Si potrebbe pensare a Mangime in compresse per pesci tropicali (Racconti, 2023) come a un libro in piano sequenza, in cui un regista-narratore fuori campo scivola nelle interiorità di venti e più personaggi, tessendo una fitta rete di racconti concatenati.
Sono per lo più confidenze in prima persona, raccolte in componimenti brevi e di lettura agevole, quelle che ciascun personaggio consegna ad Alice Sivo, qui alla sua prova d’esordio. Lo scenario è la Roma del Pigneto, una “città nella città” dall’identità culturale vivace ma che sotto la superficie si presenta affetta dalle patologie collettive del XXI secolo: narcisismo, solitudine, depressione, indifferenza, aspettative mancate, che Sivo registra come una documentarista in incognito delle inquietudini urbane.
C’è Bruno, un giovane in crisi, che si è appena separato da Cecilia, e che vive temporaneamente a casa dei suoi amici Lorenzo e Sara. Ci sono Gloria, eccentrica cesellatrice di gioielli, e La ******, una celebrità che bacia in segreto, ricambiata, la commessa del suo negozio di abbigliamento di fiducia. C’è Veronica, che in realtà si chiama Filomena e che nasconde un aborto alla sua famiglia e ci sono, infine, alcuni testimoni inanimati delle vite di tutti i personaggi: una lampadina che sta per fulminarsi, un buco nel cartongesso, una casa, un acquario e i suoi pesci.
Proprio l’acquario è il destinatario delle proiezioni di Bruno, personaggio-perno di tutta la raccolta. È su di lui (non solo su di lui, ma decisamente più che sugli altri) che si abbattono le conseguenze del vuoto dovuto alle assenze e all’abbandono. E i pesci sembrano gli unici con cui può condividere questo destino.
«Stanotte ho cambiato posto, boccia e fondale ai pesci mentre dormivano […] volevo che provassero la sensazione di non essere più a casa loro. All’improvviso, senza possibilità di scelta, messi solamente di fronte al fatto compiuto.»
Ciò che colpisce della raccolta di Sivo non è solo la capacità di entrare in sintonia con il nostro tempo, ma di farlo rispettando una grammatica del racconto universale e riconoscibile, che ci accoglie nella lettura, talvolta sorprendendoci.
I personaggi ricorrono e si inseguono nel testo, lasciando al lettore il piacere di ricostruire le loro vicende, mentre le diverse voci narranti lo guidano con gentilezza (e a volte lo depistano) verso la verità. Come nella migliore tradizione dei racconti in prima persona, infatti, la prospettiva dei singoli personaggi si mostra inaffidabile, al punto che si potrà ricostruire la realtà di ciascuno solo alla fine, dopo aver raccolto tutti gli indizi disseminati progressivamente nelle singole storie. È in questo gioco di scomposizioni e ricomposizioni che si trova lo spirito del libro, nella consapevolezza che le cose non sono mai come sembrano, e solo un attento lavoro di scandaglio può portare alla luce il turbamento che ciascuno conserva nel segreto della sua coscienza.
La documentazione di pezzi di esistenza passa, in più di un caso, attraverso l’introspezione: l’autrice strappa il non-detto ai suoi personaggi, interagendo con loro secondo un approccio maieutico. Sivo lavora come consulente per il cinema, e si vede; mostra, ad esempio, una certa familiarità con il concetto di caméra-stylo, che però sembra impiegato a rovescio: nei suoi racconti è la scrittura che si fa occhio, restituendo degli spaccati di vita che assomigliano a inquadrature mosse, e che, come tali, amplificano l’effetto realistico.
«Sono di nuovo davanti alla mia porta, che continua a non volersi aprire. Rimetto a terra la gamba, perché ci sono cose più importanti a cui pensare che il liquore di nonna Anna, e supero il ballatoio per entrare dalla portafinestra […]. Il pianerottolo affaccia sul cortile interno e alla destra della mia porta solo un parapetto li separa. La ringhiera del parapetto confina con quella del mio balcone formando un angolo retto. […] Il confine è ribadito da una barriera di ferro dalla quale partono dei sinuosi raggi metallici che tagliano a metà l’angolo retto. Scavalco la ringhiera e aggrappandomi a uno dei raggi riesco ad arrivare al mio balcone. Rompo silenziosamente il vetro della portafinestra all’altezza della maniglia, apro ed eccomi a casa.
Non è la mia.»
Forse, a muovere l’urgenza narrativa è la necessità di indagare l’umano senza invaderlo, osservare le situazioni dall’esterno, raccontare senza intervenire, alla maniera di un’osservatrice fuori campo.
«Magari questa cosa che ho notato di Gloria non è nemmeno legata al suo lavoro, forse le piace mettere le mani nella terra, forse è solo casuale sporcizia e non il deposito scuro della sua fatica […]. È disperata come me, forse ci siamo riconosciute per questo e così mi ha spiattellato sotto forma di lamentela autoironica i suoi problemi, anche se dice che di solito parla poco.»
E potrebbe intendersi in questa chiave anche l’intenzione metanarrativa che si ritrova in diversi racconti. La “rottura della quarta parete” esprime tutta la necessità autoriale di mostrarsi onesti di fronte a una realtà che non si vuole romanticizzare. La scrittura diventa, allora, un modo per esorcizzare le inevitabili insicurezze esistenziali assumendone il controllo e, al contempo, per soffermarsi su dimensioni interiori che appaiono spesso soffocate dal rumore delle nevrosi urbane.
«Pensare anche al perché mi intestardisco con questi racconti in prima persona dal punto di vista del protagonista. […] La voglio raccontare io Gloria? O la potrebbe raccontare un personaggio che non sono io ma che guarda caso si chiama come me, che sembra che stia parlando di lei ma in realtà sta parlando di sé?»
Il punto di osservazione ruota vorticosamente di racconto in racconto, creando un movimento che incuriosisce: spesso anche gli oggetti prendono la parola. Nel loro status di esseri senzienti ma inanimati si appropriano di una surrealtà che a tratti è malinconica (è il caso di quel buco nel cartongesso, che riflette sul tempo che passa guardando i cambiamenti della camera e dei suoi abitanti). Altre volte si tinge invece di toni ironici, come quando una casa parla di sé:
«Le mie giornate sono molto introspettive, infatti consistono principalmente nell’indagare ciò che mi accade dentro.»
In sottofondo, c’è una tracklist bibliografica che da Cheever a Salinger rende espliciti i riferimenti di un’autrice che parte con il piede giusto, arricchendo di sperimentazione un personale patrimonio narrativo, che ne esce, così, vivificato.
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