno funzionato. Così quel giorno di dolore diventa l’occasione per un bilancio della propria vita fino a quel punto, ciò che è stato realizzato, ciò che si poteva far meglio ma soprattutto l’incompiuto. Nel mezzo c’è un’esistenza semplice, ordinaria di una coppia di cinquantenni, Giacomo e Anita, che sono alle prese con la loro routine. Quando tutto è stravolto, il protagonista resta spiazzato, dovrà fare i conti con i resti della sua vita. In un attimo è passato da marito a vedovo, ma questo forse già era ancor prima di esserlo, nelle settimane e nei mesi precedenti.

Paolo Massari riesce a ricostruire un’esistenza attraverso un flusso di pensieri che viaggiano nella mente di un solo uomo, catapultato nel giorno più buio. Tenta di ricostruire il presente e il futuro, mentre Giacomo si rifugia nel passato alla ricerca di un segno che gli dia una chiara motivazione per proseguire. La sua giornata è talmente complicata e confusa che finisce per perdersi, a stordirlo sono i parenti, le infinite condoglianze che riceve persino da sconosciuti, il suo sforzo per apparire non troppo travolto dal dolore:

«Mi sembra di non capirci più niente, come se non sapessi più mettere in fila gli eventi. A volta mi pare tutto già lontanissimo e invece fino a poche ore fa Anita era qui. Il suo corpo in parte funzionava ancora. Perciò ci ha messo tanto a morire, la settimana scorsa aveva ancora diversi valori nella norma». 

Nel romanzo vita e morte si muovono di pari passo, si assomigliano, camminano insieme nell’arco di un’intera giornata. Non compare affatto una descrizione salvifica della protagonista ma soltanto il punto di vista di un uomo che smette di parlare e inizia a pensare. Nonostante si parli di morte, ciò che viene messo in evidenza è la vita, la stessa che ci permette di raccontare il passato e il presente attraverso un equilibrio sottilissimo. Non vi è traccia dell’esaltazione di una componente o un’altra, vita-morte, oppure presente e passato, tutto risponde a una precisa organicità fatta di momenti belli, brutti, devastanti, simpatici. Rimpiangerli o maledirli non serve a molto, possiamo solo evocarli.

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