Altrove, collana di Chiarelettere diretta dal romanziere e editor Michele Vaccari, è ahinoi già un passato prossimo. Esperienza esauritasi purtroppo nel 2019, partiva dall’esigenza di narrazioni su un futuro prossimo che si annuncia distopico, un benvenuto scarto nel tran tran della placida narrativa italiana, un rimbalzo di voci e tempi che accoglie perfettamente il romanzo di Paolo Pecere uscito a ottobre e intitolato Risorgere. La Cina, essa stessa già futuro possibile e «altrove» rispetto all’Occidente, è prima attrice del romanzo, i cui figli sono costantemente mossi dalle azioni passate dei padri. È in questa fotografia verosimile dell’anno 2026 che vediamo muoversi i personaggi: Chen è stato uno degli studenti che in piazza Tienanmen, nel 1989, manifestava per una Cina più democratica, finché il movimento non ha incontrato i carri armati di Deng Xiaoping a sbarrare loro il passo.Fuggito dalla repressione, lo ritroviamo in Germania, dove incontra Raffaella, una cantante italiana, con la quale metterà al mondo Gloria. Ma l’antica irrequietezza non gli consentirà di metter radici, e lo spingerà a cercare alterne fortune in ogni dove: prima come ricco imprenditore in Africa, poi giocatore d’azzardo nei casinò di Macao, infine pellegrino nei monasteri buddhisti tibetani.
Millennial musicista, sino-italiana cresciuta tra Berlino e Roma, Gloria condivide con i coetanei la precarietà dei sentimenti e una il job hopping disperante di questi primi anni Venti del duemila, un domani così vicino da sembrare indistinguibile dall’oggi.
«Se hai invidia del futuro sei già morto»: la spinta vitale di Gloria la porta non a cercare fortuna verso un avvenire forse meno prospero di quanto sia il presente, ma a viaggiare per trovare le risposte alle domande che risiedono nel passato, e fra tutte: dov’è suo padre Chen, e qual è la sua storia? Gloria infatti conosce il genitore cinese solo attraverso i racconti di Raffaella, e per interrogare l’assenza del padre decide di partire per la Cina assieme a Marco, amante, amico e antropologo in cerca di una prospettiva sul mondo. Proseguiranno il viaggio oltre i confini cinesi e più a lungo di quanto si sarebbero attesi, per cercare Chen tra le montagne impercorribili dell’Himalaya, fin quando Gloria non verrà inghiottita da un crepaccio, la scena madre che apre l’intero romanzo
Il filo della storia si dipana su più linee temporali, riannodato in una narrazione parallela a quella dei due ragazzi i ricordi di Liang, vecchio amico e amante di Chen, e della sua vita di poeta attraverso il violento Novecento cinese. Pecere gestisce questo doppio sguardo, dai giovani italiani al vecchio cinese, con la resa di un caleidoscopio di immagini che sovrappongono il passato e il futuro a un presente, quello di Gloria, ipotecato da ciò che è già successo e che ora, con la scomparsa di Chen, solo Liang può spiegare. La vita di Chen e la sua pervicace mancanza diventano perciò il baricentro intero del libro, il perno attorno al quale ruotano le azioni di tutti gli altri.
La figura del padre ineffabile o in fuga, che cerca una soddisfazione personale e la felicità, atto non deprecato dal narratore ma che mal si accorda ai legami familiari e scatena la ricerca tutta, si ritrovava anche nel primo romanzo di Paolo Pecere, La vita lontana (Liberaria, 2018), nel quale una madre cresceva i figli gemelli dopo che il compagno l’aveva piantata per una vita più spirituale nei monasteri jainisti indiani. Anche qui un altrove raccontato partendo da un passato che segna così in profondità il presente dei figli, costretti da una spinta emotiva e ostinata alla ricerca delle radici che rendono possibile un qualsivoglia futuro. Il viaggio è un rito di passaggio esperienziale in entrambi i romanzi e coincide con la costruzione (o la scoperta) di sé, quasi muovendosi sulla scorta delle parole di Kant: «Non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza», dalla Critica alla ragion pura che uno dei protagonisti della Vita lontana porta con sé in valigia. Anche il viaggio di Chen è un denudarsi del proprio io da rimettere insieme dopo Tienanmen e l’allontanamento dalla patria, proprio lui, il rivoluzionario con la camicia bianca che strilla nel megafono e litiga con in poliziotti in borghese durante la «primavera di Pechino» culminata con la legge marziale e le truppe in piazza nel giugno del 1989. Il nuovo Chen, più maturo, non perdona al vecchio se stesso studente di aver aggredito la vita con così forte pertinacia, non è più toccato dagli antichi fuochi della passione politica, né all’apparenza da quella sentimentale: sia lui che Liang sono entrambi vecchi e consapevoli che tutto è impermanente, tutto muta in altro e niente ha importanza nell’eterno samsara di vita e rinascita.
L’attaccamento a questa vita preme grondando matericità e sapori attraverso il cibo servito ai protagonisti; i dialoghi sono punteggiati da tazze di tè consumate e di nuovo riempite in continuazione, la prosperità economica ha come controcanto i ricchi buffet di Macao, dim sum e tartine al granchio. Non è un caso che Wei, il fratello di Gloria, rientrasse al mattino «con le labbra lucide di grasso di maiale e in tasca mucchi di banconote sfuse», cibo per il corpo e per la sopravvivenza materiale. Nella lingua cinese il carattere per dire «casa», jiā, è un maiale sotto un tetto, a sottolineare come la carne che gronda un lardo ricco sia il primo mattone su cui fondare la famiglia. Un richiamo al cibo che si fa eco di una letteratura cinese del Novecento, quella di Yu Hua e di Mo Yan, in cui mangiare è allo stesso tempo cura, guarigione e privilegio, come gli spaghetti che vengono concessi a Gao Yang nella prigione delle Canzoni dell’aglio (traduzione di Maria Rita Masci, Einaudi) del premio Nobel cinese.
Paolo Pecere riesce a tenere in equilibrio le storie di ciascuno come zattere sul fiume costante della Storia già solcata per poi gettarsi nelle rapide scoscese di quella futuribile dei prossimi anni. Gli argini vengono non solo oltrepassati, ma anche confusi: lo stesso corpo di Gloria luogo di confine e conflitto tra l’ascendenza cinese di Chen, quella italiana di Raffaella e quella berlinese ascritta per cultura, il cui percorso di autodeterminazione culminerà con la ricerca dell’identità come spazio mutevole e aperto alla ricchezza deriva dall’incontro con l’altro da sé.
Risorgere è anche il quadro preciso della società sfilacciata del prossimo futuro, dove «disadattarsi, quando tutto è compromesso, è il male minore»; è la Berlino in cui studenti e artisti confluiscono a ripetere il miracolo di una salvifica, distopica arca «delle scopate interculturali, a confondere l’apocalisse con una festa inaugurale». L’apocalisse è questa vita rubata ai figli cresciuti precari e già condannati, «assordati dal botto avvenuto prima che nascessimo, gli sguardi bassi, le spalle rivolte al futuro, i piedi ficcati nelle macerie e una corrente che ci succhia indietro, nell’abbraccio geloso dei morti»: è la youlun del buddhismo, la ruota dell’esistenza, in cui tutto cambia, muore e risorge, diverso da prima.
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